N. 50 - Febbraio 2012
(LXXXI)
un'europa in cerca di autonomia
sull'euroscetticismo britannico
di Giovanni Piglialarmi & Roberto Rota
Cosa
rimane
oggi
dell’Europa?
Cosa
rimane
di
questo
giovane
sistema
politico
in
crisi
col
mercato,
che
ha
incontrato
più
ostacoli
di
quanti
ne
potesse
incontrare
una
grande
potenza
mondiale?
Un
tentato
federalismo
mai
amato
(e
bocciato)
dagli
inglesi,
per
dirla
con
le
parole
dello
storico
Sergio
Romano,
impegnato
nel
campo
della
diplomazia
e
delle
relazioni
internazionali
da
più
di
quarant’anni.
Già
il
Generale
De
Gaulle
fu
il
promotore
di
un
ferrea
opposizione
contro
la
Gran
Bretagna;
non
voleva
assolutamente
far
accomodare
“il
cavallo
di
Troia
degli
Stati
Uniti
in
Europa”.
Ma
anche
la
Francia
fu
costretta
a
mollare.
Invasa
dalla
crisi
del
’68,
con
le
elezioni
alla
presidenza
della
V
Repubblica
di
Georges
Pompidou,
la
nazione
promotrice
dell’Europa
non
fu
più
in
grado
di
opporsi
all’entrata
della
Gran
Bretagna.
La
Comunità
Economica
era
stata
ben
accettata
dalla
nazione
Inglese.
Le
risorse
economiche
che
si
univano
per
una
fruizione
comune
apparivano
come
una
porta
verso
il
progresso,
un’affermazione
del
mercato
europeo
ricco
e
forte
nel
mondo.
Le
forze
politiche
conservatrici
inglesi,
però,
hanno
sempre
mostrato
posizioni
euroscettiche
per
poi
privilegiare
sempre
i
rapporti
con
gli
USA.
I
leader
conservatori
si
sono
mostrati
coerenti
nel
tempo
con
questa
linea
politica:
Margaret
Thatcher,
la
famigerata
lady
di
ferro,
nel
1985,
si
oppose
inutilmente
ad
una
convocazione
di
una
conferenza
intergovernativa
che
avrebbe
fissato
le
tappe
della
costruzione
europea.
Il
tory
John
Major,
durante
i
negoziati
per
l’Unione
Economica
a
Maastricht
,
ottenne
il
diritto
di
non
adottare
la
moneta
unica.
Tony
Blair,
premier
laburista,
preferì
il
rapporto
privilegiato
con
gli
Stati
Uniti
al
futuro
federale
dell’Unione
Europea.
Potrebbe
essere
questa
considerata
una
lunga
strategia
britannica
per
impedire
che
si
formasse
un’Unione
Federale
Europea.
Oggi
su
cosa
ci
si
scontra?
Cambia
l’argomento
ma
le
posizioni
di
allerta
sono
sempre
le
stesse.
Durante
un
dibattito
informale
sull’Unione
Fiscale
Europea
con
David
Cameron,
il
presidente
francese
Sarkozy
non
ha
certo
mascherato
le
sue
posizioni
neo-golliste.
La
Francia
certamente
non
vuole
perdere
il
primato
di
una
nazione
che
ha
inventato
l’Europa
comunitaria
e
farsi
gestire
dalla
Gran
Bretagna
che
spesso
e
volentieri
ha
influito
sulle
sorti
dell’Unione.
La
Francia
può
rivendicare
molti
leader
che
hanno
contribuito
al
progetto
europeo:
da
De
Gaulle
a J.
Monnet,
industriale
che
inventò
il
metodo
degli
obiettivi,
passato
alla
storia
come
il
“metodo
Monnet”.
Ma
oggi
non
si
parla
di
leader.
Si
parla
di
finanza,
di
economia,
di
interesse.
Cosa
può
la
debole
identità
europea
(per
non
dire
inesistente)
davanti
ai
progetti
di
politiche
economiche
dei
singoli
stati?
A
questo
punto
ben
poco.
