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N. 107 - Novembre 2016 (CXXXVIII)

breve storia delle teorie occidentali sulle cause dei terremoti

parte iI - SULLE analogie col corpo vivente
di Niccolò Caramel

 

La struttura della Terra era paragonata a un corpo vivente, Seneca vedeva una vitalità intrinseca nel cosmo, simile a quella del corpo umano, in cui le cavità funzionano come vasi sanguigni e vie respiratorie. Le “vie respiratorie” presenti nel corpo della Terra sono delle cavità che non si fermano in superficie, – come sosteneva Aristotele, riportando in auge la teoria dei “baratri” (grandi gallerie nelle quali confluiscono tutti i fiumi sotterranei) – all’interno delle quali scorrono acqua e aria, che si muovono e cercano un passaggio nella struttura rocciosa. Anche Seneca, perciò, era favorevole al sistema secondo cui è l’aria a essere la causa del terremoto: «che l’aria sia la causa di questo flagello, anch’io son d’accordo» [Seneca 2004, 491 [XXIV] (1)]. L’aria, infatti, era considerata l’elemento più «potente» e «più attivo in natura» [485 [XXI] (1)]. La sua teoria, che però non diverge di molto dalle precedenti, veniva espressa in questi termini:

 

Quando l’aria con la sua grande forza ha riempito completamente le cavità sotterranee e comincia a lottare e cerca una via d’uscita, più volte percuote i fianchi fra i quali si nasconde e sopra le quali a volte sono situate delle città. La scossa è talora così forte che fa crollare gli edifici sovrastanti; capita anche che le paretiche sorreggono tutta la volta della cavità precipitino nello spazio sottostante e città intere si affossino nell’immensa voragine. [493 [XXV] (1)]

 

Seneca, quindi, credeva che la causa fosse da ricercare nel soffio vitale, una specie di aria che infonde la vita a tutte le cose, anche agli esseri inanimati; il soffio si ritrova, perciò, all’interno del corpo terrestre, nella sua totalità, e viene esalato giornalmente. Molta aria occupa gli «spazi vuoti sotterranei» [473 [XVI] (4)], ed essendo «per sua natura mobile e fluttuante» [477 [XVIII] (1)], se viene messa in movimento da una «causa proveniente dall’esterno» [459 [XVIII] (1)] e trova ostacoli nel suo cammino, «infuria e abbatte gli ostacoli» [475 [XVII] (1)], «rumoreggia e, a lungo colpite, scuote e rovescia le pareti con una violenza tanto maggiore quanto più potente è l’ostacolo con cui ha dovuto lottare» [477 [XVIII] (3)]. La teoria di Seneca, a volte, risulta un po’ disorganica (egli, infatti, non era uno scienziato, ma uno scrittore che riportava idee antiche, risultando a volte confuso).

 

Possiamo leggere, infatti, l’espressione di un sistema molto complesso, legato alla compartecipazione di più elementi per spiegare lo scuotimento del globo: «a volte è causato dall’aria, a volte dall’acqua, a volte da tutte e due [...]» [477 [XX] (1)]. Egli accettava anche la spiegazione concernente l’erosione provocata dall’acqua, il cui stillicidio costante andrebbe a corrodere l’attaccatura delle rocce dal soffitto delle cavità sotterranee, con il successivo crollo dei macigni e lo scuotimento contiguo di sottosuolo e suolo terrestre.

 

Come abbiamo visto, un aspetto fondamentale della visione di Seneca, che verrà sostenuto e sviluppato in tempi moderni da Giordano Bruno, Leonardo da Vinci e Keplero, è la concezione della Terra in analogia con l’essere vivente. Come nel campo dei viventi scorrono arterie e vene, anche nel corpo della Terra scorrono canali ricchi di aria e acqua. In condizioni normali questi canali fanno scorrere liberamente le sostanze; in condizioni di malattia, o con l’avanzare degli anni, essi vengono ostruiti. Si verificano condizioni simili anche nella Terra, cosicché, quando il pneuma vuole fluire attraverso essa, incontra degli ostacoli, e la conseguente pressione porta a gravi terremoti. In ultima analisi, la novità della posizione di Seneca non risiede nella spiegazione scientifica del fenomeno, ma nella riflessione riguardante le reazioni che tale fenomeno procurò nell’essere umano, fornendo suggerimenti per confortare gli animi sconvolti e superare, così, la paura.

