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N. 52 - Aprile 2012 (LXXXIII)

Evangelismo, Arminianesimo e Unitarianesimo
Tre vie che devono rimanere separate

di Lawrence M.F. Sudbury

 

Un cambiamento teologico è in corso tra gli Evangelici così come tra gli altri Cristiani ... Questa tendenza è cominciata, credo, a causa di una lettura nuova e fedele della Bibbia in dialogo con la cultura moderna, che pone l’accento sull’autonomia, la temporalità e il cambiamento storico”.

 

Così inizia uno dei libri più noti del Dr. Clark Pinnock, un rispettato teologo evangelico arminiano i cui testi hanno sollevato un grande dibattito nel mondo riformato.

 

È un dato di fatto che, soprattutto negli Stati Uniti, stia diventando sempre più difficile dire che cosa un evangelico sia o non sia. Fondamentalmente, dal punto di vista storico, l’Evangelismo americano si divide, a partire dalla metà del XVIII secolo, in due tradizioni distinte: quella revivalistica e quella riformatrice (due anime già insite nel senso stesso della Riforma del XVI secolo), rivali nel momento in cui la corrente riformatrice ha sviluppato una teologia arminiana, più nettamente antropocentrica e considerata dai suoi detrattori nulla più che una popolarizzazione del Calvinismo classico.

 

È interessante notare, però, che tendenze analoghe sono presenti oggi anche all’interno della leadership teologica evangelica. Ancora Pinnock scrive: “La mia impressione è [...]che il pensiero agostiniano stia perdendo la sua presa sugli attuali Cristiani [...] È difficile trovare un teologo calvinista disposto a difendere la teologia riformata, comprese le opinioni sia di Calvino che di Lutero, in tutti i suoi particolari rigorosi. [...] Proprio come Agostino era venuto a patti con antico pensiero greco, noi stiamo facendo la pace con la cultura della modernità”.

 

Evangelismo ortodosso contro Arminianesimo, dunque? Ma cosa significa questa distinzione? Cerchiamo di chiarire i termini della questione.

 

Che cos’è un evangelico? Si potrebbe pensare che il termine “Protestante” esista da molto più tempo che il termine “evangelico”, essendo quest’ultimo spesso associato alla “crociate” e all’evangelizzazione televisiva degli ultimi anni.

 

Tuttavia, il termine “evangelico” è il più antico dei due: appare in manoscritti medievali, descrivendo una delle qualificazioni del buon predicatore nella sua capacità di aderenza al Vangelo, e fino alla Riforma, ha una connotazione molto vaga che va dall’avere un sincero amore per Cristo al possedere zelo missionario. Quando Lutero arrivò sulla scena il termine assunse un nuovo significato, passando dall’essere un aggettivo all’essere un sostantivo: non più “evangelico”, nel senso ambiguo medievale di pio, zelante e fedele, ma “un Evangelico”, nel senso di una persona che aderisse ai principi della Riforma.

 

Dopo il 1520 un Evangelico era una persona che fosse dedita allo studio della Scrittura e credesse al sacerdozio di tutti i credenti, allo smarrimento totale degli esseri umani, alla mediazione unica di Cristo, all’efficacia della Grazia e alla finalità dell’opera redentrice di Dio in Cristo mediante elezione. Insomma, il fulcro di tutto questo era la dottrina della giustificazione per sola grazia, mediante la sola fede, a causa di Cristo solo: gli evangelici, quindi, sia Luterani che Riformati, insistevano che questo fosse il Vangelo nella sua pienezza, non un semplice elemento astratto del dibattito dottrinale su cui i Cristiani potevano accettare di essere in disaccordo, ma il cuore del Cristianesimo.

 

I teologi e gli storici sono concordi nell’unità originale del principio formale e del principio sostanziale della Riforma, il primo essendo la sufficienza della Scrittura, e il secondo la dottrina della giustificazione per sola Grazia mediante la sola fede. Solo nella progressiva americanizzazione della fede evangelica si è ritenuto che l’adesione al principio formale fosse condizione necessaria e sufficiente per definirsi Evangelici. Ma, teologicamente, il vero cuore della questione rimane nel sistema interpretativo del principio sostanziale ed è a questo punto che entra in gioco Arminio.

