N. 39 - Marzo 2011
(LXX)
Dynasty siriana
la famiglia Assad e la "democrazia araba"
di Lawrence M.F. Sudbury
Se
in
uno
Stato
il
titolo
di
"Presidente
della
repubblica"
viene
tenuto
dalla
stessa
persona
per
decine
d'anni
e,
alla
sua
morte,
passa
di
padre
in
figlio,
possiamo
parlare
di
democrazia?
La
domanda
può
apparire
oziosa
agli
occhi
di
un
occidentale:
per
noi,
cresciuti
nell'illusione
di
una
sovranità
popolare
che
si
esprima
ad
ogni
fine
mandato
con
una
elezione
libera
e
multipartitica
(senza
tener
conto,
ma
sono
danni
collaterali
dell'ideologia
imperante,
di
quanto
tale
sovranità
sia,
in
realtà,
frammischiata
ad
elementi
di
oligarchia
politica
e di
plutocrazia)
la
risposta
non
può
che
essere
negativa.
Per
noi,
una
situazione
come
quella
descritta
può
essere
definita
con
un
solo
nome:
dittatura.
E,
il
più
delle
volte,
anche
aprendosi
ad
una
visione
più
ampia
del
termine
"democrazia",
non
sbagliamo:
certamente
non
avremmo
potuto
e
non
potremmo
definire
"democratici"
i
regimi
di
"Papà
Doc"
e
"Baby
Doc"
Duvalier
ad
Haiti
o di
Kim
Il-Sung
e
Kim
Jong-il
in
Corea
del
Nord.
Per
quanto
discutibile
possa
essere
fare
distinguo
in
questo
genere
di
argomenti,
il
discorso
è,
però,
un
po'
diverso
se
ci
approcciamo
al
mondo
arabo.
Qui,
pur
nella
precarietà
di
un
sistema
in
rapida
evoluzione,
come
dimostrano
i
recenti
avvenimenti
di
inizio
anno,
gli
esempi
di
"presidenza
decennale"
sono
numerosi:
Ben
Alì
in
Tunisia
è
stato
Presidente
per
24
anni
(succedendo
a
Bourguiba
che
lo
era
stato
per
30)
prima
di
essere
cacciato
più
per
ragioni
economiche
legate
alla
crisi
internazionale
che
per
questione
di
"diritto
elettorale"
e
Mubarak
in
Egitto,
scosso
dalla
medesima
crisi
e
obbligato
prima
a
rimpasti
governativi
e
poi
alle
dimissioni,
ha
retto
al
potere
29
anni
...
Eppure,
nonostante
ciò,
nonostante
le
legittime
critiche
all'autoritarismo
di
regimi
spesso
duramente
repressivi,
molto
difficilmente,
ancora
oggi,
un
tunisino
o un
egiziano,
qualora
interrogati
in
proposito,
affermerebbero
di
aver
vissuto
o di
vivere
sotto
una
dittatura.
Perché?
Perché
esiste
un
concetto
socio-politico
che
potremmo
definire
"democrazia
araba",
che
è
piuttosto
nettamente
discordante
rispetto
alla
visione
occidentale
del
sistema
democratico.
Per
capire
il
senso
della
"democrazia
araba"
dobbiamo
rifarci
a
due
elementi
culturali
di
estrema
importanza
nel
mono
musulmano:
la
mancata
separazione
tra
ambito
laico
e
ambito
religioso
e le
nozioni
tradizionali
di
califfato
e
sultanato.
Cominciamo
dal
secondo
punto
per
arrivare
al
primo.
In
sostanza,
un
califfo
è,
notoriamente,
un
successore
in
linea
diretta
del
Profeta
che
ha,
per
questo
stesso
fatto,
autorità
spirituale
e
temporale
sulla
sua
Nazione.
