N. 149 - Maggio 2020
(CLXXX)
Fascismo
“movimento”
e
fascismo
“regime”
per
uno
studio
del
Ventennio
di
Francesco
Bernardoni
La
distinzione
tra
fascismo
“movimento”
e
fascismo
“regime”
è
sempre
stata
un
tema
complesso,
fonte
di
numerose
polemiche
e
accuse
riguardo
una
riabilitazione
completa
sia
del
fascismo
sia
di
Mussolini.
Una
simile
distinzione
è
stata,
però,
sempre
considerata
un
problema
chiave
importantissimo
da
spiegare
e
cercare
di
risolvere,
che
aveva
visto
numerosi
tentativi
compiuti
da
storici
di
diversa
matrice
ideologica
tra
loro,
già
dagli
anni
del
Ventennio.
La
spiegazione
che
ne
dà
lo
storico
Renzo
De
Felice
è
una
delle
più
innovative
e
per
questo
anche
una
delle
più
apprezzate
e
criticate
allo
stesso
tempo.
Secondo
lo
storico,
bisognava,
per
prima
cosa,
tener
presente
un
fatto
evidente:
cioè
che
questo
problema
intorno
alla
distinzione
del
fascismo
era
stato
sollevato
sì
da
molti
storici,
ma
fuori
d’Italia.
Ne
trattavano
la
letteratura
e la
storiografia
in
Francia,
in
Inghilterra,
negli
Stati
Uniti
e
persino
in
Germania,
ma
in
Italia
la
cultura
storica
e
quella
politica
non
avevano
mai
affrontato
tale
distinzione,
oppure
lo
avevano
fatto
solamente
in
maniera
superficiale.
Questo,
spiegava
De
Felice,
è
successo
perché
in
Italia
esisteva,
ed
esiste
tutt’ora,
un
differente
condizionamento
su
simili
quesiti
rispetto
all’estero.
Non
si
deve
dimenticare
che
l’Italia
era
stato
il
teatro
di
una
sanguinosa
guerra
civile
che
aveva
minato
l’unità
nazionale
e il
senso
della
patria,
dividendo
gli
italiani.
Una
simile
frattura
si
era
propagata,
di
conseguenza,
anche
nell’ambito
accademico
e
storiografico,
oltre
che
in
quello
sociale
e
politico,
causando
l’assenza
di
un’analisi
più
approfondita
di
tutto
il
fascismo.
Detto
ciò,
il
discorso
intorno
alla
distinzione
tra
fascismo
“movimento”
e
“regime”
resta
fondamentale
e De
Felice
ne
spiegava
così
i
motivi.
Il
primo
aspetto,
ossia
il
“movimento”,
è
una
costante
della
storia
del
fascismo:
una
costante
che
perde
man
mano
importanza
e
viene
collocata
gradualmente
sullo
sfondo,
ma
che
resta
presente
per
tutto
il
tempo.
Il
fascismo
“movimento”
collega
di
fatto
il
marzo
del
1919
all’aprile
del
1945.
Il
fascismo
“regime”
è,
invece,
un’altra
cosa.
È
chiaro
che
i
due
fenomeni,
per
quanto
legati,
fossero
allo
stesso
tempo
caratterizzati
fra
loro
in
maniera
molto
diversa
e,
si
potrebbe
dire,
opposta.
Il
fascismo
“movimento”
aveva
un’ideologia
legata
alla
tradizione
illuminista
e
giacobina,
era
espressione
dei
ceti
medi
“emergenti”
che
ne
costituivano
una
sorta
di
“spina
dorsale”,
era
antimonarchico,
anticlericale,
repubblicano.
Una
delle
idee
dominanti
che
lo
costituivano
si
basava
sul
vitalismo,
sull’azione
risolutrice
impersonata
dallo
squadrismo
e
dall’arditismo
dannunziano,
sull’imposizione
perenne
dei
valori
della
guerra
e,
soprattutto,
sull’assenza
di
compromessi
con
la
vecchia
classe
dirigente
che
governava
il
Paese.
In
ultima
istanza,
tale
fenomeno
aveva
una
sua
linea
che
costituiva
una
frattura
tra
prefascismo
e
fascismo
“regime”
e
che
si
ricollegava
direttamente
all’ideologia
e ai
valori
della
Repubblica
sociale.
Parlando
del
fascismo
“regime”,
invece,
De
Felice
spiegava
come
questo
fosse
altra
cosa
rispetto
al
“movimento”
poiché,
a
partire
dal
1925,
il
“regime”
era
stato
caratterizzato
da
una
serie
di
compromessi
proprio
con
ciò
a
cui
si
era
opposto
il
“movimento”
medesimo:
la
monarchia,
la
classe
dirigente
tradizionale,
la
Chiesa,
i
grandi
industriali
e la
grande
borghesia.
Il
“regime”
consisteva
essenzialmente
nella
politica
di
Mussolini,
era
il
risultato
di
una
condotta
che
tendeva
a
rendere
il
fascismo
la
sovrastruttura
di
un
potere
personale,
di
una
dittatura
e di
una
linea
politica
sempre
meno
innovativa
e
sempre
più
legata
alla
tradizione.
Ecco
perché
si
crea
una
spaccatura
evidente
tra
“movimento”
e
“regime”:
perché
essa
costituisce
una
frattura
tra
“idea”
e
“realtà”
del
fascismo.
Il
“regime”
era
il
tentativo
di
realizzare
a
livello
pratico
l’idea
rappresentata
dal
“movimento”,
di
renderla
appunto
una
realtà.