 

Jacobus Arminius, uno degli studenti di Beza, fu il primo a decidere, all’interno della Chiesa riformata olandese, di analizzare diversamente il senso dell’insegnamento di Paolo al capitolo 7 della Lettera ai Romani, interpretando l’antropologia cristiana come riferita ad un essere completamente e liberamente rigenerato dalla fede, laddove i Riformati ortodossi avevano sempre letto l’immagine della vita cristiana come riferita ad un uomo giustificato e peccatore allo stesso tempo.

 

Soprattutto, Arminio fu il primo a negare l’elezione incondizionata, sostenendo che Dio prende la Sua decisione eterna sul destino del singolo basandosi unicamente sulla sua prescienza relativa alla fede e obbedienza che dimostrerà il Cristiano e non per libera scelta precedente alla sua rigenerazione per fede.

 

Già per questo l’intero sistema riformato ortodosso viene completamente negato.

 

Alla sua morte, inoltre, i seguaci di Arminio hanno portato le affermazioni del teologo alle loro più estreme e logiche conseguenze. I “Remonstranti”, come venivano chiamati, hanno presentato la loro fede in cinque punti chiave:

1) l’elezione è subordinata (cioè, determinata dalla fede e obbedienza del singolo previste da Dio);

2) l’espiazione è universale, non solo destinata ai prescelti ma legata alle intenzioni;

3) la depravazione umana è solo parziale;

4) la grazia è resistibile (posso voltarle le spalle coscientemente);

5) i rigenerati possono perdere la loro salvezza se compiono azioni malvagie.

Nella pratica, gli Arminiani hanno da sempre negato la convinzione, propria della Riforma, che la fede sia un dono e che la giustificazione sia una questione di pura dichiarazione legale nei confronti di uomini comunque predestinati alla salvezza o alla dannazione: per loro, essa deve implicare un cambiamento morale nella vita del credente sulla base di una libera scelta di coscienza.

 

Non si tratta di una sottile distinzione teologica per pochi studiosi del settore: è un salto qualitativo fondamentale, che nega l’assunto stesso su cui si fondano i “solas” ortodossi, inglobandoli in un sistema morale più ampio ma anche reinterpretando il nucleo di significato del Calvinismo classico fino a mutarne la natura in qualcosa di radicalmente nuovo.

 

Non è, dunque, per nulla stupefacente che nel 1618-19, il Sinodo di Dort, una conferenza internazionale di Chiese riformate, abbia giudicato i Rimostranti “eretici”: semplicemente, essi non si ponevano in alcuna continuità con la Riforma ortodossa e solo una visione superficiale della teologia può, come accade in numerose Chiese statunitensi, forzare Calvinismo e Arminianesimo (in seguito alla radice di gran parte del Metodismo e della “Via Media” anglicana) in uno stesso crogiuolo sulla base del loro riferimento comune all’autorità scritturale.

 

Purtroppo, nello stesso crogiuolo è spesso finito anche l’Unitarianesimo, visto da alcuni come naturale conseguenza dell’assunzione di un sistema di riferimento morale antropocentrico.

 

Dal punto di vista storico, in effetti, sono noti i legami (in vero più caritatevoli che teologici) tra Rimostranti e antitrinitari Sociniani allorché questi ultimi furono espulsi dalla Polonia nel 1660 ed è certamente vero che ovunque l’Arminianesimo è stato adottato, l’Unitarianesimo ha ben presto preso sempre più spazio tra le Denominazioni liberali (così nei Paesi Bassi, in Europa orientale, in Inghilterra, e nel New England).

 

Certamente non si tratta, però, di una sorta di “piano inclinato” tale per cui “se si accetta x, presto si abbraccerà y”: più che altro risulta piuttosto chiaro come il passaggio da un messaggio teocentrico di peccaminosità umana e grazia divina a un messaggio antropocentrico che relativizza il ruolo della provvidenza divina possa creare una visione più concreta e meno centrata sulla totale dipendenza dalla Grazia di una Entità totalmente altra rispetto all’uomo stesso.