Il
califfato,
nonostante
asserzioni
contrarie
da
parte
di
alcune
dinastie
tutt'ora
regnanti
(quella
del
Marocco,
solo
per
fare
un
esempio)
tramontò
formalmente
con
l'invasione
mongolica
e la
conquista
di
Bagdad
del
1258,
venendo
sostituito,
poco
più
tardi,
dal
sultanato,
cioè
dall'entità
territoriale
retta
da
un
sultano,
semplicemente
un
re
più
o
meno
assoluto
(nella
stragrande
maggioranza
più
più
che
meno)
che,
però,
sempre
più
venne
ad
assumere
sopra
di
sé
le
caratteristiche
che
erano
state
dei
califfi,
pur
non
esercitandone
lo
stesso
livello
di
autorità
spirituale.
Tali
caratteristiche
includevano,
soprattutto,
la
"designazione
divina"
del
sultano
e,
conseguentemente,
la
sua
investitura
di
un
potere
voluto
da
Dio
e
quindi
insindacabile.
In
fondo,
non
si
trattava
di
qualcosa
di
radicalmente
differente
rispetto
alla
cosiddetta
"monarchia
moderna"
del
basso
medioevo
europeo
in
cui
il
re
veniva
incoronato
come
"prescelto"
dalla
volontà
divina,
ma,
e
qui
entra
in
gioco
la
unitarietà
tipicamente
musulmana
tra
fede
e
politica,
in
una
società
dove
laicità
e
religiosità
non
hanno
distinzione,
era
ovvio
che
tale
istituzione
permanesse
inalterata
ben
più
a
lungo
che
laddove,
come
in
Europa,
tale
distinzione
venne
attuata
sempre
più
a
partire
dal
XVII
secolo.
Sempre
nel
quadro
dell'indistinzione
tra
i
due
ambiti,
va
anche
considerato
che,
naturalmente,
la
gerarchia
politica
non
possa
che
essere
un
riflesso
della
gerarchia
religiosa
e
notoriamente,
all'interno
di
qualsiasi
gerarchia
religiosa,
ontologicamente
iperverticistica,
qualunque
assunzione
sacrale
è
perenne
e
definitiva
(si
pensi
alla
carica
papale,
ad
esempio),
come,
appunto,
doveva
essere
l'assunzione
del
ruolo
di
sultano.
Ma
se,
come
si è
detto,
la
società
arabo-islamica
non
ha
effettuato
(se
non
in
pochissimi
casi
e,
soprattutto,
solo
in
ristretti
segmenti
sociali
più
aperti,
per
varie
ragioni,
alla
penetrazione
di
concetti
stranieri)
la
divaricazione
degli
ambiti
che
è
stata
propria
del
processo
evolutivo
occidentale,
risulta
evidente
che,
in
qualche
modo,
la
concezione
"sultanale"
del
potere
sia
rimasta
patrimonio
culturale
condiviso
all'interno
del
mondo
arabo
e
abbia
finito
per
riversarsi
anche
sulla
figura
presidenziale
in
quegli
Stati
passati
al
regime
repubblicano.
Il
risultato
di
tale
processo
è
che
l'investitura
del
Presidente
abbia
finito
per
avere,
quantomeno
a
livello
subconscio,
un
carattere
semisacrale
e,
soprattutto,
definitivo.
Insomma,
un
Presidente
risulta,
nell'inconscio
collettivo
arabo,
qualcosa
di
molto
prossimo
ad
una
sorta
di
Mahdi
(almeno
per
alcune
caratteristiche),
voluto
da
Allah
per
il
governo
di
una
determinata
parte
della
"ummah"
e
scelto
"una
volta
per
tutte".
Siamo
dunque
di
fronte
ad
una
teocrazia?
In
realtà
non
esattamente
e
non
completamente.
Chi
è
garante
della
volontà
divina?
