N. 56 - Agosto 2012
(LXXXVII)
Pugnare o cunctare?
FABIO MASSIMO Cunctator: il dittatore che salvò Roma “temporeggiando”
di Paola Scollo
Protagonista
della
scena
politica
di
Roma
all’epoca
dello
scontro
con
Cartagine,
Fabio
Massimo
apparteneva
alla
gens
dei
Fabi,
che
«generò
molti
e
grandi
uomini»
(Fab.
I
3).
Personaggio
discusso
e
controverso,
ha
ispirato
nel
corso
del
tempo
il
genio
di
scrittori
e
artisti.
Numerosi
e,
talvolta,
antitetici
i
giudizi
che
sono
stati
espressi
su
di
lui.
Ennio,
negli
Annales
(XII
370
-
372),
ha
affermato:
«Un
solo
uomo
ha
rimesso
in
piedi
temporeggiando
lo
stato»;
Polibio
(Storie
III
87.
6)
lo
ha
definito
«uomo
insigne
per
prudenza
e
doti
naturali».
Cicerone
(De
senectute
IV
10 -
12)
ha
scorto
in
lui
«gravità
condita
di
gentilezza»
e,
soprattutto,
una
forma
di
«pazienza»
con
cui,
seppur
anziano,
«smorzava
la
giovanile
baldanza
di
Annibale».
D’altra
parte,
-
ricorda
sempre
Cicerone
-
Fabio
non
era
«grande
soltanto
in
pubblico
e
sotto
gli
occhi
dei
concittadini»,
ma
era
anche
«più
eccelso
nell’intimità
della
sua
casa».
Pur
condividendo
il
giudizio
di
Ennio,
Tito
Livio
ha
avanzato
dubbi
sulla
possibilità
di
considerare
l’azione
«temporeggiatrice»
di
Fabio
quale
espressione
di
un’indole
cauta
o,
piuttosto,
quale
conseguenza
del
tipo
di
guerra
che
si
combatteva
all’epoca.
Valerio
Massimo
ne
ha
ammirato
la
«costanza
nell’amor
di
patria».
Infatti,
«sottoposto
a
molte
altre
ingiustizie,
egli
rimase
sempre
nella
stessa
disposizione
di
spirito
e
non
si
permise
mai
di
adirarsi
contro
la
repubblica:
tanto
costante
fu
nell’amore
verso
i
concittadini».
Degna
di
ammirazione
è
poi
la
condotta
tenuta
in
occasione
della
guerra
contro
Cartagine:
«come
Scipione
con
il
combattere,
costui
con
il
non
combattere
apparve
essere
il
maggior
sostegno
della
patria;
quegli
con
la
rapidità
conquistò
Cartagine,
con
il
temporeggiare
questi
fece
sì
che
Roma
non
fosse
soggiogata»
(De
constantia
III
8.
2).
Tuttavia,
proprio
l’azione
del
temporeggiare,
cunctare,
che
per
molti
scrittori
ha
costituito
motivo
di
lode,
è da
porre
alle
origini
di
numerose
aspre
critiche
nei
confronti
di
Fabio.
Ed è
ad
un
tempo
vero
che
nel
perenne
dissidio
tra
pugnare
e
cunctare
risiede
il
fascino
del
suo
carattere,
ethos.
Tale
contrasto
emerge
particolarmente
dal
ritratto
che
del
dittatore
romano
ha
delineato
Plutarco
nelle
Vite.
Sin
dalle
prime
righe
del
racconto
di
Plutarco
è
possibile
scorgere
un
profondo
e
vivo
contrasto
che
anima
la
natura,
physis,
di
Fabio.
Stando
al
biografo,
era
opinione
diffusa
che
il
giovane
fosse
pigro
o,
addirittura,
stupido.
Ad
alimentare
tale
giudizio
pare
siano
state
la
lentezza
e la
fatica
che
manifestava
nell’apprendere
quanto
gli
veniva
insegnato.
In
ogni
caso,
con
il
trascorrere
del
tempo,
il
giovane
dimostrò
efficacemente
che
la
pigrizia
era,
in
realtà,
imperturbabilità,
la
circospezione
prudenza,
la
scarsa
prontezza
e la
lenta
reattività
fermezza
e
costanza.
