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N. 39 - Marzo 2011 (LXX)

Dynasty siriana
la famiglia Assad e la "democrazia araba"

di Lawrence M.F. Sudbury

 

Se in uno Stato il titolo di "Presidente della repubblica" viene tenuto dalla stessa persona per decine d'anni e, alla sua morte, passa di padre in figlio, possiamo parlare di democrazia?

 

La domanda può apparire oziosa agli occhi di un occidentale: per noi, cresciuti nell'illusione di una sovranità popolare che si esprima ad ogni fine mandato con una elezione libera e multipartitica (senza tener conto, ma sono danni collaterali dell'ideologia imperante, di quanto tale sovranità sia, in realtà, frammischiata ad elementi di oligarchia politica e di plutocrazia) la risposta non può che essere negativa. Per noi, una situazione come quella descritta può essere definita con un solo nome: dittatura. E, il più delle volte, anche aprendosi ad una visione più ampia del termine "democrazia", non sbagliamo: certamente non avremmo potuto e non potremmo definire "democratici" i regimi di "Papà Doc" e "Baby Doc" Duvalier ad Haiti o di Kim Il-Sung e Kim Jong-il in Corea del Nord.

 

Per quanto discutibile possa essere fare distinguo in questo genere di argomenti, il discorso è, però, un po' diverso se ci approcciamo al mondo arabo.

Qui, pur nella precarietà di un sistema in rapida evoluzione, come dimostrano i recenti avvenimenti di inizio anno, gli esempi di "presidenza decennale" sono numerosi: Ben Alì in Tunisia è stato Presidente per 24 anni (succedendo a Bourguiba che lo era stato per 30) prima di essere cacciato più per ragioni economiche legate alla crisi internazionale che per questione di "diritto elettorale" e Mubarak in Egitto, scosso dalla medesima crisi e obbligato prima a rimpasti governativi e poi alle dimissioni, ha retto al potere 29 anni ...

 

Eppure, nonostante ciò, nonostante le legittime critiche all'autoritarismo di regimi spesso duramente repressivi, molto difficilmente, ancora oggi, un tunisino o un egiziano, qualora interrogati in proposito, affermerebbero di aver vissuto o di vivere sotto una dittatura.

 

Perché?

Perché esiste un concetto socio-politico che potremmo definire "democrazia araba", che è piuttosto nettamente discordante rispetto alla visione occidentale del sistema democratico.

Per capire il senso della "democrazia araba" dobbiamo rifarci a due elementi culturali di estrema importanza nel mono musulmano: la mancata separazione tra ambito laico e ambito religioso e le nozioni tradizionali di califfato e sultanato.

Cominciamo dal secondo punto per arrivare al primo.

 

In sostanza, un califfo è, notoriamente, un successore in linea diretta del Profeta che ha, per questo stesso fatto, autorità spirituale e temporale sulla sua Nazione. Il califfato, nonostante asserzioni contrarie da parte di alcune dinastie tutt'ora regnanti (quella del Marocco, solo per fare un esempio) tramontò formalmente con l'invasione mongolica e la conquista di Bagdad del 1258, venendo sostituito, poco più tardi, dal sultanato, cioè dall'entità territoriale retta da un sultano, semplicemente un re più o meno assoluto (nella stragrande maggioranza più più che meno) che, però, sempre più venne ad assumere sopra di sé le caratteristiche che erano state dei califfi, pur non esercitandone lo stesso livello di autorità spirituale. Tali caratteristiche includevano, soprattutto, la "designazione divina" del sultano e, conseguentemente, la sua investitura di un potere voluto da Dio e quindi insindacabile.

 

In fondo, non si trattava di qualcosa di radicalmente differente rispetto alla cosiddetta "monarchia moderna" del basso medioevo europeo in cui il re veniva incoronato come "prescelto" dalla volontà divina, ma, e qui entra in gioco la unitarietà tipicamente musulmana tra fede e politica, in una società dove laicità e religiosità non hanno distinzione, era ovvio che tale istituzione permanesse inalterata ben più a lungo che laddove, come in Europa, tale distinzione venne attuata sempre più a partire dal XVII secolo.

