N. 7 - Luglio 2008
(XXXVIII)
fORMAZIONE E PRIMA
EVOLUZIONE DEL
SENATO ROMANO
L’istituzione
senatoriale nell’età arcaica e
nella prima età
repubblicana
di Bianca Misitano
La prima età regia
L’organo che in assoluto rappresentò di più Roma e
ne divenne quasi l’emblema fu il suo Senato.
L’assemblea dei patres sarà, infatti, in epoca
repubblicana, la vera artefice di ogni aspetto della
politica romana, mentre nell’età imperiale
continuerà a lungo a giocare un ruolo fondamentale,
prima di perdere il suo potere e vedersi rimpiazzata
dall’apparato burocratico creato dai principi e più
intimamente legato ad essi.
L’enorme incidenza che comunque quest’organo avrà
per secoli nelle sorti di Roma influirà sulla natura
stessa della città. Il Senato non si presenta come
un elemento statico e monolitico, sebbene esso si
sia spesso caratterizzato per la sua opera
conservatrice della tradizione romana, ma si evolve
di pari passo con il crescere della città e
dell’impero e subisce diverse trasformazioni
inevitabili.
Ma, volendo partire dalle origini dell’Urbe stessa,
bisogna dire che l’assemblea dei senatori, a quanto
la tradizione ci fa sapere, nasce già agli albori di
Roma: è infatti una delle istituzioni fondate dal
primo re Romolo. Così Livio ci descrive la decisione
del rex: “[Romolo] Elegge cento senatori, sia perché
questo numero era sufficiente, sia perché erano
soltanto cento quelli che potevano ambire a una
carica del genere. In ogni caso quest’onore gli
valse il titolo di padri, mentre i loro discendenti
furono chiamati patrizi” (Ab urbe condita, I, 8).
Già al momento della sua creazione, la cooptazione
nelle fila del Senato viene quindi esplicitamente
definita un privilegio, quasi che i senatori fossero
già divenuti una classe sociale distinta.
Se Livio ci narra il modo in cui, perlomeno secondo
la tradizione, Romolo procedette nella costituzione
del Senato, non ci informa, però, del perché.
In realtà, quella del “consiglio regale”, organo che
principalmente aveva la funzione di affiancare il
sovrano nella sua attività, sembra essere
un’istituzione ancora più antica di Roma. Se ne
sono, infatti, trovati paralleli anche in altre
civiltà europee, come la Grecia o la civiltà
celtica. Ad esempio a Sparta esisteva una Gerousia
dipendente ancora in epoca classica dal potere dei
due sovrani e che anche lessicalmente si collega al
Senatus romano: entrambe le parole, gerousia e
senatus, significano infatti “consiglio degli
anziani”. Alla stessa maniera nei territori
centroeuropei della Gallia fino all’età degli oppida,
ossia l’epoca più tarda di quella civiltà, si
attesta l’esistenza di un’assemblea dei membri più
in vista del villaggio che veniva riunito dal re
quando c’erano da prendere importanti decisioni.
Questa diffusione della stesso tipo di assemblea
potrebbe fare ipotizzare per esso un’origine
indoeuropea ed, in ogni caso, si potrebbe affermare
che Romolo non si stava inventando nulla. Il re
forse stava dando alla nuova città un ordinamento
simile alle altre che costellavano il Lazio arcaico
e la creazione del “consiglio del re” non rientrava
altro che in questo programma.
Se la versione più arcaica del Senato romano, però,
non rappresentava una novità, la rapida crescita
della città portò ad un parallelo accrescimento del
potere dei senatori e ad un processo di modifiche e
adattamenti alla nuova situazione.
A dimostrazione del veloce aumentare dell’influenza
dei patres, c’è da dire che già durante il regno di
Romolo, perlomeno per quanto ci racconta Livio, la
dicotomia fra patrizi-senatori ed il resto del
popolo, ossia la plebe, aveva preso ad accentuarsi
sempre di più.