La
ummah
stessa,
la
comunità
di
tutti
i
credenti
nella
vera
fede,
ed è
qui
che
risiede
quel
(per
noi
minimo)
margine
di
volontà
popolare
che
permette
al
cittadino
egiziano,
tunisino
o
siriano
di
ritenere
di
vivere
in
una
democrazia:
la
collettività
vota
periodicamente
in
quelle
che
per
noi
sono
elezioni
truffa
di
stampo
plebiscitario
(normalmente
a
candidato
unico
o
"reso"
unico
con
metodi
piuttosto
spicci
e
polizieschi)
ma
il
suo
voto
per
il
sì o
per
il
no
al
Presidente
è,
di
fatto,
la
conferma
da
parte
della
ummah
che
il
potere
è in
mano
ad
un
uomo
"voluto
da
Dio"
per
quella
posizione
(e
poco
importa
se
psicologicamente
è
assolutamente
scontato
che
la
maggioranza
voti
per
un
sì
certo
piuttosto
che
per
un
no
incerto,
nebuloso
e
non
specificato).
Questo
è il
cuore
della
"democrazia
araba"
e
non
è un
caso
che
anche
in
Nazioni
in
cui
esiste
un
buon
livello
di
apertura
dal
punto
di
vista
della
libertà
religiosa
esistano
sempre
leggi
che
garantiscano
che
il
Presidente
sia
un
musulmano:
egli
è,
per
antonomasia,
il
garante
della
stabilità
della
ummah
nella
stessa
misura
in
cui
la
ummah
è
garante
del
suo
potere.
Ebbene,
se
in
una
Nazione
questo
processo
ha
assunto
una
dimensione
assolutamente
istituzionalizzata,
questa
Nazione
è la
Siria
dei
Presidenti
Hafez
Assad
e
Bashar
Assad,
padre
e
figlio
che,
pur
con
stili
politici
e di
leadership
completamente
differenti,
hanno
saputo
a
lungo
garantire
al
loro
popolo,
sebbene
con
metodi
spesso
per
noi
inaccettabili,
una
stabilità
della
ummah
tale,
dopo
i
quasi
tre
decenni
di
turbolenza
politica
seguiti
all'indipendenza
dalla
Francia,
da
farsi
quasi
idolatrare
dai
siriani
(in
particolare
Assad
padre).
Proviamo
a
seguire
la
parabolo
dell'ascesa
al
potere
di
questa
famiglia
"reale/presidenziale".
Hafez
Assad
emerse
dal
caos
dei
disordini
civili
e
dei
cicli
di
sanguinosi
colpi
di
stato
che
avevano
caratterizzato
gli
anni
della
politica
postcoloniale
siriana.
La
sua
ascesa
avvenne
all'interno
della
fila
dei
baathisti
radicali,
membri
di
un
partito
socialista
che
mirava
a
costruire
uno
Stato
pan-siriano
che
dal
Libano
si
estendesse
attraverso
l'Iraq
e a
sud
verso
l'Egitto
e
che,
una
volta
preso
il
potere,
si
era
fortemente
diviso
tra
leader
estremisti
civili
e
capi
militari
più
moderati.
Come
ministro
della
difesa
del
Paese
dal
1966
al
1971,
Assad
si
era
rifiutato
di
fornire
l'aiuto
della
Siria
ai
militaristi
nella
loro
campagna
per
aiutare
i
Palestinesi
che
combattevano
per
rovesciare
il
re
di
Giordania
e,
proprio
a
causa
della
sua
riluttanza
a
schierare
più
forze,
i
carri
armati
siriani
erano
stati
sonoramente
sconfitti.
Curiosamente,
però,
fu
la
leadership
civile
che
si
prese
gran
parte
della
colpa
e,
ancora
più
paradossalmente,
fu
questa
debacle
che
portò
al
colpo
di
stato
che
diede
il
potere
ad
Assad
Senior
nel
novembre
1970,
innalzandolo
alla
presidenza
all'inizio
dell'anno
seguente
con
uno
schiacciante
sostegno
politico
per
essere
stato
l'"unico
a
prevedere
la
sconfitta
e
l'umiliazione
derivatane".