Tale
tentativo
era
ostacolato,
però,
da
difficoltà
obiettive,
che
in
parte
venivano
superate
proprio
dai
compromessi
fatti
dal
duce
con
le
vecchie
forze
politiche
e
sociali.
La
personalità
di
Mussolini
è
decisiva
per
comprendere
il
fascismo.
“Movimento”
e
“regime”
sono
sì
cose
vere,
ma
il
momento
di
sintesi
tra
questi
due
aspetti
del
fascismo
è
proprio
Mussolini.
A
questo
punto,
è
necessario
domandarsi
se
sia
lecito
parlare
di
tradimento
del
movimento
fascista,
così
come
asserivano
i
fascisti
della
prima
ora.
Prima
di
tutto,
bisogna
tenere
conto
di
quanto
l’elemento
del
tradimento
avesse
contribuito
ad
ampliare
la
frattura
tra
un
fascismo
“movimento”
e un
fascismo
“regime”,
caratterizzando
il
pensiero
dei
fascisti
di
Salò,
che
erano
in
buona
parte
collegati
(o
lo
erano
stati)
ai
fascisti
della
prima
ora.
Tenuto
in
considerazione
questo
fatto,
De
Felice
non
era
d’accordo
con
la
definizione
di
tradimento
di
una
qualsiasi
rivoluzione,
ideologia
o
resistenza,
ritenendo
dannoso
e
sbagliato
fare
un
discorso
di
questo
tipo
a
livello
storico.
D’altronde,
era
necessario
partire
da
un
punto
fermo
per
poter
chiarire
questa
sua
affermazione:
qualunque
fenomeno
è il
risultato
di
svariate
e
molteplici
cause.
Stabilito
questo
punto,
lo
storico
sosteneva
come
non
si
potesse
ricorrere
a
simili
schematizzazioni
per
fenomeni
così
complessi,
parlando
di
tradimenti.
Anzi,
devono
essere
considerate
ogni
volta
le
circostanze
storiche
per
cui
una
certa
soluzione,
che
poi
si
dirà
tradita,
non
poteva
essere
adottata
per
mancanza
di
condizioni
favorevoli
o di
persone
disposte
a
prenderla
in
considerazione.
Parlare
di
tradimento
risulta,
a
questo
punto,
una
polemica
sterile
e di
nessuna
utilità.
Infine,
è
essenziale
capire
perché
all’inizio
del
governo
di
Mussolini
si
fosse
creata
una
forte
contrapposizione
tra
“intransigenti”
e
“fiancheggiatori”
al
suo
interno.
Una
contrapposizione
che
all’inizio
aveva
provocato
diverse
difficoltà
al
duce
e
aveva
rischiato
di
causare
il
declino
del
fascismo,
nato
da
pochi
anni
e al
potere
da
ancor
meno.
De
Felice
illustrava
allora
il
contesto
politico
degli
anni
1922-
1925,
affermando
che
per
la
classe
dirigente
tradizionale
il
fascismo
non
avrebbe
avuto
vita
lunga
né
avrebbe
innovato
granché
del
sistema
vigente,
ritenendolo
utile
solo
per
“ridinamizzare”
e
consolidare
lo
status
quo.
Questa
prospettiva
era,
però,
inammissibile
per
il
fascismo
e
soprattutto
per
la
parte
legata
al
fascismo
“movimento”,
che
non
solo
aspirava
a
una
partecipazione
più
ampia,
ma
si
poneva
come
alternativa
rispetto
a
una
classe
dirigente
ormai
vecchia
e
atrofizzata
sul
piano
politico
e
sociale.
Per
tutta
la
prima
fase
del
governo
di
Mussolini
vi
fu,
dunque,
un
continuo
scontro
tra
gli
“intransigenti”,
aspiranti
a
una
seconda
ondata
rivoluzionaria
dopo
la
marcia
su
Roma,
e i
fiancheggiatori,
aspiranti
a
una
normalizzazione
del
quadro
politico.
Durante
la
crisi
scaturita
dal
delitto
Matteotti,
però,
l’intransigentismo
era
stato
il
solo
a
rimanere
fedele
a
Mussolini
e
ciò
aveva
indotto
la
classe
dirigente
a
continuare
sulla
strada
del
compromesso
di
due
anni
prima.
Per
tale
motivo,
tra
un
“salto
nel
buio”
e
Mussolini,
i
“fiancheggiatori”
avevano
scelto
quest’ultimo
per
non
compromettere
le
proprie
posizioni
economiche,
politiche
e
morali;
il
loro
intento
era
quello
di
salvare
le
strutture
indispensabili
di
quel
sistema,
cercando
di
assorbire
Mussolini
e
una
parte
del
fascismo
“movimento”
e
ricondurli
nel
quadro
di
stabilità
e
normalità,
in
cambio
della
rinuncia
alla
gestione
politica
diretta
del
potere.
Riferimenti
bibliografici:
A.
Cappa,
Due
rivoluzioni
mancate,
Campitelli,
Foligno
1923.
R.
De
Felice,
M.A.
Ledeen
(a
cura
di),
Intervista
sul
fascismo,
Laterza,
Bari
1975.
M.
A.
Ledeen,
La
guerra
come
stile
di
vita,
in
S.
Ward
(a
cura
di),
La
Generazione
della
guerra,
Kennikat,
New
York
1975.
L.
Salvatorelli,
Nazionalfascismo,
Gobetti,
Torino
1923.