 

In altre parole, se gli esseri umani non sono così malvagi, forse non hanno bisogno di un piano radicale di salvezza, quanto piuttosto di un discorso di incoraggiamento, di una ispirazione che indichi loro la strada e di una Grazia che, più che altro, sia utile a contrastare gli affetti peccaminosi dell’imperfezione umana.

 

Naturalmente nella teologia della Riforma le cose stanno ben diversamente: gli esseri umani non hanno bisogno di aiuto, hanno bisogno di redenzione, non si limitano al bisogno di qualcuno che mostri loro la via d’uscita, hanno bisogno di Qualcuno che li liberi dalla morte spirituale e dalle tenebre e, certamente, il passaggio tra questo genere di “monoergismo divino” (Dio solo opera per la salvezza umana) al “sinergismo” arminiano (cioè ad un lavoro congiunto di Dio e uomo) rende l’Arminianesimo più prossimo alla teologia unitariana.

 

Ma prossimità non significa per ciò stesso consonanza, come vorrebbero, soprattutto in ambito statunitense, sia alcuni gruppi arminiani che alcuni gruppi unitariani.

 

Probabilmente la radice della confusione va cercata negli sviluppi teologici di inizio XIX secolo, quando per circa 25 anni la maggior parte del New England è stato coinvolto in un groviglio di argomenti teologici, conosciuti come “la Controversia Unitariana”.

 

Oggi si parla poco di questo argomento ma, in effetti, esso ha in gran parte informato molte delle Congregazioni Unitariane Universaliste americane fino ad oggi.

 

Per comprendere ciò di cui stiamo parlando dobbiamo prendere l’argomento alla lontana e partire da una breve analisi della situazione delle Chiese puritane del New England nel XVII secolo.

 

Durante la “Grande Migrazione” del 1630 circa 20.000 puritani inglesi si stabilirono nel New England e iniziarono a praticare una politica congregazionale tale per cui i membri della chiesa locale si univano su un piano di parità non sulla base di un assenso a un credo, ma sulla base di un patto, cioè di una promessa sottoscritta da tutti i membri della comunità.

 

Si tratta, ovviamente, di una politica rivoluzionaria che, teologicamente, si basa su una serie di domande quali: “chi detiene realmente l’autorità religiosa?”; “come possiamo conoscere chi detiene tale autorità?”, “come si manifesta?”.

 

Il “patto ben rispondeva a queste domande e, soprattutto, respingeva l’autorità dei vescovi o di qualsiasi ente ecclesiastico o civile e politico diverso da quello della Chiesa locale, sostituendola con il principio di “comunione” interna alla Chiesa e tra le Chiese.

 

L’idea di fondo era quella di camminare nella “libertà del Vangelo” mentre le chiese del mondo erano state corrotte da intrighi politici e separazioni che da essi derivavano.

 

Di fatto, anche questa strutturazione non era esente da problemi: la “Controversia Antinomiana” della prima generazione, con la questione della disciplina della Chiesa sollevata dai puristi che non potevano tollerare di stare in comunione con Congregazioni che avvertivano come impure, dovette essere risolta, almeno temporaneamente, dal Sinodo di Cambridge nel 1646-1648, nella cui piattaforma finale si decise che né concili né sinodi potessero dettare linee alle singole Chiese (ma solo consigliarle) ma, in ultima analisi, proprio tale Sinodo finì per imporre una linea strettamente legata alla dottrina calvinista di Dio, dell’umanità e della salvezza di recente formulata dall’Assemblea di Westminster in Inghilterra.

 

Un calo dei membri della Chiesa dalla seconda generazione pose, però, una sfida alla leadership puritana: se i primi coloni puritani erano un gruppo di persone auto-selezionato che, in condizioni molto difficili in Inghilterra, era venuto a condividere gli stessi ideali, le generazioni successive si trovavano di fronte a circostanze molto diverse e manifestavano una grande varietà di atteggiamenti verso l’autorità della chiesa parrocchiale stessa.