E’ vero, comunque, che l’origine del potere dei
patrizi, piuttosto che nell’appartenenza al Senato,
va ricercata nell’appartenenza a determinate gentes,
ossia famiglie che possedevano particolare influenza
all’interno della comunità romana.
La famiglia fu infatti il principale nucleo su cui
si basò inizialmente la società di Roma e ben presto
gli aristocratici si organizzarono per l’appunto in
gentes: tutte le casate che, per tradizione,
potevano vantare un unico capostipite costituivano
una gens.
Già in età arcaica, però, potere delle famiglie e
potere senatoriale vennero a fondersi e intersecarsi
in maniera profonda. A costituire il Senato,
infatti, saranno i componenti delle famiglie più
illustri, che così ebbero il modo di creare un
fondamento istituzionale per il loro potere.
Alle origini del Senato, quindi, vi è una netta ed
innegabile equivalenza fra importanza delle famiglie
ed influenza all’interno del Stato: appartenere ad
una gens aristocratica significava avere un posto
assicurato nell’assemblea ed a sua volta entrare fra
i senatori significava dare ancora più lustro alla
propria famiglia.
Si capisce come questo circolo vizioso diede presto
come esito una presa di controllo totale e
strettissima sul Senato da parte di un numero
limitato di gentes.
Il fatto che quello che si andava delineando come il
principale organo di governo romano fosse gestito da
una percentuale minima di cittadini fu una
situazione che resse relativamente finchè la stessa
monarchia fu in piedi, ma non appena, nel clima che
caratterizzò la fine del regime e l’instaurazione
della repubblica, si creò un’instabilità politica,
le lotte per aprire e allargare il collegio dei
senatori si fecero feroci e violente e gli scontri
fra patrizi e plebei non poterono avere fine se non
quando effettivamente si mise in atto un reale
apertura degli aristocratici verso le classi
inferiori.
Anche in età arcaica però, nonostante questi
conflitti abbiano trovato scarse occasioni per
venire in superficie, in conseguenza del rapido
accrescersi dell’importanza e delle dimensioni
dell’Urbe, il Senato si trovò di fronte alla
necessità di annoverare nuovi membri non provenienti
da gentes di tradizione senatoria.
Già, secondo un accenno di Livio (Ab urbe condita,
I, 30), il terzo re Tullo Ostilio decise di
aumentare (non si sa di quanto) il numero di
senatori dopo la conquista di Alba, per introdurvi
alcuni aristocratici albani. La pratica di
annoverare la classe dirigente delle nuove conquiste
fra i ranghi del senato sarà una delle poche reali
costanti di tutta la storia di Roma e dimostra come
l’assemblea romana fosse un elemento decisivo per
favorire la romanizzazione dei territori
assoggettati.
Il Senato già in età monarchica, quindi, si
trasforma ed evolve per reggere al veloce
espansionismo di Roma.
Se in origine, però, la classe senatoriale romana
era stata un organismo solido e compatto, l’arrivo
di elementi estranei poteva mettere in pericolo la
sua unione, determinando divisioni interne che
avrebbero potuto essere deleterie per un’istituzione
che si reggeva soprattutto sulla concordia fra i
suoi vari componenti.
Così, infatti, successe: i “nuovi arrivati” furono
presto catalogati quasi in una classe senatoriale a
parte, quella delle minores gentes in
contrapposizione alle maiores gentes, ossia le
famiglie di più antica tradizione.
I re etruschi
Questa divisione divenne abbastanza definita solo
all’epoca del primo dei tre re etruschi”,Tarquinio
Prisco: solo in quel momento le due categorie
vengono nominate da una testimonianza di Cicerone
(La repubblica, II, 35-36) ed una di Livio (Ab urbe
condita, I, 35).
Per garantirsi l’appoggio del Senato, il re,
infatti, vi introduce elementi favorevoli alla sua
causa, che vanno ad infoltire le fila delle minores
gentes.
