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N. 102 - Giugno 2016 (CXXXIII)

Fabio Massimo Cunctator
Il dittatore che salvò Roma temporeggiando - Parte Ii

di Paola Scollo

 

Dopo la sconfitta del Trasimeno, di fronte a una situazione di diffusa instabilità e insicurezza, i Romani scelsero di ricorrere a un’autorità «unica e non soggetta a rendiconti», in grado di esercitare il potere senza debolezze e timori. In altre parole, fecero ricorso alla magistratura straordinaria denominata “dittatura”. E la scelta ricadde proprio su Fabio che, stando a Plutarco, disponeva di «saggezza e nobiltà di carattere» e di un’età nella quale «il corpo col suo vigore fa ancora da sostegno alle decisioni dello spirito e l’intelligenza si mescola alla prudenza» (Fab. III 7). I Romani, infatti, avendo individuato in lui l’unico salvatore della patria, gli affidarono un potere assoluto. Nel 217 a.C. Fabio venne quindi eletto dictator per la seconda volta.

 

Dapprima, il dittatore nominò magister equitum Marco Minucio; contravvenendo a un’antica legge, chiese poi al senato il permesso di usare il cavallo durante le spedizioni. Fabio si distinse anche per un profondo senso di religiosità, che lo spinse ad affidare il suo incarico agli dèi al fine di far comprendere ai Romani che la sconfitta al Trasimeno era legata alla negligenza e al disprezzo del generale per la divinità, piuttosto che alla viltà dei combattenti. Per queste ragioni, esortò i concittadini a non temere il nemico e a rendersi propizi gli dèi, cercando al contempo di infondere loro fiducia. Dopo aver riposto in sé ogni speranza di vittoria, si volse contro Annibale, non alla ricerca di uno scontro in campo aperto, ma nella prospettiva di logorarne e consumarne «col tempo la forza, col denaro i suoi scarsi mezzi e con l’abbondanza di uomini le sue esigue milizie» (Fab. V 1). In sintesi, adottò la tattica del logoramento in modo tale da privare il nemico della pienezza delle proprie forze «come una fiamma suscitata da combustibile scarso e poco consistente» (Fab. II 4).

 

Tuttavia, ben presto a Roma cominciarono a emergere dubbi sul suo operato. Stando a Plutarco, la strategia impiegata gli valse gradualmente «il disprezzo di tutti». Ma in fondo anche ai nemici appariva un vile o, addirittura, una nullità. Stando al biografo, soltanto Annibale apprezzava la deinotes, l’abilità strategica e la tattica con cui Fabio combatteva. Peraltro, il dittatore era infastidito dall’eccessiva e sconsiderata ambizione di Minucio, «desideroso di combattere anche quando non era il caso, temerario e deciso a conquistarsi il favore delle truppe che aveva riempito di furore aggressivo e di infondate speranze» (Fab. VI 5). A tal proposito, Tito Livio narra che Minucio, «impetuoso e frettoloso nelle risoluzioni, sfrenato di lingua», sia privatamente sia pubblicamente era solito chiamare Fabio «non temporeggiatore ma pigro, non cauto ma pauroso, attribuendogli a difetto quello che era virtù» (Ab Urbe Condita XXII 12). Infine, Plutarco ricorda che i soldati erano soliti chiamare Fabio «pedagogo di Annibale» e Minucio «un grand’uomo e un generale degno di Roma» (Fab. VI 5).

 