 

Sempre nel quadro dell'indistinzione tra i due ambiti, va anche considerato che, naturalmente, la gerarchia politica non possa che essere un riflesso della gerarchia religiosa e notoriamente, all'interno di qualsiasi gerarchia religiosa, ontologicamente iperverticistica, qualunque assunzione sacrale è perenne e definitiva (si pensi alla carica papale, ad esempio), come, appunto, doveva essere l'assunzione del ruolo di sultano.

 

Ma se, come si è detto, la società arabo-islamica non ha effettuato (se non in pochissimi casi e, soprattutto, solo in ristretti segmenti sociali più aperti, per varie ragioni, alla penetrazione di concetti stranieri) la divaricazione degli ambiti che è stata propria del processo evolutivo occidentale, risulta evidente che, in qualche modo, la concezione "sultanale" del potere sia rimasta patrimonio culturale condiviso all'interno del mondo arabo e abbia finito per riversarsi anche sulla figura presidenziale in quegli Stati passati al regime repubblicano.

 

Il risultato di tale processo è che l'investitura del Presidente abbia finito per avere, quantomeno a livello subconscio, un carattere semisacrale e, soprattutto, definitivo. Insomma, un Presidente risulta, nell'inconscio collettivo arabo, qualcosa di molto prossimo ad una sorta di Mahdi (almeno per alcune caratteristiche), voluto da Allah per il governo di una determinata parte della "ummah" e scelto "una volta per tutte".

 

Siamo dunque di fronte ad una teocrazia? In realtà non esattamente e non completamente. Chi è garante della volontà divina? La ummah stessa, la comunità di tutti i credenti nella vera fede, ed è qui che risiede quel (per noi minimo) margine di volontà popolare che permette al cittadino egiziano, tunisino o siriano di ritenere di vivere in una democrazia: la collettività vota periodicamente in quelle che per noi sono elezioni truffa di stampo plebiscitario (normalmente a candidato unico o "reso" unico con metodi piuttosto spicci e polizieschi) ma il suo voto per il sì o per il no al Presidente è, di fatto, la conferma da parte della ummah che il potere è in mano ad un uomo "voluto da Dio" per quella posizione (e poco importa se psicologicamente è assolutamente scontato che la maggioranza voti per un sì certo piuttosto che per un no incerto, nebuloso e non specificato).

 

Questo è il cuore della "democrazia araba" e non è un caso che anche in Nazioni in cui esiste un buon livello di apertura dal punto di vista della libertà religiosa esistano sempre leggi che garantiscano che il Presidente sia un musulmano: egli è, per antonomasia, il garante della stabilità della ummah nella stessa misura in cui la ummah è garante del suo potere.

 

Ebbene, se in una Nazione questo processo ha assunto una dimensione assolutamente istituzionalizzata, questa Nazione è la Siria dei Presidenti Hafez Assad e Bashar Assad, padre e figlio che, pur con stili politici e di leadership completamente differenti, hanno saputo a lungo garantire al loro popolo, sebbene con metodi spesso per noi inaccettabili, una stabilità della ummah tale, dopo i quasi tre decenni di turbolenza politica seguiti all'indipendenza dalla Francia, da farsi quasi idolatrare dai siriani (in particolare Assad padre).

 

Proviamo a seguire la parabolo dell'ascesa al potere di questa famiglia "reale/presidenziale".

 

Hafez Assad emerse dal caos dei disordini civili e dei cicli di sanguinosi colpi di stato che avevano caratterizzato gli anni della politica postcoloniale siriana. La sua ascesa avvenne all'interno della fila dei baathisti radicali, membri di un partito socialista che mirava a costruire uno Stato pan-siriano che dal Libano si estendesse attraverso l'Iraq e a sud verso l'Egitto e che, una volta preso il potere, si era fortemente diviso tra leader estremisti civili e capi militari più moderati.

 

Come ministro della difesa del Paese dal 1966 al 1971, Assad si era rifiutato di fornire l'aiuto della Siria ai militaristi nella loro campagna per aiutare i Palestinesi che combattevano per rovesciare il re di Giordania e, proprio a causa della sua riluttanza a schierare più forze, i carri armati siriani erano stati sonoramente sconfitti. Curiosamente, però, fu la leadership civile che si prese gran parte della colpa e, ancora più paradossalmente, fu questa debacle che portò al colpo di stato che diede il potere ad Assad Senior nel novembre 1970, innalzandolo alla presidenza all'inizio dell'anno seguente con uno schiacciante sostegno politico per essere stato l'"unico a prevedere la sconfitta e l'umiliazione derivatane".