Sebbene, come già detto, la definizione fra le due
“classi” diviene evidente, nelle nostre fonti solo
in questo momento, è plausibile pensare che già dal
tempo dei primi nuovi innesti, come per esempio
quelli provenienti da Alba, si sia creata una sorta
di dualismo con la “vecchia guardia”, anche se non
particolarmente accentuato.
Ma un altro aspetto dell’immissione di altri uomini
nel Senato fatta da Tarquinio Prisco merita di
essere preso in considerazione.
In merito Livio ci dice: “Impegnandosi non meno a
rinforzare il proprio regno che a consolidare la
potenza dello Stato, nomina cento nuovi senatori,
noti di lì in poi come secondo ordine, i quali
divennero incrollabili sostenitori del re al cui
favore dovevano la loro nomina in Senato.” (Ab urbe
condita, I, 35)
Pur essendo possibile che in questo caso Livio sia
influenzato da ciò che sarebbe accaduto sia al suo
tempo che nel passato più immediatamente recente,
dove chi prendeva il potere a Roma modificava a
proprio piacimento la composizione dell’assemblea
per assicurarsene l’appoggio, il rinnovamento
senatoriale effettuato da Tarquinio Prisco poteva in
effetti assolvere in parte a questo fine.
E il fatto che il re ne avesse sentito la necessità,
dimostra la crescente influenza dei senatori. Da
semplici componenti di un’assemblea consultiva, la
cui posizione di lealtà verso il re, quindi, non
avrebbe dovuto essere messa in discussione, adesso
chi saliva al trono si preoccupava di conquistarsene
i favori, e ciò significa che evidentemente non
c’era la sicurezza che il Senato glieli avrebbe
concessi.
In effetti l’approvazione del Senato nei confronti
del re diviene un elemento sempre più rilevante
negli equilibri di potere fra le istituzioni di età
monarchica e ciò, soprattutto, derivava
dall’esistenza di una particolare prassi, creata fin
dall’epoca della prima successione fra Romolo e Numa
Pompilio e nota come interregno.
In sostanza la regalità romana non è mai stata
regolata, come magari si può comunemente immaginare,
da criteri dinastici, di successione fra membri di
una stessa famiglia. I re divenivano tali per
elezione e da questo ne conseguiva il fatto che
coloro i quali avevano il diritto di eleggere il
nuovo re si trovavano giocoforza con in mano un
potere non indifferente. Nelle fonti viene
specificato come questo diritto spettasse al Senato
e al popolo, ma viene anche detto che, nei fatti, la
ratifica finale dovessero in ogni caso darla i
senatori. Né il loro potere in questa circostanza si
fermava qui: l’interregno infatti consisteva
nell’elezione di un senatore che avrebbe dovuto
coprire il periodo di vuoto fra la fine di un regno
e l’inizio dell’altro e che disponeva quindi, in un
certo senso, del potere regale.
Così Livio ci parla dell’origine di questo
particolare aspetto del governo romano: “Così i
cento senatori decidono di governare collegialmente:
creano dieci decurie e da ognuna di esse traggono un
rappresentante destinato a gestire l’amministrazione
dello Stato. Governano quindi in dieci anche se uno
solo aveva le insegne ed era scortato dai littori.
Il potere di ciascuno di essi durava cinque giorni,
poi passava a rotazione a tutti gli altri. Si trattò
di un intervallo di un anno. Siccome intercorse tra
due regni fu chiamato interregno, termine ancor oggi
in uso.
[I senatori] decretarono che il popolo avrebbe
eletto il re, ma la nomina sarebbe stata valida solo
dopo la ratifica.” (Ab urbe condita, I, 17)
Il peso dei senatori, quindi, nella scelta del nuovo
re divenne in breve uno dei tratti più
caratteristici dello stato romano arcaico, nella
misura in cui il re eletto si trovava evidentemente
in debito con l’assemblea.