Infatti
-
specifica
Plutarco
-
soltanto
«chi
è in
grado
di
guardare
in
profondità»,
ovvero
di
procedere
oltre
le
apparenze,
può
giungere
alla
comprensione
della
vera
physis
di
Fabio,
caratterizzata
da
fermezza,
magnanimità,
forza
leonina,
mitezza,
rettitudine,
stoltezza
e
capacità
di
sopportazione.
Un
ruolo
di
assoluta
centralità
è
poi
da
attribuire
alla
praotes,
che
distingue
il
personaggio
sia
dal
punto
di
vista
fisico
sia
dal
punto
di
vista
morale.
E
pare
che
proprio
per
tale
mitezza
e
pacatezza
abbia
ricevuto
il
soprannome
di
Ovicula,
pecorella.
Narra
Plutarco
che,
sin
da
giovane,
Fabio
esercitò
il
proprio
corpo
alla
guerra,
reputandolo
«un’arma
data
all’uomo
dalla
natura
stessa».
Inoltre,
coltivò
la
parola,
«strumento
di
persuasione
del
popolo»,
cercando
di
adattare
lo
stile
oratorio
al
proprio
modus
vivendi
(Fab.
I
7).
Con
questa
indole
Fabio
riuscì
a
intraprendere
una
brillante
carriera
politica.
Per
ben
cinque
volte
ottenne
il
consolato
e
nel
233
a.C.,
in
occasione
del
primo
incarico,
celebrò
il
trionfo
sui
Liguri.
Nel
230
a.C.
fu
nominato
censore.
Nel
228
a.C.,
in
qualità
di
console
per
la
seconda
volta,
si
oppose
alla
Lex
Flaminia
sulla
divisione
dell’agro
piceno
e
gallico.
Al
di
là
di
questi
significativi
successi
politici,
la
fama
di
Fabio
è
legata,
in
particolar
modo,
allo
scontro
con
Annibale
durante
le
guerre
puniche.
Dopo
la
sconfitta
del
Trasimeno,
di
fronte
a
una
situazione
di
diffusa
instabilità
e
insicurezza,
i
Romani
scelsero
di
ricorrere
a
un’autorità
«unica
e
non
soggetta
a
rendiconti»,
in
grado
di
esercitare
il
potere
senza
debolezze
e
timori.
In
altre
parole,
fecero
ricorso
alla
magistratura
straordinaria
denominata
“dittatura”.
E la
scelta
ricadde
proprio
su
Fabio
che,
stando
a
Plutarco,
disponeva
di
«saggezza
e
nobiltà
di
carattere»
e di
un’età
nella
quale
«il
corpo
col
suo
vigore
fa
ancora
da
sostegno
alle
decisioni
dello
spirito
e
l’intelligenza
si
mescola
alla
prudenza»
(Fab.
III
7).
I
Romani,
infatti,
avendo
individuato
in
lui
l’unico
salvatore
della
patria,
gli
affidarono
un
potere
assoluto.
Nel
217
a.C.
Fabio
venne
quindi
eletto
dictator
per
la
seconda
volta.
Dapprima,
il
dittatore
nominò
magister
equitum
Marco
Minucio;
contravvenendo
a
un’antica
legge,
chiese
poi
al
senato
il
permesso
di
usare
il
cavallo
durante
le
spedizioni.
Fabio
si
distinse
anche
per
un
profondo
senso
di
religiosità,
che
lo
spinse
ad
affidare
il
suo
incarico
agli
dèi
al
fine
di
far
comprendere
ai
Romani
che
la
sconfitta
al
Trasimeno
era
legata
alla
negligenza
e al
disprezzo
del
generale
per
la
divinità,
piuttosto
che
alla
viltà
dei
combattenti.
Per
queste
ragioni,
esortò
i
concittadini
a
non
temere
il
nemico
e a
rendersi
propizi
gli
dèi,
cercando
al
contempo
di
infondere
loro
fiducia.
Dopo
aver
riposto
in
sé
ogni
speranza
di
vittoria,
si
volse
contro
Annibale,
non
alla
ricerca
di
uno
scontro
in
campo
aperto,
ma
nella
prospettiva
di
logorarne
e
consumarne
«col
tempo
la
forza,
col
denaro
i
suoi
scarsi
mezzi
e
con
l’abbondanza
di
uomini
le
sue
esigue
milizie»
(Fab.