La
Francia
mostra
sempre
le
sue
riserve
mentali.
Accetta
le
cooperazioni
militari
come
quella
in
Libia
ma
certamente
non
accetta
il
potere
di
veto
di
Londra
o di
Roma
o di
Berlino
(?)
in
merito
alle
decisioni
che
toccano
le
istituzioni
europee.
Si
può
arrivare
a
dire
che
l’Europa
ha
un’identità
filo-francese?
Sarebbe
troppo
pericoloso!
In
tutta
questa
miscela
“politica”
pericolosa,
l’Italia
che
posizione
occupa?
Certamente
non
la
riserva
del
co-dominio
franco-tedesco.
Per
un
paese
che
ha
avuto
un
leader
come
Alcide
De
Gasperi,
che
ha
contribuito
fortemente
alla
nascita
di
un’Europa,
anzi
di
un’Europa
identitaria
(sostenne
più
di
tutti
le
radici
cristiane
dell’Europa),
l’Italia
deve
preoccuparsi,
per
ora,
solo
di
un’Europa
che
abbia
un
direttorio
fluido
per
una
buona
governabilità.
Perché?
L’Europa
non
può
progredire
basandosi
su
formazioni
politiche
contrapposte
per
bloccare
la
“civiltà
inglese”
o la
“cultura
tedesca”
o
ancora
il
“nazionalismo
francese”,
come
avrebbe
detto
Carl
Schmitt.
Per
unire
una
società
basta
creare
il
nemico,
disse
l’insigne
giurista
tedesco.
Le
forze
politiche
devono
fare
di
più.
Creare
il
nemico
“collasso”
e
prefiggere
l’obiettivo
“successo”.
Prima
di
una
riuscita
economica,
sociale
e
politica,
ci
vuole
un’Europa
con
una
matrice
d’identità.
Ma
che
non
sia
l’eurocentrismo.
Perché?
Questo
fenomeno
è
stato
analizzato
con
timore
fin
dal
‘700.
Gli
studiosi
illuministi,
già
allora,
ritenevano
che
gli
stati
europei
avrebbero
sempre
favorito
la
loro
indipendenza
e
non
sarebbero
mai
convenuti
in
un
“movimento
centripeto”
che
avrebbe
favorito
in
qualche
modo
un
progetto
di
un’Europa
unita.
La
monarchia
assoluta
ha
lasciato
la
sua
impronta:
il
concetto
di
sovranità
in
Europa
si
scontra
fortemente
con
il
concetto
di
democrazia
e
federalismo
in
stile
americano.
I
governi
monarchici
hanno
sempre
mostrato
come
la
sovranità
non
si
potesse
dividere.
Un
potere
diviso
non
è
sovranità,
ma
gestione,
organizzazione,
proprio
della
demo-oligarchia;
il
che
è
ben
diverso.
Dunque
rivendicare
i
“ruoli”
piuttosto
che
cooperare
è un
problema
di
“scuola
politica”.Oggi
ci
si
lamenta
di
un
deficit
di
democraticità
all’interno
delle
istituzioni
europee.
Che
senso
ha
se
ogni
nazione
tenta
di
difendere
il
proprio
“collegio”?
Famosa
è la
storia
di
come
è
nato
il
Consiglio:
da
un
battuta
del
presidente
Americano
Kissinger,
che
sottolineٍ
che
in
Europa
manca
“un
numero
di
telefono”
dove
chiamare
per
trattare
di
questioni
importanti.
è
possibile
comparare
il
fenomeno
Europeo
a
quello
Americano?
E’
possibile
parlare
di
Stati
uniti
d’Europa?
Praticamente
è
impossibile.
Gli
americani
hanno
il
loro
modo
di
vivere
che
è
differente
dal
nostro.
Sono
nati
come
stato
sotto
il
cielo
unito
della
costituzione.
La
prima
cosa
sulla
quale
hanno
operato
è
stata
la
più
importante:
la
condivisone
di
un
valore,
anzi
di
valori,
di
un
progetto,
di
una
visione
quale
è
l’America
oggi.