 

Da subito il nuovo rais diede inizio ad un periodo di mobilitazione politica e di accentramento del potere, sotto l'egida secolare del Partito del Fronte Nazionale Progressista ma anche, sulla base di quanto detto riguardo alla "presidenze arabe", facendo leva sui sentimenti islamici della popolazione.

 

È proprio l'utilizzo di questo doppio registro che caratterizzerà tutta la presidenza di Assad padre. L'esempio più evidente può essere rinvenuto nel 1973, allorché il Presidente decise di modificare radicalmente la Costituzione del Paese: pur indicando la Sha'aria come fonte principale della legislazione, in nome della laicità socialista non volle indicare l'Islam come religione di Stato e alcuni islamisti misero in scena una serie di rivolte nelle città sunnite di Hamah e Homs. Qui Assad compì il suo capolavoro politico: per placare i suoi elettori, al posto di dichiarare la Siria uno Stato islamico, il Presidente fece approvare una disposizione secondo la quale il Presidente deve essere musulmano e, così facendo, riuscì a salvare "capra e cavoli", mantenendo lo Stato laico, ma pacificando la fazione islamica.

 

In seguito, sotto la dottrina del partito Baath, Assad riuscì con cura artigianale a tessere un insieme di politiche che, pur mantenendo la dottrina socialista e laica, tesero la mano alle minoranze etniche e aprirono ad alleanze regionali, chiudendo per sempre ogni possibilità di dispute tribali (quelle stesse dispute che avevano insanguinato la Siria per secoli): questo è sostanzialmente quell'ordine della ummah che gli si richiedeva per diventare protagonista di una "democrazia araba".

 

Ciò, insieme all'utilizzo di una campagna mirata ma spietata di intimidazione e oppressione politica e al ricorso continuo alla polizia segreta permise al Presidente di ridurre al silenzio ogni opposizione e di superare la prova più difficile, il fallimento nel 1973 della Guerra dello Yom Kippur contro Israele.

 

Altro elemento distintivo di Assad Senior sarà, in seguito, la capacità di adattarsi al mutamento degli scenari politici per cambiar rapidamente rotta: esempi in questo senso sono dati da quanto accadde nel 1991, quando la Siria, da sempre una dei più acerrimi nemici di Stati Uniti e Israele, si schierò con la coalizione a guida USA per rovesciare Saddam Hussein dopo l'invasione del Kuwait o dalla negoziazione del 2000, quasi andata a buon fine, per un ritiro israeliano dalle alture del Golan.

 

Insomma, Hafez Assad ha raccolto in sé tutte le caratteristiche, comuni a pochi personaggi quali Gheddafi o Arafat, capaci di fare di un Presidente un vero "rais", una figura carismatica, guida indiscussa del popolo, amato fino all'idolatria (e odiato dai pochi nemici interni e dai molti esterni), garante di stabilità e continuità e capace di imprimere un corso personale al proprio Paese.

 

Poi, però, la sua salute, alla fine degli anni '80, ha cominciato a deteriorarsi e dalla metà del decennio successivo il maggiore fronte di lotta contro cui ha dovuto combattere è stato quello legato ai problemi cardiaci, al linfoma che lo ha colpito e all'insufficienza renale che ha martoriato i suoi ultimi anni.

 

È proprio in questi anni che Assad mette a segno un colpo che poteva apparire impossibile persino in una "democrazia araba": riesce ad eliminare uno dopo l'altro tutti gli ostacoli burocratici e politici ad una "successione dinastica" alla presidenza per uno dei suoi figli.

 

Il prescelto iniziale è Bassel, il primogenito: bello, carismatico, amatissimo dal popolo, campione di tiro e di equitazione, Bassel sembra la scelta perfetta, ma un incidente d'auto causato dalla nebbia lo stronca a solo 32 anni, nel 1994, sulla via dell'aeroporto della capitale siriana.