 

Ettore Bignone ha segnalato che nelle Questioni Naturali si trova conservato un frammento di Epicuro (342-270 a.C.), dal quale si può carpire la vicinanza di Seneca alla tradizione democritea:

 

«può l'acqua produrre lo scotimento della terra, se ne dissolve e corrode certe parti che, così stremate, non possono più sostenere ciò che sorreggevano prima. E può anche essere scossa la terra dall'impeto del vento. Poiché il suo moto deriva forse dal sommovimento dell'aria [che sia dentro la terra] quando un vento esterno vi penetri e l'agiti: o forse anche [quest'aria interna] è scossa dall'impeto di qualche frana subitanea. Forse ancora qualche parte della terra è sostenuta quasi da colonne o pilastri, onde se viziati crollano, trema la mole impostavi. Forse ancora una corrente di vento caldo conflagra a modo di fulmine, e mena strage di ogni cosa che vi s'opponga. Od anche è possibile che acque torpide e palustri siano agitate da qualche vento; donde, o l'urto scuote la terra, o l'impeto del vento, per lo stesso moto sempre più crescendo e da se medesimo incitandosi, si propaga continuamente dal basso in alto» [Epicuro 1920, 181].

 

Seneca prosegue dichiarando l’ammissione da parte di Epicuro della possibilità di tutte le cause ammesse da Democrito, e di altre ancora, ammonendo coloro che non credono possibile se non una sola causa. Leggendo la Lettera a Pitocle, scorgiamo la fedeltà di Epicuro alla propria dottrina fondamentale sopra i fenomeni meteorologici:

 

«I terremoti è possibile avvengano perché la terra racchiude del vento o perché piccole parti di essa sono contigue e in continuo movimento, cosa che ne provoca lo scuotimento. E questo vento può provenire alla terra dall’esterno o dalla caduta di masse di terra in profonde caverne, di modo che l’aria in esse compressa si trasforma in vento. Oppure i terremoti si possono produrre per la propagazione del moto causato dal crollo di molte masse di terra e per la sua ripercussione, quando siano urtate parti della terra più compatte e solide. E questi movimenti della terra si possono produrre in molti altri modi» [Epicuro 2012, 65 (105-106)].

 

Una fortunata tradizione è quella che tentò di trovare la causa nell’elemento del fuoco, segnalando una correlazione tra il fenomeno dei terremoti e quello delle eruzioni vulcaniche. Gli stessi Platone e Aristotele proposero l’esistenza di fiumi di fuoco [Platone 2004, 361 (111d)] e focolari di fuoco [Aristotele 2003, 172 (395b)] nel sottosuolo terrestre.

 

Il sofista pre-socratico Antifonte (480-410 a.C.) attribuiva la causa dei terremoti a un fuoco sotterraneo che crea curvature e spaccature sulla superficie della terra. L’ipotesi vulcanica di Antifonte riportata da Seneca, senza indicare espressamente il nome dell'autore (Rossana Mugellesi attribuisce il passo di Seneca ad Empedocle o Epicuro.), individua la causa dei terremoti in un fuoco sotterraneo che si espande nelle parti vicine del sottosuolo bruciandole. Queste parti, perciò, si sbriciolano e distruggono la superficie, determinando in tal modo i terremoti:

 

«Esso [il fuoco] brucerebbe nascosto in parecchi luoghi e consumerebbe tutto ciò che gli è vicino. Se capita che le parti consumate cedano, allora avviene il crollo di quelle che, private dei sostegni sottostanti, vacillano e finiscono per precipitare, non trovando nulla che possa sorreggerne il peso» [Seneca 2004, 459 [IX] (2)].