Da
subito
il
nuovo
rais
diede
inizio
ad
un
periodo
di
mobilitazione
politica
e di
accentramento
del
potere,
sotto
l'egida
secolare
del
Partito
del
Fronte
Nazionale
Progressista
ma
anche,
sulla
base
di
quanto
detto
riguardo
alla
"presidenze
arabe",
facendo
leva
sui
sentimenti
islamici
della
popolazione.
È
proprio
l'utilizzo
di
questo
doppio
registro
che
caratterizzerà
tutta
la
presidenza
di
Assad
padre.
L'esempio
più
evidente
può
essere
rinvenuto
nel
1973,
allorché
il
Presidente
decise
di
modificare
radicalmente
la
Costituzione
del
Paese:
pur
indicando
la
Sha'aria
come
fonte
principale
della
legislazione,
in
nome
della
laicità
socialista
non
volle
indicare
l'Islam
come
religione
di
Stato
e
alcuni
islamisti
misero
in
scena
una
serie
di
rivolte
nelle
città
sunnite
di
Hamah
e
Homs.
Qui
Assad
compì
il
suo
capolavoro
politico:
per
placare
i
suoi
elettori,
al
posto
di
dichiarare
la
Siria
uno
Stato
islamico,
il
Presidente
fece
approvare
una
disposizione
secondo
la
quale
il
Presidente
deve
essere
musulmano
e,
così
facendo,
riuscì
a
salvare
"capra
e
cavoli",
mantenendo
lo
Stato
laico,
ma
pacificando
la
fazione
islamica.
In
seguito,
sotto
la
dottrina
del
partito
Baath,
Assad
riuscì
con
cura
artigianale
a
tessere
un
insieme
di
politiche
che,
pur
mantenendo
la
dottrina
socialista
e
laica,
tesero
la
mano
alle
minoranze
etniche
e
aprirono
ad
alleanze
regionali,
chiudendo
per
sempre
ogni
possibilità
di
dispute
tribali
(quelle
stesse
dispute
che
avevano
insanguinato
la
Siria
per
secoli):
questo
è
sostanzialmente
quell'ordine
della
ummah
che
gli
si
richiedeva
per
diventare
protagonista
di
una
"democrazia
araba".
Ciò,
insieme
all'utilizzo
di
una
campagna
mirata
ma
spietata
di
intimidazione
e
oppressione
politica
e al
ricorso
continuo
alla
polizia
segreta
permise
al
Presidente
di
ridurre
al
silenzio
ogni
opposizione
e di
superare
la
prova
più
difficile,
il
fallimento
nel
1973
della
Guerra
dello
Yom
Kippur
contro
Israele.
Altro
elemento
distintivo
di
Assad
Senior
sarà,
in
seguito,
la
capacità
di
adattarsi
al
mutamento
degli
scenari
politici
per
cambiar
rapidamente
rotta:
esempi
in
questo
senso
sono
dati
da
quanto
accadde
nel
1991,
quando
la
Siria,
da
sempre
una
dei
più
acerrimi
nemici
di
Stati
Uniti
e
Israele,
si
schierò
con
la
coalizione
a
guida
USA
per
rovesciare
Saddam
Hussein
dopo
l'invasione
del
Kuwait
o
dalla
negoziazione
del
2000,
quasi
andata
a
buon
fine,
per
un
ritiro
israeliano
dalle
alture
del
Golan.
Insomma,
Hafez
Assad
ha
raccolto
in
sé
tutte
le
caratteristiche,
comuni
a
pochi
personaggi
quali
Gheddafi
o
Arafat,
capaci
di
fare
di
un
Presidente
un
vero
"rais",
una
figura
carismatica,
guida
indiscussa
del
popolo,
amato
fino
all'idolatria
(e
odiato
dai
pochi
nemici
interni
e
dai
molti
esterni),
garante
di
stabilità
e
continuità
e
capace
di
imprimere
un
corso
personale
al
proprio
Paese.
