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N. 62 - Febbraio 2013 (XCIII)

GLI ANNIBALDI
UN’ANTICA FAMIGLIA ROMANA DEL FEUDO DI MONTECOMPATRI

di Raffaella Di Vincenzo

 

Il 22 febbraio 1198 veniva eletto papa Lotario dei Conti di Segni. Prese il nome di Innocenzo III. Intelligente, colto e volitivo, egli era profondamente convinto della preminenza del romano pontefice su tutti gli ordinamenti umani.

 

Trovò uno stato frantumato in tanti feudi in lotta tra loro, una capitale dilaniata dalle fazioni e un prefetto presuntuosamente autorevole. Ridusse il Senato da una assemblea di 56 nobili litigiosi a un Senato unico. In campagna depose tutti i feudatari riottosi, ridistribuendo i vari feudi a vassalli di sua fiducia. C’era tra questi Pietro Annibaldi. Era stato uno dei suoi più eccelsi sostenitori.

 

Il papa lo compensò nominandolo rettore di Cori e suo siniscalco. Gli diede anche in sposa una sua sorella, da cui ebbe due figli: Annibaldo e Riccardo. Annibaldo, primogenito, si dedicò alla politica. Fu quattro volte senatore di Roma, Podestà di Pisa e abile negoziatore nelle trattative di pace con Viterbo.

 

Tristemente noto per le condanne di eretici che faceva bruciare sul rogo, in sua presenza, davanti alla chiesa di S. Maria Maggiore. Nonostante questa sua apparente malvagità, triste funzione della magistratura capitolina, costretta a servire da braccio secolare della Chiesa, aveva un animo profondamente religioso.

 

Narrano infatti i dati d’archivio che fu proprio lui a ospitare in Monte Compatri alcuni compagni di S. Francesco e una pia tradizione vuole che lo stesso Santo vi si recasse nel 1224.

 

Montecompatri con la serenità della sua natura, il verde dei boschi e il silenzio della sua solitudine, gli ricordava i placidi paesaggi della sua verde Umbria e vi mandò tre dei suoi primi compagni: frate Angelo da Monte Leone, frate Rainaldo da Rieti, frate Santo da Parma. Questi tre fraticelli si presentarono un giorno al castellano e a nome di Annibaldo Annibaldi, chiesero per santo Francesco un fazzoletto di terra per raccogliersi a pregare.

 

Il popolo li accompagnò in una grotta, sotto l’abitato, che da essi fu poi chiamata «romitorio», ma tanta era la curiosità dei «monticiani» che i frati dovettero trovare un luogo più solitario. Si portarono sul colle di S. Silvestro, più selvaggio e isolato, e si adattarono intorno al vecchio oratorio; scesero nel folto della boscaglia e su di una selletta, a mezza costa, scelsero la loro dimora e vi costruirono un convento. Fu una delle prime sette «custodie» francescane della Provincia Romana… “provincia romana habet septem custodias», locum S. M. Ara Coeli, locum Montiscompatris etc...”

 

Nel 1291 quel convento esisteva ancora perché, alla chiesetta annessa, Nicola IV concesse l’indulgenza plenaria.

 

Riccardo Annibaldi, secondogenito di Pietro, fu creato cardinale da Gregorio IX suo parente col titolo di S. Angelo in Pescheria, nel 1237. Fu prelato di curia per quaranta anni, sotto quattro pontefici. Dal 1240 al 1249 fu Rettore della Campagna Marittima, regione a sud di Roma, carica importantissima per reddito e prestigio.

 

Acerrimo nemico dell’autonomia del Comune di Roma, contrastò l’opera di Brancaleone e dello zio Castellano degli Andalò, energici podestà di Roma, in un periodo particolarmente turbolento. Convinse Enrico III d’Inghilterra ad accettare per suo figlio la corona siciliana che offrì poi a Carlo d’Angiò.

 

Ebbe incarico da Innocenzo IV di riunire in un Ordine le varie unità eremitiche di Toscana. Creò con esse l’Ordo Fratuum Eremitarum di S. Maria del Popolo, che avendo adottata la Regola di S. Agostino, furono poi detti Agostiniani. Nel 1226 acquistò da Pietro Conti il castello della Molara. Si chiamava «Molara», come si chiama tuttora, una vasta vallata tra Tuscolo, Rocca di Papa, Monte Compatri e Rocca Priora, attraversata dalla via Anagnina.

 

C’era anticamente sul posto una stazione viaria romana che si chiamava «roboaria», perché confinava con un bosco di querce (robur). Ai tempi di Gregorio di Tuscolo la chiamavano già «Molara», da una vicina cava di pietra molaria o forse perché vi era nei pressi un mulino (mola).