 

Per risolvere questo problema, quindi, a metà del secolo XVII, molte Congregazioni adottarono la controversa “Alleanza Mediana” che concedeva il privilegio di appartenenza ecclesiastica al pubblico degli adulti di “retta vita” che erano stati battezzati ed allevati come figli della Chiesa, senza tener conto della loro opinione sulla “salvezza vicaria”.

 

La crescita conseguente di membri della Chiesa finì, però, solo per differire il problema di fondo di divergenti interpretazioni delle fasi che conducevano alla vita spirituale e delle modalità in cui tale vita spirituale si dovesse esplicare.

 

Nel frattempo, la crescita dell’economia mercantile della Nuova Inghilterra stava anche esercitando un’influenza moderatrice sulla vita religiosa del Paese: i commercianti non apparteneva solo a una congregazione puritana, ma anche alla comunità commerciale internazionale e spesso si sentivano in condizioni di svantaggio nei mercati esteri per quel certo stigma di intolleranza che caratterizzava la visione religiosa della loro area di provenienza. Inoltre molti mercanti erano irritati per le normative imposte loro dalle autorità puritane che seguivano l’ideale di subordinazione del vantaggio individuale al bene comune.

 

Un certo numero di uomini d’affari del New England, scoprendo di non poter operare sotto il regime puritano, tornò in Inghilterra e fu sostituito da una nuova ondata, a metà del XVII secolo, di imprenditori anglicani provenienti dall’Inghilterra, che entrarono immediatamente in contrasto con le autorità locali: entro la fine del secolo l’autorità puritana aveva perso il suo potere di monito sulla popolazione.

 

La bilancia del potere si spostò a tal punto che nel 1699 un gruppo di mercanti di Boston, guidato da John Leverett e William e Thomas Brattle, pubblicò un manifesto chiedendo l’organizzazione di una nuova Chiesa con orizzonti più ampi e liberali.

 

Se la laicizzazione della società americana venne frenata dal Primo Grande Risveglio a partire dal 1734, non tutti i Congregazionalisti furono soddisfatti dall’emotività eccessiva, persino isterica, dei “revival”: in particolare gli Arminiani, con la loro enfasi sulla volontà e l’attività umana, iniziarono a dichiarare che l’uso della ragione era un mezzo migliore per la crescita religiosa, sostenuti in questo da nuove idee nella scienza e nella filosofia, in particolare dagli scritti di Isaac Newton e John Locke, che avevano come corollario l’idea di un potenziale di sviluppo continuo della mente umana, in ciò includendo uno sviluppo della moralità e di altri aspetti di carattere religioso.

 

Entro la fine del XVIII secolo molte delle più grandi Chiese, soprattutto ma non esclusivamente nella parte orientale del Massachusetts, erano diventate teologicamente marcatamente liberali: per essi la libertà della volontà umana era sia una realtà dell’esperienza comune che un necessario corollario alla bontà di Dio, senza la quale la giustizia di Dio non avrebbe senso e, su questa stessa linea, si iniziarono a rifiutare in quanto non bibliche le dottrine calviniste del peccato originale, della totale depravazione, della predestinazione e della Trinità.

 

In risposta alla nuova influenza liberale, alcune chiese più ortodosse cominciarono a inserire elementi di “Credo” nei loro alleanze, mentre le chiese liberali si aggrappavano sempre più fortemente al vecchio ideale puritano del “camminare insieme” in amore cristiano, senza imposizioni dogmatiche.

 

Le strade tra ortodossi e liberali cominciarono a divaricarsi sempre più a inizio ‘800, con dispute sulle cattedre teologiche, sviluppo di percorsi di formazione indipendenti, pamphlet reciprocamente irrisori, etc.

 

Insomma, la comunione del New England si squarciò in due: da un lato i Riformati ortodossi di stretta osservanza, dall’altro le Chiese liberali che, naturalmente, includevano sia gli Arminiani che gli Unitariani (il sermone considerato da molti fondativo dell’Unitarianesimo americano venne tenuto da Channing a Baltimora nel 1819).