Poi,
però,
la
sua
salute,
alla
fine
degli
anni
'80,
ha
cominciato
a
deteriorarsi
e
dalla
metà
del
decennio
successivo
il
maggiore
fronte
di
lotta
contro
cui
ha
dovuto
combattere
è
stato
quello
legato
ai
problemi
cardiaci,
al
linfoma
che
lo
ha
colpito
e
all'insufficienza
renale
che
ha
martoriato
i
suoi
ultimi
anni.
È
proprio
in
questi
anni
che
Assad
mette
a
segno
un
colpo
che
poteva
apparire
impossibile
persino
in
una
"democrazia
araba":
riesce
ad
eliminare
uno
dopo
l'altro
tutti
gli
ostacoli
burocratici
e
politici
ad
una
"successione
dinastica"
alla
presidenza
per
uno
dei
suoi
figli.
Il
prescelto
iniziale
è
Bassel,
il
primogenito:
bello,
carismatico,
amatissimo
dal
popolo,
campione
di
tiro
e di
equitazione,
Bassel
sembra
la
scelta
perfetta,
ma
un
incidente
d'auto
causato
dalla
nebbia
lo
stronca
a
solo
32
anni,
nel
1994,
sulla
via
dell'aeroporto
della
capitale
siriana.
È
allora
la
volta
del
secondogenito
Bashar,
che
viene
richiamato
rapidamente
da
Londra
dove
sta
svolgendo
un
internato
in
oftalmologia
dopo
essersi
laureato
in
medicina
all'Università
di
Damasco
e
che
viene
rapidamente
promosso
colonnello
dell'esercito
(nell'arco
di
soli
cinque
anni,
senza
aver
mai
servito
prima).
Certo
Bashar
sembra
essere
davvero
una
"seconda
scelta":
quasi
sconosciuto
all'interno
del
Paese,
schivo,
da
sempre
lontano
dalla
politica,
sembra
totalmente
privo
del
carisma
necessario
ad
assumere
un
ruolo
di
leadership
indiscussa.
Ma
Hafez
riesce
a
fargli
il
vuoto
intorno,
eliminando,
politicamente
quando
non
fisicamente,
tutti
i
sostenitori
dello
zio
Refaat,
il
"fratello
traditore"
del
Presidente
in
carica,
in
esilio
in
Francia
dopo
aver
tentato
un
colpo
di
stato
nel
1984,
e
del
generale
Shihabi,
il
capo
dell'esercito,
cosicché,
alla
morte
di
Assad
Senior,
nel
2000,
tutto
è
pronto
per
un
plebiscito
popolare
che
porta
Bashar
alla
massima
carica
di
governo.
Al
momento
della
"elezione"
(e
pur
sempre
di
elezione
si
tratta,
sebbene
con
i
menzionati
sistemi
referendari
della
democrazia
araba),
il
giovane
(35
anni)
ex
oftalmologo
suscita,
pur
nella
sua
inesperienza,
molte
speranze
fuori
e
dentro
la
Siria:
la
sua
familiarità
con
i
costumi
occidentali
e la
estrema
moderazione
che
gli
si
riconosce
fanno
pensare
ad
un'epoca
di
riforme
radicali,
soprattutto
in
un
momento
in
cui
la
Nazione
sta
attraversando
serie
difficoltà
economiche
e ha
bisogno
di
afflusso
di
capitali
esteri.
E,
infatti,
i
primi
discorsi
di
Bashar
sembrano
indirizzati
verso
una
effettiva
progressiva
democratizzazione
del
sistema
governativo,
gli
intellettuali
di
tutte
le
città
si
riuniscono
in
forum
per
proporre
riforme
libertarie
e
nascono
ovunque
giornali
indipendenti
in
quella
che
viene
denominata
la
"Primavera
di
Damasco".
Tutto
dura
meno
di
18
mesi.
Cosa
avvenga
in
seguito
è
difficile
da
giudicare.