 

È allora la volta del secondogenito Bashar, che viene richiamato rapidamente da Londra dove sta svolgendo un internato in oftalmologia dopo essersi laureato in medicina all'Università di Damasco e che viene rapidamente promosso colonnello dell'esercito (nell'arco di soli cinque anni, senza aver mai servito prima).

 

Certo Bashar sembra essere davvero una "seconda scelta": quasi sconosciuto all'interno del Paese, schivo, da sempre lontano dalla politica, sembra totalmente privo del carisma necessario ad assumere un ruolo di leadership indiscussa. Ma Hafez riesce a fargli il vuoto intorno, eliminando, politicamente quando non fisicamente, tutti i sostenitori dello zio Refaat, il "fratello traditore" del Presidente in carica, in esilio in Francia dopo aver tentato un colpo di stato nel 1984, e del generale Shihabi, il capo dell'esercito, cosicché, alla morte di Assad Senior, nel 2000, tutto è pronto per un plebiscito popolare che porta Bashar alla massima carica di governo.

 

Al momento della "elezione" (e pur sempre di elezione si tratta, sebbene con i menzionati sistemi referendari della democrazia araba), il giovane (35 anni) ex oftalmologo suscita, pur nella sua inesperienza, molte speranze fuori e dentro la Siria: la sua familiarità con i costumi occidentali e la estrema moderazione che gli si riconosce fanno pensare ad un'epoca di riforme radicali, soprattutto in un momento in cui la Nazione sta attraversando serie difficoltà economiche e ha bisogno di afflusso di capitali esteri. E, infatti, i primi discorsi di Bashar sembrano indirizzati verso una effettiva progressiva democratizzazione del sistema governativo, gli intellettuali di tutte le città si riuniscono in forum per proporre riforme libertarie e nascono ovunque giornali indipendenti in quella che viene denominata la "Primavera di Damasco".

 

Tutto dura meno di 18 mesi. Cosa avvenga in seguito è difficile da giudicare.

 

L'ipotesi più probabile è che Bashar non abbia la forza di imporsi realmente all'interno del Baath (che rimane l'unico partito legale e la guida del Paese), in cui la "vecchia guardia" legata a suo padre prende il sopravvento, ma, di fatto, improvvisamente i forum per la democraticizzazione vengono sciolti, molti dei critici più duri vengono imprigionati e gran parte dei programmi di riforme politiche e sociali abbandonati. Restano in piedi solo le indispensabili riforme economiche e, nell'aprile del 2001, Bashar riesce almeno a convincere i leader di partito Baath a sostenere la legislazione per la creazione di banche private in Siria, un passo importante per una Nazione all'inizio del terzo decennio di stretto controllo del governo socialista sull'economia. Ben presto, però, anche questa mossa vacilla, tanto che pochi mesi dopo Bashar è costretto a contraddirsi pubblicamente dichiarando al giornale "Tishrin" che le banche rappresentano una minaccia per l'economia del Paese.

 

Ma è al di là dei confini della Siria che il giovane Assad deve affrontare le sfide più dure per cercare di dare un ruolo al suo Paese negli assetti mediorientali:

- nel dicembre del 2000 la Siria nega l'importazione di petrolio iracheno attraverso un gasdotto in grave violazione delle sanzioni delle Nazioni Unite, affermando invece che l'oleodotto è in fase di test e, sebbene le Nazioni Unite non riescano a provare il contrario, ciò porta ad un rapido passo indietro nelle relazioni con l'occidente;

- l'auspicata possibilità di un ruolo di mediazione siriano nella questione israelo-palestinese evapora quando risulta chiaro che la Siria continua a rinnovare il suo sostegno a Hezbollah e permette ad altre organizzazioni terroristiche di operare a partire dal suo territorio;

- nel 2005 la "Rivoluzione dei Cedri" cancella in pratica la presenza siriana in Libano, ridimensionando le mire di Damasco relative alla ricreazione di una Grande Siria.

Insomma, i primi anni di governo di Bashar sono, in fin dei conti, un vero fallimento: la liberalizzazione economica è stata limitata, con una industria ancora fortemente controllata dallo Stato, con il mantenimento della dipendenza dal petrolio (di cui, però, si prevede la necessità d'importazione a partire dal 2015) e con una esportazione manifatturiera che arriva a malapena al 3,1 del PIL, in un Paese che raddoppierà la propria popolazione entro il 2050.