 

Come detto, la polemica tra i due rami continuò per anni, con i Congregazionalisti calvinisti che insistevano sul fatto che la comunità cristiana dovesse essere limitata ai membri in accordo con alcune proposizioni dottrinarie quali la natura di Dio, la natura umana e la natura della salvezza e i Liberali e Unitariani Congregazionalisti che insistevano altrettanto fortemente sul fatto che la loro alleanza ecclesiastica potesse abbracciare tutti coloro che volevano praticare una vita cristiana.

 

È inutile, qui, ripercorrere tutte le tappe della polemica, che arrivò a toni molto alti e ad azioni molto basse, con rivendicazioni sul possesso degli edifici, spaccature di Congregazioni, polarizzazioni al limite dell’assurdo con Chiesa definite unitariane solo perché il Pastore era laureato ad Harvard o definite calviniste se il Ministro era un laureato di Yale o di Andover.

 

Ciò che conta in questa sede è comprendere come una “alleanza” tra Arminiani e Unitariani non significasse, come qualcuno tende a credere oggi, una comunione teologica, che non c’è mai stata. Le due teologie sono, in realtà, fatte salve alcune proposizioni morali, radicalmente diverse in tutto.

 

Arminio non è mai stato reticente nell’affermare che la salvezza passa attraverso la Grazia di Dio Padre, per mezzo della fede in Cristo Gesù solo, iniziata per opera dello Spirito Santo solo. Anzi, è proprio Arminio che afferma: “L’oggetto della fede non è solo il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, ma allo stesso modo Cristo stesso che è qui costituito da Dio, autore della salvezza per coloro che gli ubbidiscono”.

 

È chiarissimo l’assunto che vi siano tre Persone distinte nella Divinità che collaborano per la salvezza dell’umanità e si dovrebbero ignorare intenzionalmente proprio gli scritti fondativi dell’Arminianesimo per concludere che l’insegnamento di Arminio o dei Rimostranti porti inevitabilmente all’Unitarianesimo, il quale, notoriamente, vede in Cristo un uomo praticamente perfetto, un Profeta, un Messia, ma assolutamente non una Persona divina e nello Spirito Santo (o “Spirito di Vita” una potenza di Dio e non una Persona distinta).

 

Si può, dunque, concordare sul fatto che ogni via, se percorsa seriamente e con fede, possa portare alla salvezza, ma ciò non significa e non potrà mai significare che tali vie siano identiche: così come l’Arminianesimo, pur derivando dall’Evangelismo, se ne discosta a tal punto da diventare Denominazione altra, allo stesso modo, e, anzi, ancora di più, la semplice alleanza teologica liberale e l’accordo sulla centralità dell’opera umana non fanno di arminianesimo e Unitarianesimo una cosa sola.

 

Proprio nell’ottica di una scelta della “strada migliore” per il singolo, una confusione tra Denominazioni così lontane (come in certe Congregazioni Evangeliche Arminiano-Unitariane) finisce per confondere unicamente le acque e per fare del male a tutte e tre le Denominazioni e a chi decide di credere seriamente nelle loro rispettive teologie.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

C. Pinnock, A Case for Arminianism: The Grace of God and the Will of Man, Zondervan 1989

E.M. Wilbur, Our Unitarian Heritage, Starr King University 1925

J. Arminius, Opere, Zondervan 1993

M.A. Ellis (a cura di), Arminian Confession, Pickwick Publications 2005

L.M. Vance, The Other Side of Calvinism, Vance Publications 1999

R.E. Olson, Arminian Theology: Myths and Realities, IVP Academic 2006

J. Hannah, Our Legacy: The History of Christian Doctrine, NavPress 2001

T. Beza, The Christian Faith, Focus Press 1992

D. Alexander, Christian Sanctification: Five Views, IVP 1981

J. Lawson, Introduction to Christian Doctrine, Zondervan 1986)

G.E. Ellis, A Half-Century of the Unitarian Controversy, Nabu Press 2010



 

 

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