L'ipotesi
più
probabile
è
che
Bashar
non
abbia
la
forza
di
imporsi
realmente
all'interno
del
Baath
(che
rimane
l'unico
partito
legale
e la
guida
del
Paese),
in
cui
la
"vecchia
guardia"
legata
a
suo
padre
prende
il
sopravvento,
ma,
di
fatto,
improvvisamente
i
forum
per
la
democraticizzazione
vengono
sciolti,
molti
dei
critici
più
duri
vengono
imprigionati
e
gran
parte
dei
programmi
di
riforme
politiche
e
sociali
abbandonati.
Restano
in
piedi
solo
le
indispensabili
riforme
economiche
e,
nell'aprile
del
2001,
Bashar
riesce
almeno
a
convincere
i
leader
di
partito
Baath
a
sostenere
la
legislazione
per
la
creazione
di
banche
private
in
Siria,
un
passo
importante
per
una
Nazione
all'inizio
del
terzo
decennio
di
stretto
controllo
del
governo
socialista
sull'economia.
Ben
presto,
però,
anche
questa
mossa
vacilla,
tanto
che
pochi
mesi
dopo
Bashar
è
costretto
a
contraddirsi
pubblicamente
dichiarando
al
giornale
"Tishrin"
che
le
banche
rappresentano
una
minaccia
per
l'economia
del
Paese.
Ma è
al
di
là
dei
confini
della
Siria
che
il
giovane
Assad
deve
affrontare
le
sfide
più
dure
per
cercare
di
dare
un
ruolo
al
suo
Paese
negli
assetti
mediorientali:
-
nel
dicembre
del
2000
la
Siria
nega
l'importazione
di
petrolio
iracheno
attraverso
un
gasdotto
in
grave
violazione
delle
sanzioni
delle
Nazioni
Unite,
affermando
invece
che
l'oleodotto
è in
fase
di
test
e,
sebbene
le
Nazioni
Unite
non
riescano
a
provare
il
contrario,
ciò
porta
ad
un
rapido
passo
indietro
nelle
relazioni
con
l'occidente;
-
l'auspicata
possibilità
di
un
ruolo
di
mediazione
siriano
nella
questione
israelo-palestinese
evapora
quando
risulta
chiaro
che
la
Siria
continua
a
rinnovare
il
suo
sostegno
a
Hezbollah
e
permette
ad
altre
organizzazioni
terroristiche
di
operare
a
partire
dal
suo
territorio;
-
nel
2005
la
"Rivoluzione
dei
Cedri"
cancella
in
pratica
la
presenza
siriana
in
Libano,
ridimensionando
le
mire
di
Damasco
relative
alla
ricreazione
di
una
Grande
Siria.
Insomma,
i
primi
anni
di
governo
di
Bashar
sono,
in
fin
dei
conti,
un
vero
fallimento:
la
liberalizzazione
economica
è
stata
limitata,
con
una
industria
ancora
fortemente
controllata
dallo
Stato,
con
il
mantenimento
della
dipendenza
dal
petrolio
(di
cui,
però,
si
prevede
la
necessità
d'importazione
a
partire
dal
2015)
e
con
una
esportazione
manifatturiera
che
arriva
a
malapena
al
3,1
del
PIL,
in
un
Paese
che
raddoppierà
la
propria
popolazione
entro
il
2050.
Se
ciò
non
bastasse,
gli
USA,
dopo
il
coinvolgimento
di
Damasco
nell'omicidio
Hariri
a
Beirut
e
dopo
il
pubblico
appoggio
della
Siria
a
Hezbollah
del
2008,
ha
applicato
sanzioni
economiche
al
Paese
(il
"Syria
Accountability
Act")
che,
pur
lievi,
hanno
intaccato
ulteriormente
una
economia
in
enorme
crisi.
