N. 55 - Luglio 2012
(LXXXVI)
IL PRIMATO INVIOLABILE DELLA PERSONA
SU EUTANASIA E ABORTO
di Danilo Caruso
Si è
completato
in
Argentina
lo
scorso
maggio
2012
l’iter
parlamentare
di
una
legge
che
ha
sancito
il
diritto
del
malato
grave
(e
in
caso
di
sua
incapacità
a
determinare
con
piena
facoltà,
per
suo
conto,
dei
familiari
o di
altri
soggetti
riconosciuti)
di
rinunziare
a
qualsiasi
forma
artificiale
di
sostegno
sanitario
alle
funzioni
biologiche
vitali
dell’organismo
laddove
questo
non
offra
motivo
di
recupero
o
sia
attuato
in
un
contesto
che
non
abbia
speranza
di
positivi
cambiamenti
(non
è
concesso
ai
medici
causare
direttamente
il
decesso
del
paziente
in
alcun
modo:
eutanasia
attiva).
In
Italia,
dove
al
momento
il
vuoto
legislativo
crea
ambiguità
e
confusione
in
relazione
all’applicabilità
del
testamento
biologico
(che
stabilirebbe
l’inderogabile
volontà
personale
in
merito),
i
dibattiti
di
cronaca
si
sono
dunque
soffermati
ancora
una
volta
sul
tema,
mettendo
in
evidenza
l’opposizione
radicale
tra
due
schieramenti.
Uno
è
quello
del
pensiero
che
si
richiama
alla
dottrina
della
Chiesa
cattolica,
contrario
a
tutti
i
tipi
di
morte
dignitosa,
l’altro
è
quello
laico
che
riafferma
un
principio
universale:
la
libertà
di
decidere
di
ciò
che
riguarda
la
propria
persona.
È
comprensibile
l’insegnamento
religioso
che
vorrebbe
la
difesa
della
vita
a
tutti
i
costi,
ma
non
è
parimenti
possibile
nello
spazio
pubblico
poter
introdurre
delle
norme
che
contraddicano
il
diritto
di
natura.
È
lecito
che
la
Chiesa
esplichi
il
suo
magistero
senza
essere
ostacolata
in
ciò,
ma
la
morte
assistita
dal
punto
di
vista
giuridico
esula
dalla
religione:
se
un
ammalato
vuole
porre
fine
alla
propria
esistenza
deve
essere
libero
di
farlo
come
possibilità
concessa
dalle
leggi,
nessuno
può
impedirglielo
senza
negargli
la
piena
sovranità
nell’ambito
della
propria
persona
e
così
distruggere
la
sua
libertà.
Costui
non
può
essere
condannato
da
un
altro
principio
–
che
tutti
condividiamo,
del
valore
dell’esistenza
– a
una
sofferenza
a
oltranza:
sia
libero
di
prendere
una
decisione
secondo
coscienza.
La
liceità
non
comporta
che
tutti
se
ne
avvalgano,
ma
che
possano
accedervi.
Nel
rispetto
del
desiderio
del
sofferente
può
radicarsi
il
messaggio
della
Chiesa,
che
non
è
messaggio
normativo,
ma
messaggio
di
fede
e di
spiritualità
non
vincolante
lo
Stato
nella
sua
legislazione.
Lo
Stato
deve
tutelare
i
diritti
naturali
del
cittadino
lasciandolo
compiere
la
sua
scelta,
che
egli
compie
secondo
le
sue
credenze
(di
qualsiasi
sorta
esse
siano).
L’ipotesi
dell’eutanasia
è
assai
delicata:
se
questa
non
deve
essere
praticata
non
lo
dovrebbe
a un
divieto
di
carattere
legale,
che
sarebbe
innaturale,
lo
dovrebbe
a
una
consapevolezza
di
fede
o di
convinzione
diversa
che
rispetti
le
intenzioni
del
sofferente.
Costui
sia
posto
nelle
condizioni
di
scegliere,
e
quindi
lo
faccia
preferendo
la
via
che
gli
sembra
migliore.
Lo
stesso
cardinale
Carlo
Maria
Martini
si
era
espresso
anni
addietro
(come
in
questa
circostanza
la
CEI)
contro
l’accanimento
terapeutico,
e la
mancata
somministrazione
di
farmaci
a un
malato
incurabile
sarebbe
un’eutanasia
passiva.
Alcuni
sacerdoti
sono
a
essa
favorevoli.
La
proposta
del
cardinale
Martini
non
è
insensata
o
anticristiana,
è il
massimo
che
nel
contesto
del
magistero
cattolico
si
potrebbe
concedere.
Però
al
di
fuori
della
sfera
religiosa
lo
Stato
dovrebbe
render
ammissibile
la
facoltà
di
un
soggetto
che
versa
in
gravissimo
disagio
per
malattia
di
porre
fine
alla
propria
vita
se
lo
vuole
e
come
lo
vuole:
anche
con
causa
esterna
diretta
e
non
solo
sospendendo
la
terapia.
Permettere
questo
è un
atto
di
umanità,
anche
nella
sua
controversia
e
nella
sua
paradossale
ragionevolezza,
ostacolarlo
sembra
più
inumano
di
tanti
altri
ragionamenti.
La
Chiesa
parla
della
vita
come
di
un
bene
supremo,
però
questo
assolutismo
non
può
calarsi
in
maniera
automatica
in
una
realtà
imperfetta
senza
appunto
cozzare
contro
alcuni
problemi
come
vediamo.