 

Se ciò non bastasse, gli USA, dopo il coinvolgimento di Damasco nell'omicidio Hariri a Beirut e dopo il pubblico appoggio della Siria a Hezbollah del 2008, ha applicato sanzioni economiche al Paese (il "Syria Accountability Act") che, pur lievi, hanno intaccato ulteriormente una economia in enorme crisi.

 

Bashar ha tentato di rispondere a tale crisi potenziando il settore pubblico (che, al momento, fornisce circa la metà dei posti di lavoro del Paese), ma senza ammodernarlo, perpetuando l'elefantiasi di un sistema ormai sclerotizzato.

 

Anche dal punto di vista politico, il giovane Presidente non sembra all'altezza del padre: se da un lato gli ultimi anni hanno visto tentativi di riavvicinamento a Israele (durante i funerali del Papa Giovanni Paolo II nel 2005, Assad è arrivato addirittura a stringere la mano al Presidente israeliano Moshe Katsav) e agli Stati Uniti (con dichiarazioni riguardanti il fatto che l'amministrazione americana dovrebbe trarre beneficio dall'esperienza siriana di lotta contro la Fratellanza Musulmana), ogni riavvicinamento all'occidente sembra essersi bloccato dopo che la Siria si è schierata contro l'invasione dell'Iraq nel 2003 e dopo le accuse a Damasco da parte di alcuni alti gradi dell'esercito americano di fornire finanziamenti, logistica e formazione ai Musulmani iracheni e stranieri impegnati contro le forze statunitensi e della coalizione in numerose aree calde. Come visto, questo gioco di assunzione di posizioni ondivaghe non è affatto nuovo per gli Assad, ma, in qualche modo, Bashar sembra incapace dei funambolismi diplomatici di Hafez, rischiando di finire per isolare il Paese sul piano internazionale.

 

Indubbiamente il rais ha ancora un potere notevolissimo in Siria, ma la scorta di "appeal" sul popolo che gli deriva più dal cognome che porta che dalle sue azioni concrete sembra sul punto di esaurirsi, aprendo a scenari a dir poco pericolosi per lui.

 

È pur vero che nel 2007, con uno dei soliti plebisciti, egli è stato rieletto per altri 6 anni, ma il consenso è stato meno ampio del previsto e i tempi stanno cambiando.

 

Come dimostrano le recenti e già citate vicende tunisine ed egiziane, di fronte ad un popolo affamato anche il retaggio califfale e il concetto di "democrazia araba" finiscono per cedere il passo ad istanze più radicali, tanto più se la figura presidenziale risulta priva del carisma necessario al mantenimento del potere.

 

Le alterative sono due e diametralmente opposte: da un lato, il movimento del Paese verso uno stile più occidentale di democrazia, verso più ampie libertà civili e verso l'affermazione di un governo più prono alla volontà americana ed europea; dall'altro l'affermarsi dei movimenti islamici radicali, sopiti con violentissime campagne da Hafez tra anni '70 e '80 ma che ora potrebbero riproporsi, sull'onda della crescita di gruppi di ideologia analoga in tutti i Paesi arabi, alla ribalta politica.

 

Entrambe le alternative non appaiono affatto rosee per questo "Presidente per caso", rubato alla medicina per rappresentare probabilmente l'ultimo esempio di quella curiosa sintesi di tradizione e modernità che abbiamo definito "democrazia araba".

 

 

Riferimenti bibliografici :

 

M. Gordon, Hafez al-Assad, Chelsea House 1989

D.W. Lesch, The New Lion of Damascus: Bashar al-Asad and Modern Syria, Yale University Press 2005

S. Muaddi Darraj, Bashar Al-Assad, Young Adult 2005

N.C. Pratt, Democracy and Authoritarianism in the Arab World, Lynne Rienner Publishers 2006

D. Roberts, The Ba'th and the Creation of Modern Syria, Palgrave Macmillan, 1987

K.A. Zahler, The Assads' Syria, Young Adult 2009

R. Ziadeh, Power and Policy in Syria: Intelligence Services, Foreign Relations and Democracy in the Modern Middle East, Tauris Academic Studies 2011



 

 

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