Bashar
ha
tentato
di
rispondere
a
tale
crisi
potenziando
il
settore
pubblico
(che,
al
momento,
fornisce
circa
la
metà
dei
posti
di
lavoro
del
Paese),
ma
senza
ammodernarlo,
perpetuando
l'elefantiasi
di
un
sistema
ormai
sclerotizzato.
Anche
dal
punto
di
vista
politico,
il
giovane
Presidente
non
sembra
all'altezza
del
padre:
se
da
un
lato
gli
ultimi
anni
hanno
visto
tentativi
di
riavvicinamento
a
Israele
(durante
i
funerali
del
Papa
Giovanni
Paolo
II
nel
2005,
Assad
è
arrivato
addirittura
a
stringere
la
mano
al
Presidente
israeliano
Moshe
Katsav)
e
agli
Stati
Uniti
(con
dichiarazioni
riguardanti
il
fatto
che
l'amministrazione
americana
dovrebbe
trarre
beneficio
dall'esperienza
siriana
di
lotta
contro
la
Fratellanza
Musulmana),
ogni
riavvicinamento
all'occidente
sembra
essersi
bloccato
dopo
che
la
Siria
si è
schierata
contro
l'invasione
dell'Iraq
nel
2003
e
dopo
le
accuse
a
Damasco
da
parte
di
alcuni
alti
gradi
dell'esercito
americano
di
fornire
finanziamenti,
logistica
e
formazione
ai
Musulmani
iracheni
e
stranieri
impegnati
contro
le
forze
statunitensi
e
della
coalizione
in
numerose
aree
calde.
Come
visto,
questo
gioco
di
assunzione
di
posizioni
ondivaghe
non
è
affatto
nuovo
per
gli
Assad,
ma,
in
qualche
modo,
Bashar
sembra
incapace
dei
funambolismi
diplomatici
di
Hafez,
rischiando
di
finire
per
isolare
il
Paese
sul
piano
internazionale.
Indubbiamente
il
rais
ha
ancora
un
potere
notevolissimo
in
Siria,
ma
la
scorta
di
"appeal"
sul
popolo
che
gli
deriva
più
dal
cognome
che
porta
che
dalle
sue
azioni
concrete
sembra
sul
punto
di
esaurirsi,
aprendo
a
scenari
a
dir
poco
pericolosi
per
lui.
È
pur
vero
che
nel
2007,
con
uno
dei
soliti
plebisciti,
egli
è
stato
rieletto
per
altri
6
anni,
ma
il
consenso
è
stato
meno
ampio
del
previsto
e i
tempi
stanno
cambiando.
Come
dimostrano
le
recenti
e
già
citate
vicende
tunisine
ed
egiziane,
di
fronte
ad
un
popolo
affamato
anche
il
retaggio
califfale
e il
concetto
di
"democrazia
araba"
finiscono
per
cedere
il
passo
ad
istanze
più
radicali,
tanto
più
se
la
figura
presidenziale
risulta
priva
del
carisma
necessario
al
mantenimento
del
potere.
Le
alterative
sono
due
e
diametralmente
opposte:
da
un
lato,
il
movimento
del
Paese
verso
uno
stile
più
occidentale
di
democrazia,
verso
più
ampie
libertà
civili
e
verso
l'affermazione
di
un
governo
più
prono
alla
volontà
americana
ed
europea;
dall'altro
l'affermarsi
dei
movimenti
islamici
radicali,
sopiti
con
violentissime
campagne
da
Hafez
tra
anni
'70
e
'80
ma
che
ora
potrebbero
riproporsi,
sull'onda
della
crescita
di
gruppi
di
ideologia
analoga
in
tutti
i
Paesi
arabi,
alla
ribalta
politica.
Entrambe
le
alternative
non
appaiono
affatto
rosee
per
questo
"Presidente
per
caso",
rubato
alla
medicina
per
rappresentare
probabilmente
l'ultimo
esempio
di
quella
curiosa
sintesi
di
tradizione
e
modernità
che
abbiamo
definito
"democrazia
araba".
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