La
realtà
quotidiana
è il
luogo
in
cui
non
tutti
hanno
gli
stessi
ideali,
e
dove
non
è
lecito
imporre
modelli
totalitari.
Di
fronte
a
tutte
le
disparate
posizioni
va
concesso
ciò
che
è
possibile
ammettere
in
linea
con
lo
ius
naturae.
L’errore
assolutistico
è,
per
dare
un
esempio
nella
dimensione
della
res
publica,
compiuto
allorquando
lo
Stato
consente
l’aborto
senza
fare
una
rigida
distinzione
di
casi.
Due
concetti
come
l’eutanasia
e
l’aborto,
totalmente
osteggiati
o
sostenuti,
nella
quotidianità
dovrebbero
essere
rivisti
in
modo
elastico
adattandoli
al
concreto
e
tenendo
presenti
i
grandi
principi
che
ispirano
le
nostre
azioni.
L’interruzione
di
gravidanza
sempre
possibile
contraddice
il
significato
dell’esistenza
umana
attraverso
questo
suo
assolutismo
pratico.
Si
sbaglia
ancora
a
rifiutarla
e a
renderla
d’altro
canto,
per
così
dire,
liberalizzata:
nessuna
delle
due
concezioni
si
adegua
al
mondo.
La
prima
perché
trascura
una
varietà
di
situazioni,
come
nell’eutanasia,
da
rendere
ammissibili;
la
seconda
perché
seppellisce
il
diritto
alla
vita
dell’embrione
che
dovrebbe
avere
uno
statuto
di
persona
in
potenza.
Non
è
una
buona
cosa
o
tutto
sì o
tutto
no:
in
tutte
le
gravidanze
normali
l’aborto
voluto
è
una
prassi
innaturale
e
non
dovrebbe
essere
legale
(per
prevenirle
ci
sono
i
sistemi
contraccettivi,
lo
Stato
italiano
al
posto
di
fare
nel
1978
una
legge
non
perfetta
avrebbe
dovuto
e
dovrebbe
educare
il
cittadino
a
conoscerli
e
inoltre
sanare
situazioni
o
pretesti
di
disagio
socioeconomico);
condizioni
in
cui
l’interruzione
di
una
gestazione
potrebbe
essere
consentita
sono
quelle
ragionevoli
in
cui
si
demanderebbe
agli
interessati
(o
nell’eventualità
di
impedimento
a
chi
stabilito
dalla
legge)
l’esito
di
un
conflitto
etico:
1)
rischio
di
pericoli
per
la
gestante
(che
sia
libera
di
decidere),
2)
rischio
di
un’esistenza
gravemente
disagiata
per
il
nascituro
(che
scelgano
i
genitori,
3)
maternità
conseguenza
di
atti
di
violenza.
In
queste
nessuno
dovrebbe
sindacare
delle
altrui
risoluzioni:
chiunque
le
prenderà
come
crede.
La
possibilità
è
libertà:
chi
rifiuta
l’aborto
e
l’omicidio/suicidio
terapeutici
non
rivendicherà
queste
opzioni
e
non
le
metterà
in
atto.
Nel
caso
dell’aborto
non
sarebbe
possibile
generalizzarlo
al
di
fuori
di
questa
circoscrizione.
Le
leggi
dovrebbero
scaturire
come
migliore
mediazione
–
che
non
è
relativismo
–
tra
le
esigenze
dell’universale
e
del
pratico.
Alla
Chiesa
è
demandata
la
materia
della
morale
di
carattere
religioso,
lo
Stato
è il
contenitore
di
tutti
nel
mondo
d’ogni
giorno
(e
non
tutti
questi
sono
cattolici):
da
ciò
proviene
questa
dicotomia
laico/religioso,
che
deve
essere
mediata
nel
rispetto
di
tutte
le
posizioni
fatti
salvi
i
diritti
della
persona.
Allo
Stato
compete
un
altro
piano
in
cui
il
cittadino
opera
e
dove
si
dovrebbe
prendere
cura
di
lui
senza
essere
concorrenziale
con
la
dimensione
spirituale
che
rimane,
nella
sostanza,
un
fatto
di
carattere
singolarmente
intimo
(il
che
non
significa
non
riconoscere
e
non
rispettare
la
manifestazione
esteriore
e
pubblica
di
una
qualsiasi
religiosità
che
rispetti
i
valori
universali
dell’umanità).
Sino
a
oggi
l’eutanasia
attiva
è
consentita
in
Albania,
Belgio,
Cina,
Colombia,
Germania,
Lussemburgo,
Olanda,
Oregon
(USA),
Svizzera.
La
gamma
delle
vigenti
legislazioni
sulla
sospensione
di
gravidanza
è
abbastanza
varia:
si
va
da
Cile,
Città
del
Vaticano,
El
Salvador,
Malta,
Nicaragua
che
non
concedono
niente
ad
Albania,
Bahrain,
Belgio,
Bielorussia,
Bosnia,
Cambogia,
Canada,
Cina,
Corea
del
Nord,
Croazia,
Cuba,
Danimarca,
Estonia,
Grecia,
Lettonia,
Lituania,
Macedonia,
Montenegro,
Norvegia,
Olanda,
Porto
Rico,
Serbia,
Slovenia,
Svezia,
Ungheria,
Vietnam
che
sono
molto
permissivi.
Le
migliori
sembrano
quelle
di
Botswana,
Ghana,
Israele,
Liberia,
Namibia,
Nuova
Zelanda.