Questa particolare circostanza, dell’interregno e
dell’elezione senatoriale, aveva delineato una
situazione in cui già da tempo la principale
alternativa al potere del monarca fosse proprio il
governo del Senato.
Che la classe dei senatori arrivasse a dirigere Roma
dopo la fatale caduta della monarchia fu, quindi,
quasi un passaggio naturale.
La prima età repubblicana
Pur ovviamente, ammettendo, un periodo di
instabilità politica abbastanza rilevante
(generalmente si considera il primo ventennio dei
Fasti, ossia le liste dei consoli, poco
attendibile), durante il quale forse Roma fu anche
dominata per un po’ dal re di Chiusi, Porsenna, il
Senato giunse ad affermare il proprio potere in
maniera sorprendentemente veloce e definitiva.
Il passaggio fra il sistema monarchico e
repubblicano avviene quasi senza indecisioni e
sicuramente senza sperimentare altri tipi di
governo, segno che la soluzione al vuoto di potere
venutosi a creare fu a tutti chiara.
E’ sotto la lunga direzione del Senato che Roma
assume quei caratteri che ancor oggi ai nostri occhi
ce la rendono familiare: la potenza militare,
l’incredibile capacità di stabilizzare le proprie
conquiste, la nascita del suo primato nel
Mediterraneo.
E’ sempre sotto il governo dei senatori che Polibio
rimane abbagliato dalla perfezione della “macchina”
romana ed è in quest’epoca che si pone la grande
impresa della seconda guerra punica, in sostanza è
ora che Roma diviene un impero.
La Roma repubblicana non smetterà di essere
vagheggiata nemmeno più tardi, in epoca imperiale,
come tempo di libertas ed equilibrio, in cui i
cittadini romani non avevano bisogno di un imperator
che provvedesse a mantenerne l’ordine.
Se però il sistema repubblicano costituì forse,
finchè la sua efficienza durò, la più stabile,
efficace, equilibrata modalità di governo di tutta
l’età antica essa non poteva durare senza che il
Senato al suo interno non subisse modificazioni, ed
anche importanti.
La gerarchia fra i senatori, in un primo momento, si
complicò nettamente, attraverso la creazione delle
magistrature.
Infatti, una volta esaurita la monarchia, si
presentò la necessità per i senatori di sostituire i
compiti e le prerogative del re, ciò venne fatto,
per l’appunto, nominando dei magistrati annuali.
è in
questa maniera che il Senato creerà quella propria
organizzazione che tutti conosciamo e si procurerà
la stabilità necessaria a gestire Roma.
A capo del Senato vennero posti due consules
(all’inizio denominati praetores), che ereditarono
dal re principalmente il compito di condurre le
truppe in battaglia, anche se le loro prerogative si
definirono da subito come più ampie di quelle di
semplici generali.
Altra carica importante era quella dei praetores
propriamente detti che, all’inizio, venivano eletti
in numero di due (praetor urbanus e praetor
peregrinus) e che avevano competenze essenzialmente
giuridiche, in seguito il loro numero aumentò a
quattro: dopo la riduzione a provincia di Sicilia e
Sardegna, si resero necessari, infatti, due nuovi
pretori da inviare in quei territori.
Cariche utili per il cursus honorum (la “carriera”
di un senatore, il cui culmine era il consolato)
erano anche la questura, che atteneva la sfera
economica ed anche la carica di censore. I censores
furono inizialmente incaricati di tenere il
censimento del senato, ossia di controllarne la
composizione e, se necessario, rinnovarla con
opportune modifiche. La loro sfera di influenza si
ampliò talmente tanto, però, che essi arrivarono a
ricoprire il compito di “sorvegliare” la condotta di
vita di ogni romano.
