N. 54 - Giugno 2012
(LXXXV)
il farewell address di Washington
come nacque la politica estera americana
di Giovanni De Notaris
Quando,
nel
maggio
del
1796,
George
Washington
cominciò
a
vergare
alcune
note
per
il
suo
discorso
di
commiato,
era
piuttosto
stanco,
e
dolorante,
dopo
ben
otto
lunghi
anni
di
mandato,
incarico
non
particolarmente
bramato,
ma
che,
almeno
in
un
primo
momento,
aveva
accettato
di
ricoprire;
e
soltanto
per
due
anni.
I
due
sarebbero
diventati
poi
quattro
ma,
allo
scadere
del
primo
mandato,
il
generale
avrebbe
preferito
declinare
l’offerta
di
un
secondo.
Temeva
difatti,
che
se
fosse
morto
in
servizio,
sarebbe
diventato,
come
prescritto
dalla
costituzione,
presidente
il
suo
vice,
creando
così,
a
suo
parere,
una
sorta
di
mandato
ereditario,
sulla
falsariga
delle
odiate
monarchie
europee.
In
quel
momento
storico,
infatti,
non
sarebbe
stato
certo
un
buon
esempio
per
la
giovane
confederazione,
nata
proprio
in
opposizione
a un
concetto
ereditario,
e
autarchico,
delle
cariche
politiche.
Cosa
sarebbe
accaduto
se
anche
il
vice
fosse
deceduto
durante
l’incarico?
Si
sarebbe
forse
andati
avanti
per
otto
anni,
di
vice
in
vice?
Washington
preferiva
non
pensarci.
Il
generale
aveva
però
accettato,
perché
comprendeva
che
la
sua
stessa
presenza
avrebbe
ispirato
la
giovane
repubblica,
tenendola
unita,
e
forgiandone
saldamente
lo
spirito.
“His
Excellency”
nacque
nel
1732,
in
una
ricca
famiglia
di
proprietari
terrieri
della
Virginia.
Nonostante
la
sua
carriera
nell’esercito
britannico,
dove
raggiunse
il
grado
di
colonnello,
Washington
preferiva
la
bucolica
vita
da
agricoltore.
Amava
le
sue
piantagioni,
a
cui
più
volte
dedicò
instancabilmente
le
energie.
Nel
1775,
allo
scoppio
della
guerra
contro
la
madrepatria,
fu
nominato
comandante
dell’esercito
rivoluzionario,
temprandolo
in
maniera
esemplare,
e
divenendo
così
il
simbolo
assoluto
della
lotta
contro
l’oppressore
britannico.
Se i
giovani
stati
riuscirono,
dopo
lunghi
anni
di
guerra,
a
sconfiggere
l’odiata
madrepatria,
parte
del
successo
fu
dovuto
al
grande
prestigio
personale
di
cui
Washington
godeva
presso
le
truppe,
che
seppe
sempre
tenere
unite
e
galvanizzate.
Terminata
la
guerra
il
generale
si
ritirò,
di
nuovo,
a
vita
privata,
dedicandosi
alle
sue
piantagioni.
Ma
la
storia
lo
reclamava
per
un
fine
più
alto.
Dopo
aver
preso
parte
infatti,
nel
1787,
alla
convenzione
di
Filadelfia,
fu
eletto
primo
presidente
degli
Stati
Uniti
d’America,
dopo
la
ratifica
della
costituzione
da
parte
degli
stati
membri.
Washington
fu
l’unico
presidente
nella
storia
americana
a
essere
eletto
quasi
all’unanimità.
Dopo
la
guerra
di
indipendenza,
lo
spirito
unitario
della
giovane
confederazione
stava
venendo
meno,
e
così
la
sua
persona,
percepita
da
tutti
con
un’aura
di
divinità,
fu
il
perno
attorno
a
cui
ruotò
la
nuova
filosofia
di
vita
americana.
Ma
il
primo
presidente,
oltre
ai
meriti
militari,
ne
ebbe
anche
un
altro,
quello
di
aver
lasciato
alla
giovane
nazione
il
primo
caposaldo
assoluto
della
sua
futura
politica
estera:
il
suo
Farewell
Address.
Washington,
che
certo
non
era
un
abile
scrittore,
chiese
aiuto
per
la
stesura
a
Alexander
Hamilton,
suo
segretario
al
Tesoro,
che
suggerì,
tra
l’altro,
al
presidente
di
pubblicare
il
discorso
sui
giornali,
di
modo
che
tutti
i
cittadini
potessero
prenderne
visione.
E
finalmente,
nel
settembre
del
1796,
il
discorso
fu
pronto.
Il
messaggio
fu
di
una
potenza
straordinaria,
tutt’oggi
una
pietra
miliare
nella
storia
della
politica
estera
americana.
I
punti
salienti
prendevano
ovviamente
le
mosse
dagli
avvenimenti
dell’epoca.
Innanzitutto
il
presidente
condannava
la
creazione
dei
partiti,
perché,
a
suo
giudizio,
il
dualismo
partitico
avrebbe
danneggiato
profondamente
l’unità
della
nazione,
aprendola
a
possibili
interferenze
straniere.
Ma
in
che
senso?
Washington
aveva
in
mente
la
forte
disputa,
nata
in
seguito
al
trattato
stipulato
dal
suo
inviato
John
Jay,
nel
1793,
con
l’ex
madrepatria,
tra
coloro
che
sostenevano
la
Francia,
come
Thomas
Jefferson,
e
quelli
che,
come
Hamilton,
rivendicavano,
al
contrario,
la
special
relationship
con
l’Inghilterra.