V
1).
In
sintesi,
adottò
la
tattica
del
logoramento
in
modo
tale
da
privare
il
nemico
della
pienezza
delle
proprie
forze
«come
una
fiamma
suscitata
da
combustibile
scarso
e
poco
consistente»
(Fab.
II
4).
Tuttavia,
ben
presto
a
Roma
cominciarono
a
emergere
dubbi
sul
suo
operato.
Stando
a
Plutarco,
la
strategia
impiegata
gli
valse
gradualmente
«il
disprezzo
di
tutti».
Ma
in
fondo
anche
ai
nemici
appariva
un
vile
o,
addirittura,
una
nullità.
Stando
al
biografo,
soltanto
Annibale
apprezzava
la
deinotes,
l’abilità
strategica
e la
tattica
con
cui
Fabio
combatteva.
Peraltro,
il
dittatore
era
infastidito
dall’eccessiva
e
sconsiderata
ambizione
di
Minucio,
«desideroso
di
combattere
anche
quando
non
era
il
caso,
temerario
e
deciso
a
conquistarsi
il
favore
delle
truppe
che
aveva
riempito
di
furore
aggressivo
e di
infondate
speranze»
(Fab.
VI
5).
A
tal
proposito,
Tito
Livio
narra
che
Minucio,
«impetuoso
e
frettoloso
nelle
risoluzioni,
sfrenato
di
lingua»,
sia
privatamente
sia
pubblicamente
era
solito
chiamare
Fabio
«non
temporeggiatore
ma
pigro,
non
cauto
ma
pauroso,
attribuendogli
a
difetto
quello
che
era
virtù»
(Ab
Urbe
Condita
XXII
12).
Infine,
Plutarco
ricorda
che
i
soldati
erano
soliti
chiamare
Fabio
«pedagogo
di
Annibale»
e
Minucio
«un
grand’uomo
e un
generale
degno
di
Roma»
(Fab.
VI
5).
Se
l’esercito
romano
metteva
in
pratica
la
tattica
del
logoramento,
Annibale
tentava,
piuttosto,
di
costringere
Fabio
allo
scontro
aperto,
ricorrendo
a
molteplici
stratagemmi.
Uno
di
questi
si
rivelò
fatale
per
i
Romani.
Nel
giudizio
di
Plutarco,
in
tale
circostanza
Fabio,
avendo
rinunciato
ancora
una
volta
alla
battaglia,
aveva
commesso
un
imperdonabile
errore
strategico.
La
reazione
a
Roma
non
si
fece
attendere:
il
dittatore
fu
raggiunto
da
numerose
calunnie
e
dall’ostilità
del
senato,
ma
non
venne
privato
dell’incarico.
Per
volontà
della
plebe,
il
tribuno
Minucio
fu
chiamato
a
proseguire
la
guerra
con
diritti
pari
a
quelli
del
dittatore
e
con
medesima
autorità
di
comando.
Si
trattava
di
un
fatto
senza
precedenti.
Da
parte
sua,
Fabio
dette
prova
della
constantia
e
della
firmitas
proprie
dei
sapienti:
accettò
serenamente
quanto
gli
accadeva,
confermando
con
la
propria
condotta
il
detto
dei
filosofi,
secondo
cui
«l’uomo
probo
e
onesto
non
può
essere
ingiuriato
né
disonorato»
(Fab.
X
2).
In
particolare,
«lo
preoccupava
la
sconsideratezza
del
popolo,
che
aveva
offerto
all’ambizione
malsana
di
un
uomo
la
possibilità
di
sfogarsi
nella
guerra;
egli
temeva
che
Minucio,
completamente
accecato
dalla
vanagloria
e
dal
desiderio
di
prestigio,
causasse
qualche
sciagura
prima
che
si
riuscisse
a
fermarlo»
(Fab.
X 3
-
4).
Pertanto,
Fabio
decise
di
assumere
il
comando
della
prima
e
della
quarta
legione,
mentre
affidò
al
collega
la
seconda
e la
terza.
Di
fronte
a
tale
spartizione,
Minucio
«si
gloriò
e
rallegrò
di
essere
riuscito
a
umiliare
e
abbassare
l’autorità
della
più
grande
e
alta
delle
magistrature;
al
che
Fabio
gli
ricordò
che,
se
era
saggio,
non
doveva
considerarsi
in
lotta
contro
di
lui,
Fabio,
ma
contro
Annibale»
(Fab.