I tribuni plebei, forse all’inizio in numero di due,
poi in numero di dieci, tenuti a difendere gli
interessi della plebe e gli aediles curules che,
assieme agli aediles plebei, si occupavano in
pratica dei servizi pubblici, dall’organizzazione
dei giochi alla manutenzione e costruzione degli
edifici, si aggiunsero durante il periodo delle
lotte patrizio-plebee all’elenco delle cariche
senatoriali.
Completarono il quadro, quando il numero delle
province aumentò, i promagistrati (proconsules e
propraetores), ossia coloro che alla conclusione del
loro anno di pretura o di consolato venivano inviati
a governare una regione precisa.
Ma questo assetto, che, in sostanza, è quello
“classico” del Senato romano non sarà raggiunto
seguendo un’evoluzione lineare e senza scossoni, ma,
soprattutto per quel che riguarderà le magistrature
plebee, sarà frutto di scontri, anche notevolmente
violenti, fra le classi romane.
La repubblica era ancora giovane che, infatti,
cominciarono a svilupparsi dei contrasti fra i
patrizi, che avevano monopolizzato la totalità dei
posti di potere, ed i plebei, che essendo cresciuti
sia di numero sia in quanto a potenza economica,
premevano per veder loro riconosciuti alcuni
diritti, come l’assegnazione di terre ed una
compartecipazione all’amministrazione della città
con l’inserimento di elementi che li
rappresentassero in Senato.
Si deve supporre che questi contrasti fossero
latenti già dall’età monarchica, poiché scoppiarono,
stando alla cronologia “classica”, solo circa un
ventennio dopo l’instaurazione della repubblica. E’
probabile che i plebei approfittarono della
momentanea debolezza di Roma, che si trovava nel
momento di passaggio fra repubblica e monarchia, per
far sentire la propria voce, ma ciò non significa
che il problema della separazione fra i due ordini
fosse un problema appartenente unicamente all’età
repubblicana. In effetti anche nelle fonti troviamo
già una differenziazione dei due ordini fin dall’età
arcaica. Insomma molto, nel conflitto che scoppiò,
deve aver giocato una questione, molto pratica e
poco ideologica, di semplice “spartizione” del
potere all’interno della neonata repubblica.
I contrasti furono durissimi, per la ritrosia
patrizia a cedere i propri privilegi. La strategia
della completa chiusura diede, d’altra parte,
risultati palesemente infruttuosi, in un momento in
cui, oltretutto, Roma non poteva permettersi
instabilità interne, essendo minacciata dalle
popolazioni vicine.
Fu proprio quando ci si accorse che il protrarsi di
quella situazione avrebbe potuto essere fatale a
tutta la città che i senatori si ritrovarono a
dovere a poco a poco operare delle concessioni,
attuando, di fatto, un’apertura verso il basso che
fu forse la prima realmente importante di una serie
di allargamenti che procedettero parallelamente
all’espandersi dell’impero.
La cooptazione di componenti non “nobili” si
rivelerà infatti un modo quanto mai efficace di
legare a sé le elite delle province. Dare la
possibilità ad esse di poter aspirare ad un posto in
Senato, significava, infatti favorire la loro
collaborazione.
Con l’entrata dei plebei in Senato, a cui infine era
stato concesso finanche il consolato, si venne a
creare una nuova elite, non più fondata sulle poche
famiglie romane di lunga tradizione.
I nuovi elementi plebei non crearono uno
schieramento “avverso” al fronte patrizio, ma
aderirono in pieno al loro sistema di valori, alla
loro mentalità, al loro “spirito di classe” come e
forse anche più degli aristocratici di più antico
lignaggio.
D’altronde, nel loro moto di rivolta, i plebei
avevano sempre rivendicato una partecipazione al
potere, non una volontà di osteggiarlo e quindi si
capisce bene che la loro integrazione nel sistema
patrizio non contraddicesse gli intenti della loro
ribellione.
