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N. 103 - Luglio 2016 (CXXXIV)

FABIO MASSIMO CUNCTATOR
IL DITTATORE CHE SALVÒ ROMA TEMPOREGGIANDO - PARTE III

di Paola Scollo

 

Successivamente, Fabio depose la carica di dittatore, per cui furono eletti consoli Terenzio Varrone e Paolo Emilio. Fin da subito i due si posero in aperto contrasto riguardo all’atteggiamento da adottare nei confronti di Annibale. In questa contrapposizione è possibile intravedere echi dell’antitesi tra Fabio e Minucio.

 

Da parte sua, Fabio sostenne l’indirizzo di Paolo Emilio, esortandolo a opporsi alla «folle temerarietà» del collega e a fargli notare che «per difendere la patria avrebbe dovuto combattere non meno contro Terenzio che contro Annibale; erano, infatti, entrambi bramosi di combattere, l’uno perché non si rendeva conto della sua vera forza, l’altro perché era consapevole della propria debolezza» (Fab. XIV 5 - 6).

 

Stando al racconto di Plutarco, Terenzio stanziò le truppe nei pressi della città di Canne, lungo il fiume Aufido, di fronte ad Annibale, e al sorgere del sole dette ordine di attaccare battaglia. Annibale, servendosi di alcuni accorgimenti strategici, riuscì a sfondare l’esercito romano. Terenzio fu costretto a darsi alla fuga a cavallo verso la città di Venosa; di contro, Paolo attese che qualcuno dei nemici lo finisse.

 

La previsione di Fabio sull’esito negativo dello scontro, dapprima considerata espressione di vigliaccheria e incapacità, fu poi valutata quale «intelligenza soprannaturale o divina» (Fab. XVII 5). Ancora una volta il Cunctator venne salutato come il salvatore della patria: ai Romani non restò che rifugiarsi nel suo senno «come presso l’altare di un tempio» (Fab. XVII 6).

 

A ben vedere, Fabio era l’unico ad aggirarsi «per la città con passo calmo e volto composto, salutando amabilmente la gente, facendo cessare i lamenti delle donne e vietando gli assembramenti di quanti si radunavano per piangere in pubblico i lutti comuni; e, inoltre, egli persuase il senato a riunirsi, rincuorò i magistrati e rappresentò la forza e il sostegno di ogni magistratura che a lui guardava con fiducia» (Fab. XVII 7).

 

Dispose quindi che venissero celebrati riti propiziatori per placare gli dèi, mentre Fabio Pittore venne inviato presso l’oracolo di Delfi. In tale situazione Fabio rivelò certo di essere il perfetto uomo di stato: non semplicemente abile politico, ma guida equilibrata e affidabile in grado di infondere fiducia e di risollevare la propria patria dal baratro.

 

Dopo la battaglia di Canne, molte popolazioni si assoggettarono volontariamente ad Annibale. Stando a Plutarco, poco mancò che il Cartaginese si impadronisse di tutta l’Italia. Alla notizia secondo cui Annibale si stava dirigendo verso altre regioni d’Italia, i Romani inviarono eserciti e generali, fra cui Fabio Massimo e Claudio Marcello, «uomo dall’azione brillante e impetuosa», «pronto di mano e di natura simile a quegli eroi che Omero definisce “bellicosi” e “fieri”» (Fab. XIX 2). A tal proposito, Plutarco riporta la testimonianza di Posidonio in base alla quale i Romani erano soliti chiamare Fabio lo scudo e Marcello la spada.

 

Secondo il biografo, Annibale si scontrava spesso con Marcello, il quale «irruente come un fiume lo scuoteva e ne fiaccava le forze»; invece, «da Fabio, simile a una corrente che fluisce lenta e silenziosa, ma penetra costantemente, veniva indebolito e logorato quasi senza accorgersene» (Fab. XIX 5).

 

Alla fine, Marcello perse la vita in un’imboscata; al contrario, Fabio riuscì a sottrarsi a qualsiasi tipo di inganno da parte del Cartaginese. In seguito, Fabio riuscì a riconquistare la città di Taranto. Peraltro, in tale occasione celebrò un trionfo più splendido del primo sui Liguri. I Romani lo ricoprirono di onori ed elessero console suo figlio, anche lui di nome Fabio.

 

Nel corso degli ultimi anni della sua carriera politica, si verificò un vero e proprio mutamento nell’ethos di Fabio, il quale non dette più prova di magnitudo animi. Anzi, cominciò a manifestare invidia nei confronti di Scipione, intenzionato a trasferire la guerra in Africa. Fabio temeva, infatti, che la fama di Scipione potesse offuscare il proprio prestigio: in particolare, era terrorizzato dall’idea di apparire pigro e incapace «per non aver debellato il nemico in così tanto tempo» (Fab. XXV 2).

 

A partire da questo momento, sembrò che si preoccupasse più per la propria reputazione che per le sorti dello Stato. Giunse al punto di costringere Crasso, collega di Scipione, a non affidargli il comando dell’esercito e a non concedergli i mezzi necessari per lo scontro con Annibale. Cercò di dissuadere i giovani dal proposito di partecipare alla guerra: in tal modo, Scipione poté disporre soltanto delle truppe che si trovavano in Sicilia. Infine, propose di essere sostituito al comando. Non molto tempo dopo Scipione riuscì a sconfiggere Annibale in campo aperto, in uno scontro degno di memoria. Ma Fabio non visse abbastanza a lungo per assistere al trionfo che segnava la conclusione delle ostilità con Cartagine.

 

Alla morte di Fabio, Plutarco ricorda che non vennero celebrate pubbliche esequie, ma che «ogni cittadino contribuì privatamente ai suoi funerali con la più piccola delle monete in corso a Roma, non già perché la povertà del defunto rendesse necessario provvedere alle spese, ma perché il popolo lo volle onorare di sepoltura come un padre del popolo; e, in questo modo, la sua morte fu circondata da onore e gloria adeguati alla sua vita» (Fab. XXVII 4).

 

Pur avendo suscitato sentimenti e giudizi contrastanti per il modus operandi adottato nella guerra contro Annibale, Fabio Massimo continuò ad essere considerato, anche dopo la morte, padre del popolo. Così, d’altra parte, lo consideravano i Romani quando «si rifugiavano nel suo senno».

 

Nell’opinione collettiva, l’uomo che, nel corso della sua vita, aveva mostrato di essere perennemente scisso tra il pugnare e il cunctare, era degno di lode per aver garantito salvezza alla patria.



 

 

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