Se l’esercito romano metteva in pratica la tattica del logoramento, Annibale tentava, piuttosto, di costringere Fabio allo scontro aperto, ricorrendo a molteplici stratagemmi. Uno di questi si rivelò fatale per i Romani. Nel giudizio di Plutarco, in tale circostanza Fabio, avendo rinunciato ancora una volta alla battaglia, aveva commesso un imperdonabile errore strategico. La reazione a Roma non si fece attendere: il dittatore fu raggiunto da numerose calunnie e dall’ostilità del senato, ma non venne privato dell’incarico. Per volontà della plebe, il tribuno Minucio fu chiamato a proseguire la guerra con diritti pari a quelli del dittatore e con medesima autorità di comando. Si trattava di un fatto senza precedenti. Da parte sua, Fabio dette prova della constantia e della firmitas proprie dei sapienti: accettò serenamente quanto gli accadeva, confermando con la propria condotta il detto dei filosofi, secondo cui «l’uomo probo e onesto non può essere ingiuriato né disonorato» (Fab. X 2). In particolare, «lo preoccupava la sconsideratezza del popolo, che aveva offerto all’ambizione malsana di un uomo la possibilità di sfogarsi nella guerra; egli temeva che Minucio, completamente accecato dalla vanagloria e dal desiderio di prestigio, causasse qualche sciagura prima che si riuscisse a fermarlo» (Fab. X 3 - 4). Pertanto, Fabio decise di assumere il comando della prima e della quarta legione, mentre affidò al collega la seconda e la terza. Di fronte a tale spartizione, Minucio «si gloriò e rallegrò di essere riuscito a umiliare e abbassare l’autorità della più grande e alta delle magistrature; al che Fabio gli ricordò che, se era saggio, non doveva considerarsi in lotta contro di lui, Fabio, ma contro Annibale» (Fab. X 7). Da queste parole emerge senz’altro l’importanza che Fabio accordava al bene della collettività.

 

Spinto da ambizione e desiderio di gloria, Minucio ingaggiò un aspro combattimento con Annibale, nel corso del quale i Cartaginesi decimarono le truppe romane. Stando al racconto di Plutarco, «un indescrivibile sgomento e terrore colse i Romani e la stessa temerarietà di Minucio andò in frantumi: egli guardava spaurito ora questo ora quello dei suoi ufficiali, nessuno dei quali osò restar saldo al suo posto, ma anzi tutti si dettero alla fuga, senza però trovare la salvezza. Infatti i Numidi, ormai padroni della posizione, scorrazzavano in circolo per la pianura e massacravano i Romani sbandatisi qua e là» (Fab. XI 6 - 7). Narra poi Plutarco che Fabio si rivolse ai soldati, affermando ad alta voce: «Ora ognuno di voi, o soldati, si ricordi di Marco Minucio, e si affretti a prestargli soccorso; infatti è un uomo valoroso (lampròs) e ama la patria (philòpatris); se ha errato per la brama di sbaragliare il nemico gliene chiederemo conto a suo tempo» (Fab. XII 3). Questa testimonianza, peraltro, trova conferma nel racconto di Tito Livio, secondo cui Fabio, «udito il clamore e poi veduta la rotta delle schiere», esclamò: «Ecco, non prima che io temessi la fortuna punisce la temerarietà! Pareggiato fu Fabio nel comando, e Annibale trionfa e con il valore e con la fortuna! Ma ci sarà tempo alle recriminazioni e ai biasimi; ora si traggano le insegne fuori dal campo. Strappiamo la vittoria al nemico e la confessione del loro errore ai concittadini!» (Ab Urbe Condita XXII 29). Ancora una volta Fabio dimostrò valore e magnanimità: nessuna parola di condanna nei confronti del collega, ma solo desiderio di offrire immediato soccorso. Annibale decise di ritirare le proprie truppe, «ammettendo apertamente di aver vinto Minucio ma di essere stato vinto da Fabio».

 

In tale circostanza compito di Fabio fu dunque quello di contenere i danni causati dall’azione sconsiderata di Minucio che, d’altra parte, fu costretto a fare opera di sottomissione: «Due vittorie, dittatore, hai riportato in questo giorno: una su Annibale con il valore, l’altra sul tuo stesso collega con la prudenza e la generosità; con la prima ci hai salvati, con la seconda educati. Noi, che fummo vinti indecorosamente dal nemico, abbiamo ricevuto invece da te una sconfitta nobile e salutare. Io ti chiamo mio buon padre perché non trovo appellativo più onorevole; in realtà questo bene che ho ricevuto da te è ancor più grande del bene che ebbi da colui che mi ha generato; infatti, da quello io ricevetti solo la mia vita, mentre da te sono stato salvato insieme con tutti questi miei uomini» (Fab. XIII 7 - 8). Nell’immagine di Minucio, la prima vittoria era stata fonte di sicurezza per i Romani, la seconda di educazione per sé.



 

 

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