X
7).
Da
queste
parole
emerge
senz’altro
l’importanza
che
Fabio
accordava
al
bene
della
collettività.
Spinto
da
ambizione
e
desiderio
di
gloria,
Minucio
ingaggiò
un
aspro
combattimento
con
Annibale,
nel
corso
del
quale
i
Cartaginesi
decimarono
le
truppe
romane.
Stando
al
racconto
di
Plutarco,
«un
indescrivibile
sgomento
e
terrore
colse
i
Romani
e la
stessa
temerarietà
di
Minucio
andò
in
frantumi:
egli
guardava
spaurito
ora
questo
ora
quello
dei
suoi
ufficiali,
nessuno
dei
quali
osò
restar
saldo
al
suo
posto,
ma
anzi
tutti
si
dettero
alla
fuga,
senza
però
trovare
la
salvezza.
Infatti
i
Numidi,
ormai
padroni
della
posizione,
scorrazzavano
in
circolo
per
la
pianura
e
massacravano
i
Romani
sbandatisi
qua
e
là»
(Fab.
XI 6
-
7).
Narra
poi
Plutarco
che
Fabio
si
rivolse
ai
soldati,
affermando
ad
alta
voce:
«Ora
ognuno
di
voi,
o
soldati,
si
ricordi
di
Marco
Minucio,
e si
affretti
a
prestargli
soccorso;
infatti
è un
uomo
valoroso
(lampròs)
e
ama
la
patria
(philòpatris);
se
ha
errato
per
la
brama
di
sbaragliare
il
nemico
gliene
chiederemo
conto
a
suo
tempo»
(Fab.
XII
3).
Questa
testimonianza,
peraltro,
trova
conferma
nel
racconto
di
Tito
Livio,
secondo
cui
Fabio,
«udito
il
clamore
e
poi
veduta
la
rotta
delle
schiere»,
esclamò:
«Ecco,
non
prima
che
io
temessi
la
fortuna
punisce
la
temerarietà!
Pareggiato
fu
Fabio
nel
comando,
e
Annibale
trionfa
e
con
il
valore
e
con
la
fortuna!
Ma
ci
sarà
tempo
alle
recriminazioni
e ai
biasimi;
ora
si
traggano
le
insegne
fuori
dal
campo.
Strappiamo
la
vittoria
al
nemico
e la
confessione
del
loro
errore
ai
concittadini!»
(Ab
Urbe
Condita
XXII
29).
Ancora
una
volta
Fabio
dimostrò
valore
e
magnanimità:
nessuna
parola
di
condanna
nei
confronti
del
collega,
ma
solo
desiderio
di
offrire
immediato
soccorso.
Annibale
decise
di
ritirare
le
proprie
truppe,
«ammettendo
apertamente
di
aver
vinto
Minucio
ma
di
essere
stato
vinto
da
Fabio».
In
tale
circostanza
compito
di
Fabio
fu
dunque
quello
di
contenere
i
danni
causati
dall’azione
sconsiderata
di
Minucio
che,
d’altra
parte,
fu
costretto
a
fare
opera
di
sottomissione:
«Due
vittorie,
dittatore,
hai
riportato
in
questo
giorno:
una
su
Annibale
con
il
valore,
l’altra
sul
tuo
stesso
collega
con
la
prudenza
e la
generosità;
con
la
prima
ci
hai
salvati,
con
la
seconda
educati.
Noi,
che
fummo
vinti
indecorosamente
dal
nemico,
abbiamo
ricevuto
invece
da
te
una
sconfitta
nobile
e
salutare.
Io
ti
chiamo
mio
buon
padre
perché
non
trovo
appellativo
più
onorevole;
in
realtà
questo
bene
che
ho
ricevuto
da
te è
ancor
più
grande
del
bene
che
ebbi
da
colui
che
mi
ha
generato;
infatti,
da
quello
io
ricevetti
solo
la
mia
vita,
mentre
da
te
sono
stato
salvato
insieme
con
tutti
questi
miei
uomini»
(Fab.
XIII
7 -
8).