Il
trattato
stipulato
con
l’Inghilterra,
fu
una
conseguenza
della
neutralità
che
Washington
proclamò,
nel
1793
appunto,
durante
la
guerra
tra
i
due
paesi
europei.
La
politica
americana
si
divise:
il
segretario
di
Stato
Jefferson
sosteneva,
difatti,
che
il
paese
dovesse
intervenire
a
fianco
della
Francia,
vecchio
alleato,
mentre
Hamilton
sosteneva,
al
contrario,
l’appoggio
all’Inghilterra.
Per
la
prima
volta
nella
loro
giovane
storia,
allora,
seppur
in
una
forma
embrionale,
si
affermarono
due
correnti
politiche,
quella
repubblicana
e
quella
federalista.
Washington
capì
che
questo
rischiava,
di
nuovo,
di
minare
la
salda
unità
che,
a
suo
parere
invece,
gli
Stati
Uniti
dovevano
mostrare
di
fronte
alla
non
interferenza
nelle
polemiche
antidemocratiche
del
vecchio
continente.
La
sorte
gli
fu
fortunatamente
amica.
Quando
difatti
vennero
a
galla
le
atrocità
commesse
durante
la
rivoluzione
francese,
Jefferson
inorridì,
e il
sostegno
della
sua
fazione
al
vecchio
alleato
decadde
per
sempre.
Allo
stesso
tempo
però,
quando
l’Inghilterra,
temendo
comunque
il
sostegno
statunitense
alla
Francia,
cominciò
a
sequestrare
le
navi
americane
nell’Atlantico
-
oltre
a
fomentare
rivolte
indiane
in
territorio
nordamericano
-,
anche
Hamilton
e i
suoi
dovettero
convenire
che
era
meglio
tenersi
alla
larga
dall’Europa.
Ma
il
presidente
comprendeva,
che
pur
perseguendo
la
neutralità,
quegli
atti
di
sabotaggio
e
pirateria,
avrebbero
danneggiato
il
florido
commercio
navale
statunitense.
È fu
così
che
delegò
Jay
a
trattare
un
accordo
con
l’ex
madrepatria
che
però,
condizionò
comunque,
seppur
parzialmente,
il
commercio
americano.
Ciò
che
contava,
a
ogni
modo,
era
l’aver
evitato
una
nuova
guerra;
guerra
che
gli
Stati
Uniti
non
avrebbero
potuto
permettersi
di
combattere.
Per
Washington
già
solo
questo
rappresentava
un
grande
successo.
Ma
le
differenze
politiche
erano
comunque
definite.
Il
Farewell
Address
allora,
memore
di
questo
evento,
raccomandava,
in
politica
estera,
soltanto
alleanze
temporanee
con
altri
paesi.
Il
non
mescolarsi
con
paesi
stranieri
-soprattutto
europei-,
profondamente
antidemocratici,
avrebbe
permesso
agli
Stati
Uniti
di
preservare,
secondo
Washington,
la
loro
unicità
politica
e
morale;
quel
cosiddetto
“eccezionalismo
americano”,
che
sotto
la
guida
di
una
benevola
provvidenza,
avrebbe
reso
gli
Stati
Uniti
una
nazione
in
continua
espansione,
esempio
assoluto
di
libertà,
e
guida
del
mondo
civile,
proprio
in
virtù
della
sua
superiorità
morale.
Ma
questo
eccezionalismo,
che
nel
corso
dell’Ottocento
avrebbe
indossato
i
panni
del
più
noto
concetto
di
Manifest
Destiny,
sarebbe
venuto
meno,
secondo
il
presidente,
se
ci
si
fosse
impantanati
nei
conflitti
europei.
Nel
discorso,
comunque,
il
presidente
non
negava
affatto
rapporti
con
paesi
stranieri.
Bisognava,
anzi,
intrattenere
relazioni
commerciali
pacifiche
– ma
non
definitive
-
con
altre
nazioni;
ma
sempre
chiaramente
a
vantaggio
dei
propri
interessi.
E
questo
aspetto
mercantile
della
politica
estera
americana
non
è
mai
tramontato.
Il
Farewell
Address,
quindi,
non
auspicava
affatto
una
politica
estera
isolazionista
-cosa
di
cui
impropriamente
gli
Stati
Uniti
vengono
accusati-
ma
soltanto
la
necessità
di
non
legarsi
a
paesi
che
potevano
danneggiare
lo
spirito
di
libertà
e
uguaglianza;
i
due
concetti
fondanti
dell’America.
Tra
l’altro,
come
poi
si
sarebbe
visto
dall’Ottocento
in
poi,
l’idea
di
intrattenere
rapporti
commerciali
con
altri
paesi,
nello
specifico
dell’emisfero
americano
o
del
lontano
Oriente,
sarebbe
diventato
anche
un
mezzo
per
poter
condizionare
l’andamento
politico
di
quelle
realtà,
tradendo
però
in
parte
il
messaggio
del
primo
presidente.
Impelagarsi
in
questioni
politiche,
estranee
al
contesto
americano,
avrebbe
condizionato
-
come
poi
accadde,
ad
esempio,
nei
casi
del
Vietnam
o
dell’Iraq
-
anche
la
politica
interna
degli
Stati
Uniti,
rendendoli
così
schiavi
di
ideologie
politiche
arretrate
o
antidemocratiche.
Ovviamente
i
tempi
cambiano
e,
certo,
Washington
non
poteva
prevedere
– e
sicuramente
non
si
augurava
-
che,
dal
Novecento
in
poi,
il
suo
paese
sarebbe
diventato
una
potenza
globale,
con
responsabilità
-
economiche
e
politiche
-
praticamente
ovunque
e,
quindi,
necessariamente
condizionato
da
alleanze,
o
interferenze,
con
altri
paesi.