 

Un’altra teoria della quale Seneca non citò l’autore, ma che Rossana Mugellesi individua in Empedocle, sempre incentrata nell’azione dell’elemento fuoco, sostiene che le fiamme sotterranee siano il motivo del riscaldamento dell’acqua contenuta nel sottosuolo terrestre, provocandone l’ebollizione e il successivo scuotimento della terra soprastante:

 

«poiché esso [il fuoco] arde in parecchi luoghi sotto terra, è necessario che produca una grande quantità di vapori senza uscita, che con la loro potenza aumentano la pressione dell’aria e, se il calore diviene ancora più intenso, fa saltare tutti gli ostacoli» [461 [XI] (1)].

 

Seneca, inoltre, riportò la teoria di Anassagora in modo differente rispetto ad Aristotele, attribuendo al fuoco, non all’aria, il principio di causalità dei terremoti, esprimendola con queste parole:

 

«Quando, con la stessa violenza che lacera di solito le nubi da noi, il vento, nel mondo sotterraneo, squarcia l’aria spessa e condensata in nubi e il fuoco sprizza in seguito a tale collisione delle nubi nonché dell’aria cacciata fuori, questo fuoco stesso, cercando un’uscita, si scatena su ciò che incontra, fracassa ciò che resiste finché, attraverso uno stretto passaggio, trova la via per arrivare all’aria libera o se la apre con la violenza e la distruzione» [459 [IX] (1)].

 

La concezione di Tito Lucrezio Caro (94-15 a.C.), formulata ne La natura delle cose (che ricaviamo seguendo il commento di Ivano Dionigi, latinista italiano, curatore del testo e delle note del La natura delle cose, Tito Lucrezio Caro, Edizione BUR, Milano, 1997), poema del I secolo a.C. scritto sotto forma di poesia e ispirato alla scienza, segue la dottrina di Epicuro anche nella parte concernente i terremoti, ed è perciò in alternativa alle teorie aristoteliche e platoniche. La concezione atomistica della natura si presta a un approccio quantitativo: i corpi sono studiati come dotati di estensione, entità discrete capaci di moto o quiete, aggregazione o disgregazione. Le leggi della natura possono essere quantificate – poiché i corpi sono il prodotto dell’aggregazione delle particelle che portano energia – e ciò esclude il divino dalle questioni naturali. Dalla lettura del poema di Lucrezio si può discernere la sua concezione riguardo l’omogeneità fisica della Terra: il pianeta è composto sia in superficie che in profondità dagli stessi elementi, questo comporta l’unificazione tra suolo e sottosuolo e, di conseguenza, la diretta implicazione dei fenomeni che colpiscono una o l’altra parte; in questo modo avvenimenti turbolenti che si verificano nel ventre della terra hanno ripercussioni anche nella parte superficiale del globo:

 

«Anzitutto pensa che la terra, sotto il suolo / così come sopra, è piena ovunque di spelonche ventose, / e racchiude in seno molti laghi e stagni / e rocce e massi dirupati, e bisogna ritenere / che molti fiumi nascosti sotto il dorso terrestre / travolgano con violenza le onde e i macigni sommersi. / infatti la realtà stessa postula che la terra sia ovunque uguale a se stessa. E dunque per tali congiunzioni nel profondo, / la terra in superficie trema scossa da vaste rovine, / quando il tempo fa crollare enormi caverne sotterranee; / allora cadono intere montagne, e il tremito provocato / dalla violenta scossa di lì si propaga in luoghi lontani» [Lucrezio 1997, 569-71].

 

Come abbiamo detto, in Lucrezio vediamo rispecchiata la concezione epicurea; il terremoto è causato da crolli sotterranei di rocce o terre, oppure dalla pressione del vento che, premendo contro le pareti delle caverne, fa inclinare e oscillare la Terra, o, dopo aver turbinato nelle suddette cavità, erompe e la squarcia:

 