 

Il cardinal Riccardo ampliò e abbellì il castello. Nel 1252 vi ricevette «cum honore et magnificentia» Innocenzo IV in viaggio per Napoli per reinserire quel reame tra i feudi della Chiesa. Nel 1266 vi ospitò Carlo d’Angiò, che di quello stesso regno era stato infeudato e consacrato re. Ne fece anche un ritrovo intellettuale, dotando il castello di uno «studium», ove era solito intrattenere gli uomini colti di quel tempo.

 

Protettore degli Agostiniani tenne nel castello due capitoli dell’Ordine, nel 1274 e nel 1275. Della Molara oggi non esistono che pochi resti, coperti di arbusti, dietro il ristorante del «castellaccio», al chilometro 25 dell’Anagnina.

 

Il cardinale morì nel 1276, tra i suoi beni, oltre a Molara, Rocca di Papa, Campagnano, S. Lorenzo, Monte Frenello, Castel Gerusalemme e Fucinato, figura Monte Compatri. Riccardo della Molara ebbe un nipote famoso: Annibaldo Annibaldi.

 

Nato nel 1220 o 1230 entrò giovanissimo nel noviziato domenicano di S. Sabina. Vi compì i primi studi di filosofia e teologia che completò a Parigi nel 1252-1255. Nel 1256 sostituì Tommaso d’Aquino nella cattedra parigina; tornato a Roma insegnò teologia a S. Sabina «magno cum plauso». Maestro di Palazzo, fu nominato cardinale nel dicembre 1262 e ospitò nel castello della Molara il suo maestro S. Tommaso d’Aquino che si vuole vi compisse anche miracoli. Morì nel 1272 a Orvieto, ove è sepolto nella chiesa di S. Domenico, di lui si disse che «la nobiltà del sangue, il magistero di teologia e la porpora non influirono sulla sua vita di umile religioso».

 

Agli inizi del XIV secolo gli Annibaldi erano già divisi in più rami: tra di essi: - Annibaldi de Coliseo, da una torre che avevano in quei pressi e anche perché tennero a lungo il possesso dell’anfiteatro Flavio; - Annibaldi de Militiis, dal possesso della Torre delle Milizie ancora oggi esistente a Magnanapoli: - Annibaldi de Mattia, da un Mattia che diede poi il nome alla contrada Colle Mattia.

 

Questo Mattia fu capostipite del ramo degli Annibaldi signori di Montecompatri fino a che non subentrarono i Colonna. Un figlio di Mattia, Giovanni Annibaldi, oltre a Montecompatri, ereditò Bonafitto e una torre in Roma, chiamata di Mastro Stefano, che si trovava nei pressi della chiesa di S. Pudenziana, come si vede le torri degli Annibaldi erano al centro della città in posizione strategica per dominare il Campidoglio e ciò sottolinea l’importanza che ebbe la famiglia per circa due secoli.

 

A Giovanni successe il figlio Annibaldo. È il primo degli Annibaldi che compare col titolo «de Montecompatro». Subito dopo il trasferimento dei papi ad Avignone (1305) fu senatore con Fortebraccio Orsini. Quella combinazione di superbi romani non piaceva al Papa francese (Clemente V) e li fece deporre.

 

Altri nobili che li sostituirono furono travolti dalla rivoluzione popolare di Giovanni Arlotti. Nominato capitano del popolo, costui sottopose a giudizio gli elementi più facinorosi. Tra questi Giovanni Annibaldi. Fu messo in ceppi, graziato ed esiliato nel suo castello di Montecompatri; in seguito diffidato a non uscirne armato e scortato oltre un brevissimo raggio. Sfuggito alla sorveglianza, lo troviamo immischiato nei frequentissimi tumulti romani.

 

Nel 1340 Benedetto XII da Avignone ordina ai senatori in carica di reprimere «la baldanza di Annibaldo di Giovanni de Montecompatro», responsabile di violenze, soprusi e perfino di incetta di viveri.

 

Durante la seconda signoria di Cola di Rienzo emerge dalle cronache romane un Liccardo Imprennente «membro della famiglia Annibaldi e signore di Monte Compatri». Quando Cola dopo la sua fuga tornò a Roma col cardinal Albornoz e riassunse il potere, riprese violenta la lotta contro i Colonna e gli Orsini. Contro i Colonna asserragliati a Palestrina, spedì un esercito al comando del quale vi era Liccardo.