Nell’immagine
di
Minucio,
la
prima
vittoria
era
stata
fonte
di
sicurezza
per
i
Romani,
la
seconda
di
educazione
per
sé.
Successivamente,
Fabio
depose
la
carica
di
dittatore,
per
cui
furono
eletti
consoli
Terenzio
Varrone
e
Paolo
Emilio.
Fin
da
subito
i
due
si
posero
in
aperto
contrasto
riguardo
all’atteggiamento
da
adottare
nei
confronti
di
Annibale.
In
questa
contrapposizione
è
possibile
intravedere
echi
dell’antitesi
tra
Fabio
e
Minucio.
Da
parte
sua,
Fabio
sostenne
l’indirizzo
di
Paolo
Emilio,
esortandolo
a
opporsi
alla
«folle
temerarietà»
del
collega
e a
fargli
notare
che
«per
difendere
la
patria
avrebbe
dovuto
combattere
non
meno
contro
Terenzio
che
contro
Annibale;
erano,
infatti,
entrambi
bramosi
di
combattere,
l’uno
perché
non
si
rendeva
conto
della
sua
vera
forza,
l’altro
perché
era
consapevole
della
propria
debolezza»
(Fab.
XIV
5 -
6).
Stando
al
racconto
di
Plutarco,
Terenzio
stanziò
le
truppe
nei
pressi
della
città
di
Canne,
lungo
il
fiume
Aufido,
di
fronte
ad
Annibale,
e al
sorgere
del
sole
dette
ordine
di
attaccare
battaglia.
Annibale,
servendosi
di
alcuni
accorgimenti
strategici,
riuscì
a
sfondare
l’esercito
romano.
Terenzio
fu
costretto
a
darsi
alla
fuga
a
cavallo
verso
la
città
di
Venosa;
di
contro,
Paolo
attese
che
qualcuno
dei
nemici
lo
finisse.
La
previsione
di
Fabio
sull’esito
negativo
dello
scontro,
dapprima
considerata
espressione
di
vigliaccheria
e
incapacità,
fu
poi
valutata
quale
«intelligenza
soprannaturale
o
divina»
(Fab.
XVII
5).
Ancora
una
volta
il
Cunctator
venne
salutato
come
il
salvatore
della
patria:
ai
Romani
non
restò
che
rifugiarsi
nel
suo
senno
«come
presso
l’altare
di
un
tempio»
(Fab.
XVII
6).
A
ben
vedere,
Fabio
era
l’unico
ad
aggirarsi
«per
la
città
con
passo
calmo
e
volto
composto,
salutando
amabilmente
la
gente,
facendo
cessare
i
lamenti
delle
donne
e
vietando
gli
assembramenti
di
quanti
si
radunavano
per
piangere
in
pubblico
i
lutti
comuni;
e,
inoltre,
egli
persuase
il
senato
a
riunirsi,
rincuorò
i
magistrati
e
rappresentò
la
forza
e il
sostegno
di
ogni
magistratura
che
a
lui
guardava
con
fiducia»
(Fab.
XVII
7).
Dispose
quindi
che
venissero
celebrati
riti
propiziatori
per
placare
gli
dèi,
mentre
Fabio
Pittore
venne
inviato
presso
l’oracolo
di
Delfi.
In
tale
situazione
Fabio
rivelò
certo
di
essere
il
perfetto
uomo
di
stato:
non
semplicemente
abile
politico,
ma
guida
equilibrata
e
affidabile
in
grado
di
infondere
fiducia
e di
risollevare
la
propria
patria
dal
baratro.
Dopo
la
battaglia
di
Canne,
molte
popolazioni
si
assoggettarono
volontariamente
ad
Annibale.
Stando
a
Plutarco,
poco
mancò
che
il
Cartaginese
si
impadronisse
di
tutta
l’Italia.
Alla
notizia
secondo
cui
Annibale
si
stava
dirigendo
verso
altre
regioni
d’Italia,
i
Romani
inviarono
eserciti
e
generali,
fra
cui
Fabio
Massimo
e
Claudio
Marcello,
«uomo
dall’azione
brillante
e
impetuosa»,
«pronto
di
mano
e di
natura
simile
a
quegli
eroi
che
Omero
definisce
“bellicosi”
e
“fieri”»
(Fab.
XIX
2).