«Succede anche, quando per il tempo una vasta frana / precipiti dalla terra in ampi stagni e vaste lagune, / che anche la terra vacilli percossa dall’onda dell’acqua; [...] / Inoltre se il vento, raccolto nelle cavità sotterranee, / prorompe e incalza in un’unica direzione, premendo / con irresistibile forza sulle profonde spelonche, la terra / si piega dove incombe del vento. [...] / V’è anche un’altra causa dei grandi terremoti, / quando il vento o un improvviso possente impeto dell’aria, / sorto dall’esterno o dal seno stesso della terra, / s’avventa nelle cavità del suolo, e qui dapprima / freme in tumulto tra le vaste caverne e imperversa / turbinoso spaziando, poi, quando l’irruente / forza erompe sfrenata, squarciando / profondamente la terra, vi apre una vasta fenditura. / E se l’impeto stesso dell’aria e la forza selvaggia / del vento non riescono a prorompere, tuttavia entro i fitti / forami della terra si diramano come un brivido propagando le scosse» [571-73].

 

Anche nella Storia Naturale di Gaio Plinio Secondo possiamo trovare una rappresentazione della Terra come corpo animato sia in profondità, sia in superficie. La Storia Naturale può essere considerata un’opera compilativa, un’antologia della scienza greca priva di elementi nuovi. Dal trentaquattresimo al trentasettesimo libro Plinio descrive il pianeta e le sue ricchezze, riportando alcune osservazioni sulla causa del terremoto e affermando con sicurezza: «ciò che, ne sono convinto, non è da porre in dubbio, è che i venti sono all’origine del fenomeno» [Plinio 1982, 327 [192] (81)]. Attento ai dati empirici che osservava nella natura, egli riteneva i terremoti simili a temporali sotterranei, fornendo in questi termini le motivazioni della sua esclamazione:

 

«Le terre non cominciano mai a tremare se non c’è un mare placato, e un cielo tanto sereno, che gli uccelli non si librano in volo, per mancanza di una qualsiasi brezza che li trasporta; e solo quando c’è stato un periodo di vento, evidentemente perché il soffio si è nascosto entro le vene del suolo e per le sue segrete cavità. E il sussultare della terra non è diverso dal tuono di una nube; le fenditure nel suolo non sono diverse dall’erompere di un fulmine, quando il soffio rinchiuso si ribella e fa forza per uscire verso la libertà» [327 [192] (81)].
 

Plinio continuò la sua esposizione evidenziando come esistano scosse di intensità differente e come queste siano precedute e accompagnate da un diverso rumore a seconda del materiale e del tipo di galleria in cui il vento scorre. Proseguì descrivendo le zone e i periodi più colpiti e affermando che le terre più esposte sono quelle costiere, aggiungendo che anche le zone montagnose non sono indenni da questa calamità («mi risulta personalmente che le Alpi e gli Appennini hanno tremato varie volte» [Plinio 1982, 327 [194] (82)]. Inoltre, l’autunno e la primavera sono le stagioni più soggette al fenomeno e la notte più del giorno.

 

In generale, Plinio cercava di fornire degli elementi empirici grazie ai quali ognuno poteva osservare le manifestazioni che preannunciano o si accostano al fenomeno tellurico. Egli individuò altri segni che precorrono il terremoto e che possono essere colti da quella che lui chiamava un’«osservazione sicurissima» [329 [196] (83)], ovverosia le percezioni dei naviganti, il comportamento degli uccelli, la tipologia di nuvole che si può osservare in cielo e il colore e odore dell’acqua nei pozzi. Infine, concluse affermando l’esistenza di «una grande differenziazione nel tipo stesso di sisma, dato che vi sono molti generi di scosse» [329 [196] (83)], descrivendo poi il comportamento di terremoti più o meno pericolosi e i danni che possono provocare.

 

Dopo aver passato in rassegna i terremoti antichi più conosciuti all’epoca (Plinio descrisse quattro terremoti, il primo sotto il consolato di Lucio Marcio e Sesto Giulio [91 a. C.], il secondo con Nerone [68 a. C.], il terzo e più vasto sotto Tiberio Cesare [17 a. C.], infine il quarto, che dev’essere considerato più come uno sciame simico, avvenuto durante la seconda guerra punica e venendo chiamato per cinquantasette volte a Roma nell’arco di un anno [217 a. C.]. per la loro descrizione guardare: Plinio 1982, 327 [192] (81)), terminò sottolineando il potere distruttivo di intere isole, o generativo di nuove terre, ritrovandone la causa sempre nel soffio sotterraneo:

 

Uguale è la causa per cui sorgono nuove terre, quando quello stesso soffio ha la forza di spingere in alto il suolo, ma non è riuscito a far breccia. [...] Anche in un altro modo sorgono le terre, e di colpo emergono in qualche mare: quasi che la natura pareggiasse i conti con se stessa e restituisse da altre parti ciò che una voragine ha ingoiato.[...] Perché la natura ha creato isole anche in questo modo: ha strappato la Sicilia all’Italia [...] All’inverso ha rapito isole al mare e le ha unite alla terra [...] Ha fatto scomparire completamente delle terre [...] tralasciando golfi e stagni, la terra si divora da se stessa. [331-337 [201-205] (87-89)]

 

Le Metamorfosi di Publio Ovidio Nasone (43 a.C. - 18 d.C.), pur non essendo un’opera scientifica, hanno al loro interno contenuti scientifici che presentano delle novità (l’azione erosiva delle acque che muta il paesaggio e il problema dei fossili). I terremoti sono spiegati grazie al crollo di enormi cavità presenti nelle profondità della Terra, che durante le scosse collassano inghiottendo interi paesi:

 

«Che’l terremoto la terra innocente / Apre, e fa si profonda, e larga fossa, / Ch’inghiotte dentro à regni infami, e neri / i palazzi, le terre, e i monti interi» [Ovidio 1584, 116 (112)].

 

Anche per Ovidio il corpo della Terra assomiglia a quello di un animale. Il sottosuolo ha infatti uno spirito, simile ad un combustibile, il quale, però, col tempo si esaurirà: «Etna, che tanto foco ancor mantiene, / Non crediate, che sia per sempre» [531, (104)]. Tale combustibile, composto da zolfo e da minerali che bruciano e si fondono nel ventre dei vulcani e che permette il fenomeno delle eruzioni vulcaniche, è destinato a non durare per sempre.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Aristotele, Meteorologia, Libro II, Cap. VII, Lucio Pepe (introduzione, traduzione, note e apparati di), Edizione Bompiani, Milano, 2003.

Epicuro, Opere, frammenti, testimonianze sulla sua vita, Ettore Bignone (traduzione, introduzione e commento di), nella collana Filosofi antichi e medievali, G. Gentile (a cura di), Edizione Gius. Laterza e Figli, Bari, 1920.

Epicuro, Lettera ad Pitocle, in Lettere sulla fisica, sul cielo e sulla felicità, Nicoletta Russello (Traduzione e note di), Giulio Giorello (Prefazione di), Edizione BUR, Padova, 2012.

Gaio Plinio Secondo, Storia Naturale, I Cosmologia e Geografia, Libri 1-6, Libro Secondo, Cosmologia, in Gaio Plinio Secondo, Storia Naturale, Gian Biagio Conte (Edizione diretta da), Giulio Einaudi Editore, Torino, 1982.

Oeser E., Historical Earthquake Theories from Aristotle to Kant, in Rudolf Gutdeutsch, Gottfried Grünthal e Roger Musson (a cura di), Historical Earthquakes in Central Europe, vol. I, Abhandlungen der Geologischen Bundesanstalt, vol. 48, Geologische Bundesanstalt, Wien, 1992.

Ovidio, Metamorfosi, Gio Andrea dall’Anguillara (adattamento in ottava rima di), M. Gioseppe Horologgi (annotazioni di), Francesco Turchi (argomenti e postille di), Bern-Giunti, Venezia, 1584.

Platone, Fedone, Alessandro Lami (introduzione, premessa al testo e note di), Pierangiolo Fabrini (traduzione di), Edizione BUR, Milano, 2004.

Seneca, Questioni Naturali, Rossano Mugellesi (a cura di), Edizione BUR, Milano, 2004.

Tito Lucrezio Caro, La natura delle cose, Gian Biagio Conte (introduzione di), Luca Canai (traduzione di), Ivano Dionigi (testo e commento di), Edizione BUR, Milano, 1997.



 

 

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