 

I mercenari che guerreggiavano per Cola non erano soddisfatti della paga, si ammutinarono e cercarono di uccidre il loro comandante che riusci, comunque, a portarli sotto palestrina e l’avrebbe espugnata se una rivoluzione popolare, scoppiata a Roma, non avesse costretto Cola alla fuga. La notizia della sua cattura e della tragica fine disperse quell’esercito di mercenari e di Liccardo Imprendente non se ne seppe più nulla.

 

Nel 1377, al ritorno dei Papi da Avignone, vediamo signore di Monte Compatri Tebaldo Annibaldi che le «Memorie storiche della chiesa dell’Ara Coeli» chiamavano «vir magnificus de Montecompatro». Morì nel 1404.

 

Con la morte di Tebaldo il feudo di Monte Compatri viene ripartito tra gli eredi. Giovanni e Annibaldo, suoi figli, hanno per ciascuno 2/6; gli altri due sesti vanno, congiuntamente, a Palazzo e Tradito Annibaldi, suoi nipoti, figli di suo fratello Riccardo. Scompare così l’unità feudale del castrum che si riduce a un semplice patrimonio fondiario diviso tra tre proprietari.

 

Accanto a queste vicende che rendono suggestiva e intrigata la storia del castrum compatrese, ve ne sono altre, più quotidiane, che sono testimoniate da rinvenimenti fortuiti che confermano e a tratti completano la vicenda poc’anzi narrata. è noto infatti come l’attuale “Belvedere” fosse, un tempo, chiamato “u monnezzaru” a indicare la quantità di rifiuti che veniva gettata a valle dall’adiacente castello.

 

Nei lavori di pulizia che vengono eseguiti sistematicamente dal comune di Montecompatri, fuoriescono a volte frammenti di ceramica suddipinta e graffita che agli studiosi è nota come maiolica. Già a partire dal 1400 la ceramica inizia a essere sempre più concepita come oggetto prezioso e decorativo, destinato a essere esposto allo sguardo più che servire da vasellame da tavola. La maiolica italiana del Rinascimento, sull’esempio dei piatti Ispano-Moreschi, assunse una funzione di prestigio, legata all’affermazione sociale della nobiltà o della borghesia.

 

Le grandi famiglie, fra le quali gli Annibaldi, commissionarono pertanto pregiatissimi complessi di vasellame “da pompa” che vennero spesso definiti come buffet e “credenze”, dal nome del mobile destinato a ospitarle.

 

Le maioliche istoriate sono oggetti di estremo interesse per gli studi iconografici, in quanto rilevanti repertori della diffusione capillare nella società di immagini legate a una determinata cultura figurativa. Superata la fase arcaica i ceramisti italiani, attivi nelle numerose botteghe all’inizio del quattrocento, mostrarono soprattutto di puntare sulla qualità tecnica dei loro prodotti, che si espresse nella bianchezza e nella corposità coprente del rivestimento bianco, in smalto stannifero, al quale si venne a sovrapporre una sempre più ricca gamma cromatica.

 

Questo traguardo, confermato da un’abbondante documentazione emersa dagli archivi e dagli scavi archeologici, attesta il prevalere all’interno della cultura dei ceramisti del trecento soprattutto dell’ampia corrente che scaturisce dall’innesto del substrato gotico, già presente nella fase medievale, con gli influssi educativi esotici derivati prevalentemente dalla cultura araba degli artefici moreschi delle officine spagnole: questa contaminazione darà origine nel corso del XV secolo a gruppi decorativi, o famiglie (Italo-moresca, floreale-gotica, occhi di penna di pavone, palmetta persiana etc.).

 

Tutto il materiale ceramico rinvenuto in modo sporadico nell’ “u monnezzaru” riporta alle tipiche fogge della maiolica arcaica, con decori stilizzati prima in bicromia verde ramina e bruno manganese, poi a zaffera a spessore e diluita, diffusi in quel periodo in tutta l’Italia centrale; tipiche produzioni trecentesche, dunque, e loro naturale evoluzione.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

ASBY, T., Papero f the Britisch scool at Rome, Vol II, Roma 1902.

CIFFEI, G., Montecompatri. Profilo storico, Roma 1974.

DE RUGGERO, E., Dizionario Epigrafico delle Antichità Romane, Roma 1942.

DUCHESN, E., Liber Pontificalis e le sedi episcopali dell’antico Ducato Romano in S.R.S.P., XV, 1982.

PIZZORUSSO, G., Una regione virtuale: il Lazio da Martino V a Pio VI, in Atlante storico-politico del Lazio, Bari 1996.

SENNIS, A., Un territorio da ricomporre: il Lazio tra i secoli IV e XIV, Bari 1996.

TOMASSETTI, G., La Campagna Romana antica, medievale e moderna, IV La Via Latina, Firenze1979.



 

 

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