[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

188 / AGOSTO 2023 (CCXIX)


contemporanea

SEMANTICA FASCISTA
SUI CAMBIAMENTI DELLA LINGUA ITALIANA NEL VENTENNIO

di Federica Ambroso

 

Il fascismo riveste grande interesse dal punto di vista linguistico; nel progetto di costruzione di un’Italia nuova, il regime si propose infatti di disciplinare l’intero repertorio linguistico italiano su due direttrici: il controllo della lingua nazionale e la lotta ai dialetti e ai forestierismi.

 

Una delle più importanti battaglie di propaganda del regime fu la diffusione di una lingua comune, nuova, virile, radicata nell’intimità delle persone. Il principio di un’autarchia linguistica assunse un ruolo di primo piano assieme all’educazione dei giovani e al controllo della libertà espressiva, fondamentali per la creazione di un popolo nuovo e coeso che doveva “credere, obbedire, combattere”.

 

La rivoluzione linguistica partiva dalla scuola, con l’ambizione di azzerare ogni analfabetismo. La Riforma Gentile del 1923, appoggiata da Giuseppe Lombardo Radice, portò il dialetto lingua viva nelle scuole come punto di partenza per l’apprendimento dell’italiano. Al fine di modellare ideologicamente i bambini, “esercito di domani”, venne introdotto in tutte le scuole del Paese il libro di testo unico, edito dalla Libreria dello Stato e incentrato sulla storia della rivoluzione fascista e sui suoi protagonisti.

 

Il controllo esercitato sulla lingua nazionale si accompagnò all’ostilità nei confronti dei dialetti e delle parole straniere, nella convinzione che i popoli forti dovessero imporre il loro linguaggio. La lotta ai dialetti, dettata dal timore di eventuali spinte regionalistiche, fu intrapresa in parallelo alla repressione delle minoranze tedesche, francesi, slave e ladine. Un decreto legge del 1923 impose nella provincia di Trento l’uso dell’italiano nelle insegne, la sostituzione dei toponimi tedeschi con altri italiani e il ripristino delle forme originarie dei cognomi latini o italiani alterati sotto la dominazione austriaca.

 

Le parole straniere erano viste come mali da estirpare nel nome di una pretesa “purezza dell’idioma patrio”. Nel 1931 la Scena illustrata di Firenze inaugurò la rubrica “Difendiamo la lingua italiana”, mentre il quotidiano La Tribuna propose un concorso per trovare 50 parole italiane per sostituirne altrettante straniere e “ripulire” così la lingua.

 

Dopo il 1936, sulla spinta di un clima xenofobo, furono emanate molte leggi che scoraggiarono o proibirono l’uso di forestierismi. Nel 1940 vennero proibite in tutto il Regno le parole straniere in cartelli, inserzioni, intestazioni, insegne, e dal 1942 iniziarono a comparire elenchi di sostituzioni, ovvero di parole straniere con il corrispondente italiano. In molti casi furono proposte soluzioni davvero bizzarre e stravaganti: “fiorellare” per ”flirtare”, ”arlecchino” anziché “cocktail”, ”slancio” al posto di “swing”. L’Accademia d’Italia, oltre a fornire tali elenchi, si occupò di produrre un vocabolario nuovo e aggiornato, un’opera grandiosa, infarcita di citazioni mussoliniane. Tale impresa rimase tuttavia incompiuta a causa della guerra: il Vocabolario restò fermo alla lettera C.

 

Un’altra importante battaglia del fascismo fu quella condotta contro l’uso del “Lei” a favore del “voi” e del “tu”. Perfino il settimanale femminile Lei fu costretto a piegarsi a tale norma e a diventare Annabella. Non mancarono però le proteste, anche ironiche, come quella di Totò, che fece una gag su Galileo Galilei trasformandolo in Galileo Galivoi. Denunciato, a graziarlo fu un lapidario commento dello stesso Mussolini: «Fesserie».

 

Anche il cinema seguì le direttive della politica linguistica, anche se si nota una maggiore tolleranza rispetto alla stampa o alla letteratura. Nel 1933 venne reso obbligatorio il doppiaggio dei film stranieri. Nonostante la volontà unificatrice del regime, a metà degli anni Trenta, l’Italia contava una percentuale ancora alta di analfabeti e il dialetto rimaneva la lingua degli affetti e delle tradizioni.

 

La politica linguistica del fascismo, liturgia orchestrata dal segretario Achille Starace, fu un tentativo di manipolazione che alla fine si rivelò goffo e fallimentare. L’alfabetizzazione degli italiani non fu risolta, anzi, rimase un problema drammatico nel dopoguerra, così come il bilinguismo: nel 1951 il dialetto era ancora la lingua abituale per 4/5 della popolazione. Una funzione unificante sul piano linguistico venne svolta dalla televisione, a partire dal 1954, grazie anche a trasmissioni come “Non è mai troppo tardi” e “Telescuola”.

 

Il divieto del “Lei” si rivelò fallimentare, così come l’italianizzazione forzata. Anche se i toponimi in Alto Adige creati per assonanza sopravvivono tuttora, le minoranze slave e tedesche diedero adito a tentativi di separatismo e di restaurazione. Le espressioni del duce rimaste furono poche (bagnasciuga, colpo di spugna), e i sostituti italiani ebbero una modesta fortuna rispetto ai prestiti che avrebbero dovuto rimpiazzare fra tutti si ricordano le forme “regista” e “autista” proposte da Bruno Migliorini come alternative a “régisseur” e “chauffeur”.

 

Non solo: nel dopoguerra sono perfino entrate nella lingua italiana parole straniere inutili, di cui esisteva già un corrispondente italiano; comprensibile reazione all’assurdo tentativo del fascismo di imbrigliare e manipolare un organismo vivo come la lingua.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]