A
tal
proposito,
Plutarco
riporta
la
testimonianza
di
Posidonio
in
base
alla
quale
i
Romani
erano
soliti
chiamare
Fabio
lo
scudo
e
Marcello
la
spada.
Secondo
il
biografo,
Annibale
si
scontrava
spesso
con
Marcello,
il
quale
«irruente
come
un
fiume
lo
scuoteva
e ne
fiaccava
le
forze»;
invece,
«da
Fabio,
simile
a
una
corrente
che
fluisce
lenta
e
silenziosa,
ma
penetra
costantemente,
veniva
indebolito
e
logorato
quasi
senza
accorgersene»
(Fab.
XIX
5).
Alla
fine,
Marcello
perse
la
vita
in
un’imboscata;
al
contrario,
Fabio
riuscì
a
sottrarsi
a
qualsiasi
tipo
di
inganno
da
parte
del
Cartaginese.
In
seguito,
Fabio
riuscì
a
riconquistare
la
città
di
Taranto.
Peraltro,
in
tale
occasione
celebrò
un
trionfo
più
splendido
del
primo
sui
Liguri.
I
Romani
lo
ricoprirono
di
onori
ed
elessero
console
suo
figlio,
anche
lui
di
nome
Fabio.
Nel
corso
degli
ultimi
anni
della
sua
carriera
politica,
si
verificò
un
vero
e
proprio
mutamento
nell’ethos
di
Fabio,
il
quale
non
dette
più
prova
di
magnitudo
animi.
Anzi,
cominciò
a
manifestare
invidia
nei
confronti
di
Scipione,
intenzionato
a
trasferire
la
guerra
in
Africa.
Fabio
temeva,
infatti,
che
la
fama
di
Scipione
potesse
offuscare
il
proprio
prestigio:
in
particolare,
era
terrorizzato
dall’idea
di
apparire
pigro
e
incapace
«per
non
aver
debellato
il
nemico
in
così
tanto
tempo»
(Fab.
XXV
2).
A
partire
da
questo
momento,
sembrò
che
si
preoccupasse
più
per
la
propria
reputazione
che
per
le
sorti
dello
Stato.
Giunse
al
punto
di
costringere
Crasso,
collega
di
Scipione,
a
non
affidargli
il
comando
dell’esercito
e a
non
concedergli
i
mezzi
necessari
per
lo
scontro
con
Annibale.
Cercò
di
dissuadere
i
giovani
dal
proposito
di
partecipare
alla
guerra:
in
tal
modo,
Scipione
poté
disporre
soltanto
delle
truppe
che
si
trovavano
in
Sicilia.
Infine,
propose
di
essere
sostituito
al
comando.
Non
molto
tempo
dopo
Scipione
riuscì
a
sconfiggere
Annibale
in
campo
aperto,
in
uno
scontro
degno
di
memoria.
Ma
Fabio
non
visse
abbastanza
a
lungo
per
assistere
al
trionfo
che
segnava
la
conclusione
delle
ostilità
con
Cartagine.
Alla
morte
di
Fabio,
Plutarco
ricorda
che
non
vennero
celebrate
pubbliche
esequie,
ma
che
«ogni
cittadino
contribuì
privatamente
ai
suoi
funerali
con
la
più
piccola
delle
monete
in
corso
a
Roma,
non
già
perché
la
povertà
del
defunto
rendesse
necessario
provvedere
alle
spese,
ma
perché
il
popolo
lo
volle
onorare
di
sepoltura
come
un
padre
del
popolo;
e,
in
questo
modo,
la
sua
morte
fu
circondata
da
onore
e
gloria
adeguati
alla
sua
vita»
(Fab.
XXVII
4).
Pur
avendo
suscitato
sentimenti
e
giudizi
contrastanti
per
il
modus
operandi
adottato
nella
guerra
contro
Annibale,
Fabio
Massimo
continuò
ad
essere
considerato,
anche
dopo
la
morte,
padre
del
popolo.
Così,
d’altra
parte,
lo
consideravano
i
Romani
quando
«si
rifugiavano
nel
suo
senno».
Nell’opinione
collettiva,
l’uomo
che,
nel
corso
della
sua
vita,
aveva
mostrato
di
essere
perennemente
scisso
tra
il
pugnare
e il
cunctare,
era
degno
di
lode
per
aver
garantito
salvezza
alla
patria.
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