Il
costituzionalismo
di
valori
ha
ragione
di
esistere
se
il
valori
enunciati
sono
condivisi.
Una
costituzione
muore
nel
momento
in
cui
il
valore
sociale
non
corrisponde
più
al
valore
giuridico.
l’ultimo
vertice
di
bruxelles,
però,
non
è
stato
un
vertice
in
stile
democristiano,
per
discutere
di
identità
e
radici.
e’
stato
un
vertice
per
discutere
di
fiscalità
e
crisi.
e ci
si
chiede
spesso:
è
indispensabile
che
la
gran
bretagna,
con
il
suo
gioco
economico,
continui
a
rimanere
nella
cerchia
politica
europea?
cosa
ha
fatto
londra
dopo
la
nascita
del
mercato
comune?
già
alla
nascita
della
comunità
economica
europea,
churchill
disse
di
preferire
il
“gran
lago”,
ovvero
il
commonwealth,
e il
rapporto
speciale
con
gli
stati
uniti.
quando
si
accorse
che
la
politica
di
mercato
europea
poteva
mettersi
benissimo
in
competizione
con
la
scena
mondiale,
il
premier
inglese,
per
non
farsi
stringere
nella
morsa,
creò
un’alternativa
al
mercato
comune,
un’associazione
di
libero
scambio
(efta)
nel
1959
con
la
partecipazione
della
danimarca,
dell’austria,
norvegia,
svezia
e
svizzera.
Quale
funzione
aveva?
La
Gran
Bretagna
non
ha
mai
creduto
in
una
buona
riuscita
del
mercato
comune.
e
per
non
farsi
coinvolgere
in
questa
europa
a
trazione
francese,
con
l’efta
avrebbe
raccolto
i
naufraghi
del
fallito
mercato
comune,
conquistando
il
merito
del
salvataggio
e
“sottomettendo”
gli
stati
europei
alla
sua
politica
economica
filo-americana.
ma
le
cose
andarono
diversamente.
Fu
l’efta
a
fallire
e la
gran
bretagna
subì
anche
l’umiliazione
del
veto
gollista.
Nel
1972
la
gran
bretagna
entrò
nella
comunità
europea.
quale
novità?
cambiò
la
tattica
ma
non
la
strategia.
apparentemente
collaborò
con
gli
stati
fondatori
al
progetto
europeo
ma
il
suo
compito
era
quello
di
un
cavallo
di
ulisse.
Spiare,
sorvegliare
diplomaticamente
il
processo
unitario
europeo
e
impedire
la
nascita
di
una
federazione.
Negli
anni,
è
stato
sempre
un
elemento
negativo
il
suo
intervento
politico?
assolutamente
no.
ha
introdotto
alcuni
principi
di
mercato,
di
libero
scambio
fondamentali
per
il
progresso
di
un’economia
europea
forte.
ma
gli
obiettivi
della
sua
politica
rimasero
sempre
gli
stessi:
rimanere
il
perno
fondamentale
tra
gli
usa
e l’europa.
questo
continuo
ruolo
di
doppia
faccia,
ha
portato,
oggi,
la
gran
bretagna
in
una
triste
situazione:
il
governo
di
cameron
all’opposizione
era
euroscettico.
Oggi
sostenuto
in
gran
parte
dagli
europeisti
del
partito
liberal-democratico,
deve
aiutare
gli
altri
stati
europei
a
salvare
l’euro
dalla
sua
morte
e
allo
stesso
tempo
a
mantenere
salda
la
linea
dei
conservatori
“euroscettici”.
il
pragmatismo
inglese
vuole
salvare
dunque
la
moneta
unica
ma
evitare
un
nuovo
trattato
europeo.
e
gli
stati
europei
non
devono
temere
di
andare
avanti
senza
la
“madre
inglese”:
nessuno
ha
il
dovere
di
attenderla.
che
progresso
sia.
Prima
o
poi
la
gran
bretagna,
se
non
abbraccerà
l’unione
federale,
rischierà
solo
di
scendere
in
una
posizione
dove
una
sua
decisione
non
avrà
più
tanta
influenza.