contemporanea
SEMANTICA
FASCISTA
SUI CAMBIAMENTI DELLA LINGUA ITALIANA
NEL VENTENNIO
di Federica Ambroso
Il fascismo riveste grande interesse dal
punto di vista linguistico; nel progetto
di costruzione di un’Italia nuova, il
regime si propose infatti di
disciplinare l’intero repertorio
linguistico italiano su due direttrici:
il controllo della lingua nazionale e la
lotta ai dialetti e ai forestierismi.
Una delle più importanti battaglie di
propaganda del regime fu la diffusione
di una lingua comune, nuova, virile,
radicata nell’intimità delle persone. Il
principio di un’autarchia linguistica
assunse un ruolo di primo piano assieme
all’educazione dei giovani e al
controllo della libertà espressiva,
fondamentali per la creazione di un
popolo nuovo e coeso che doveva
“credere, obbedire, combattere”.
La rivoluzione linguistica partiva dalla
scuola, con l’ambizione di azzerare ogni
analfabetismo. La
Riforma Gentile del 1923, appoggiata da
Giuseppe Lombardo Radice, portò
il dialetto lingua viva nelle scuole
come punto di partenza per
l’apprendimento dell’italiano. Al fine
di modellare ideologicamente i bambini,
“esercito di domani”, venne introdotto
in tutte le scuole del Paese il libro di
testo unico, edito dalla Libreria dello
Stato e incentrato sulla storia della
rivoluzione fascista e sui suoi
protagonisti.
Il controllo esercitato sulla lingua
nazionale si accompagnò all’ostilità nei
confronti dei dialetti e delle parole
straniere, nella convinzione che i
popoli forti dovessero imporre il loro
linguaggio. La lotta ai dialetti,
dettata dal timore di eventuali spinte
regionalistiche, fu intrapresa in
parallelo alla repressione delle
minoranze tedesche, francesi, slave e
ladine. Un decreto legge del 1923 impose
nella provincia di Trento l’uso
dell’italiano nelle insegne, la
sostituzione dei toponimi tedeschi con
altri italiani e il ripristino delle
forme originarie dei cognomi latini o
italiani alterati sotto la dominazione
austriaca.
Le parole straniere erano viste come
mali da estirpare nel nome di una
pretesa “purezza dell’idioma patrio”.
Nel 1931 la Scena illustrata di
Firenze inaugurò la rubrica “Difendiamo
la lingua italiana”, mentre il
quotidiano La Tribuna propose un
concorso per trovare 50 parole italiane
per sostituirne altrettante straniere e
“ripulire” così la lingua.
Dopo il 1936, sulla spinta di un clima
xenofobo, furono emanate molte leggi che
scoraggiarono o proibirono l’uso di
forestierismi. Nel 1940 vennero proibite
in tutto il Regno le parole straniere in
cartelli, inserzioni, intestazioni,
insegne, e dal 1942 iniziarono a
comparire elenchi di sostituzioni,
ovvero di parole straniere con il
corrispondente italiano. In molti casi
furono proposte soluzioni davvero
bizzarre e stravaganti: “fiorellare” per
”flirtare”, ”arlecchino” anziché
“cocktail”, ”slancio” al posto di
“swing”. L’Accademia d’Italia, oltre a
fornire tali elenchi, si occupò di
produrre un vocabolario nuovo e
aggiornato, un’opera grandiosa,
infarcita di citazioni mussoliniane.
Tale impresa rimase tuttavia incompiuta
a causa della guerra: il Vocabolario
restò fermo alla lettera C.
Un’altra importante battaglia del
fascismo fu quella condotta contro l’uso
del “Lei” a favore del “voi” e del “tu”.
Perfino il settimanale femminile Lei
fu costretto a piegarsi a tale norma e a
diventare Annabella. Non
mancarono però le proteste, anche
ironiche, come quella di Totò, che fece
una gag su Galileo Galilei
trasformandolo in Galileo Galivoi.
Denunciato, a graziarlo fu un lapidario
commento dello stesso Mussolini: «Fesserie».
Anche il cinema seguì le direttive della
politica linguistica, anche se si nota
una maggiore tolleranza rispetto alla
stampa o alla letteratura. Nel 1933
venne reso obbligatorio il doppiaggio
dei film stranieri. Nonostante la
volontà unificatrice del regime, a metà
degli anni Trenta, l’Italia contava una
percentuale ancora alta di analfabeti e
il dialetto rimaneva la lingua degli
affetti e delle tradizioni.
La politica linguistica del fascismo,
liturgia orchestrata dal segretario
Achille Starace, fu un tentativo di
manipolazione che alla fine si rivelò
goffo e fallimentare. L’alfabetizzazione
degli italiani non fu risolta, anzi,
rimase un problema drammatico nel
dopoguerra, così come il bilinguismo:
nel 1951 il dialetto era ancora la
lingua abituale per 4/5 della
popolazione. Una funzione unificante sul
piano linguistico venne svolta dalla
televisione, a partire dal 1954, grazie
anche a trasmissioni come “Non è mai
troppo tardi” e “Telescuola”.
Il divieto del “Lei” si rivelò
fallimentare, così come
l’italianizzazione forzata. Anche se i
toponimi in Alto Adige creati per
assonanza sopravvivono tuttora, le
minoranze slave e tedesche diedero adito
a tentativi di separatismo e di
restaurazione. Le espressioni del duce
rimaste furono poche (bagnasciuga, colpo
di spugna), e i sostituti italiani
ebbero una modesta fortuna rispetto ai
prestiti che avrebbero dovuto
rimpiazzare
–
fra tutti si ricordano le forme
“regista” e “autista” proposte da Bruno
Migliorini come alternative a
“régisseur” e “chauffeur”.
Non solo: nel dopoguerra sono perfino
entrate nella lingua italiana parole
straniere inutili, di cui esisteva già
un corrispondente italiano;
comprensibile reazione all’assurdo
tentativo del fascismo di imbrigliare e
manipolare un organismo vivo come la
lingua.
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