Ma, al momento che, fino ad allora, era stato di
massima apertura ne seguì uno in cui il Senato tese
a chiudere i suoi ranghi sempre di più.
In seguito alle lotte plebee e al formarsi della
nuova classe dirigente di composizione
patrizio-plebea, unita e compatta, seguì un periodo
di stabilità e tranquillità che fu forse fra i
migliori in tutta la storia politica di Roma.
Non le guerre, né le diverse tendenze, che pur
sempre erano presenti negli animi dei patres,
potevano scalfire la loro sostanziale concordia, uno
dei valori del mos maiorum, oltretutto, a cui
proprio quella classe si rifaceva di più.
Un esempio varrà su tutti: l’impatto con
l’ellenismo. Sappiamo bene che quando questo
avvenne, fu per la cultura romana, uno dei momenti
più delicati e al tempo stesso più incisivi di tutta
la sua storia. Si può dire che l’opinione pubblica
si spaccò a metà fra chi accoglieva con animo aperto
le raffinatezze ed i sofismi greci e chi invece
preferiva rimanere attaccato ai più antichi valori
latini e che vedeva nell’irrompere di queste nuove
tendenze motivo di corruzione e degrado morale.
Furono davvero degli anni in cui le due “parti”
diedero vita ad accesi dibattiti e confronti ed
anche in Senato presto si distinse un’ala
“filo-ellenica” ed un’altra più conservatrice.
Di questi due gruppi possiamo distinguere, volendo,
anche gli esponenti di punta, indivinduandoli nelle
posizioni ellenizzanti di Scipione l’Africano, il
giovane eroe della seconda guerra punica, ed in
quelle fortemente attaccate al mos maiorum di Catone
il Censore. Curioso come un appartenente ad una
delle famiglie, quella degli Scipioni, della più
antica tradizione si trovi in una posizione
nettamente più “riformista” rispetto a quella di un
parvenu come Catone. Ciò è uno degli elementi che
dimostrano quanto detto prima, ossia il forte
attaccamento agli ideali senatori delle “nuove
leve”, desiderose di integrarsi nell’ordine.
In ogni caso certo è che pur essendosi creato un
forte dualismo che incise anche in maniera vistosa
sulle vicende di politica, soprattutto estera,
questo non portò ad una scissione, alla creazione di
due fazioni o di due partiti diversi.
Molti furono gli scontri fra Catone e Scipione, il
quale arrivò a dominare il Senato assicurando per sé
e la sua cerchia tutti i posti di potere e che
dovette cedere, in secondo momento, ai “sabotaggi”,
se così possiamo chiamarli, di Catone, che lo
coinvolse in due processi a seguito dei quali
l’Africano scelse l’esilio. Le lotte politiche, le
invidie, i livori, i “regolamenti di conti” fra un
gruppo e l’altro esistevano sicuramente anche a
quell’epoca, ma rimanevano sempre circoscritti ai
“retroscena”, mentre nelle decisioni e nella
conduzione dello Stato il Senato riusciva sempre a
riacquistare e riaffermare la propria unità, la
propria concordia. La ragione si può facilmente
spiegare nella volontà dei senatori di preservare il
loro potere e la loro autorità sopra ogni altra cosa
e quindi di non creare, né nella situazione
complessiva dello Stato né all’interno della stessa
assemblea, situazioni di instabilità.
Questa la prima fase del principale organo
governativo romano che trova adesso la propria epoca
più fortunata ed una stabilità che non ritornerà più
nella sua storia.
Presto, infatti, gli anni della “rivoluzione romana”
si faranno avanti, minando fin nelle fondamenta, il
potere di questa istituzione che, alla fine, non
ebbe altra scelta che sottomettersi al dominio di un
imperator.
Riferimenti bibliografici:
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Rusconi Libri, 1997
G. De Sanctis, Storia dei romani, La nuova Italia,
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A.J. Toynbee, L'eredità di Annibale. Roma e l'Italia
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Pacini, 2000
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