contemporanea
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SULL’EUROCOMUNISMO
LA STRADA VERSO
IL COMPROMESSO STORICO
di Claudio Li Gotti
A metà degli anni Settanta prese forma
una forte iniziativa politica dei tre
principali partiti comunisti dell’Ovest
europeo (italiano, spagnolo e francese)
per mettere a punto gli elementi di una
nuova cultura politica basata sui
principi delle democrazie occidentali:
il fine era quello di realizzare
progressivamente la loro partecipazione
al governo delle rispettive nazioni.
La Conferenza dei 29 partiti comunisti
d’Europa, svoltasi a Berlino nel giugno
1976, rappresentò la manifestazione
evidente dello strappo compiuto dai tre
partiti occidentali nei confronti
dell’URSS, per le contraddizioni che si
formavano sulla via della definizione e
dell’adozione di una strategia politica
riformista e innovativa.
Questa strategia, denominata
“eurocomunismo”, nasceva
dall’esigenza di attuare delle riforme
democratiche per la trasformazione delle
società europee e per raccogliere uno
schieramento più ampio di forze
popolari. Il principale promotore di
questa iniziativa fu Enrico
Berlinguer, alla guida del più forte
tra i partiti comunisti occidentali, che
si era reso interprete di profonde
riflessioni sulla scena politica
italiana, drammaticamente bloccata anche
dal continuo isolamento del PCI da ogni
forma di coalizione governativa, e che
avrebbe ispirato la stagione italiana
del “Compromesso Storico”.
È necessario adesso compiere una breve
panoramica dello scenario storico di
quegli anni, per meglio comprendere le
condizioni che hanno portato agli
sviluppi di questa fase politica.
Distensione e “nuova via”
Nei primi anni Settanta la Guerra Fredda
tra le superpotenze Usa e Urss viveva la
sua fase di “distensione”, un
processo di dialogo e negoziato avviato
nel 1968 con il Trattato di Mosca sulla
non proliferazione dell’energia nucleare
per scopi bellici e proseguito poi in
modo più incisivo grazie anche
all’abilità geopolitica del presidente
americano Nixon e del suo consigliere
per la sicurezza Henry Kissinger.
L’apertura dei rapporti nel 1971 con
l’altro grande paese comunista, la Cina
di Mao Zedong, e la visita al
leader sovietico Breznev a Mosca
nel maggio del 1972 (firma dei negoziati
SALT I) rappresentarono due
importanti passi in avanti verso la
coesistenza pacifica tra Occidente e
Oriente.
La Ostpolitik di Willy Brandt,
Cancelliere della Repubblica Federale
Tedesca, segnava sicuramente un’altra
importante tappa del processo di
distensione e consolidava i principi di
libertà di circolazione e di presa di
coscienza sul continente europeo. Nel
caso specifico, si trattava di una
politica di apertura e di
normalizzazione dei rapporti tra le due
Germanie e tra i tedeschi occidentali e
gli altri paesi del blocco orientale.
La fase di distensione fra i due blocchi
contrapposti favoriva dunque un cambio
di rotta nei rapporti fra i tre maggiori
partiti comunisti occidentali e l’Urss,
i primi sentendosi meno vincolati alla
guida sovietica, pur non rinnegandola, e
ricercando una indipendenza
progressivamente più marcata rispetto a
Mosca. Il progetto politico
dell’eurocomunismo indicava questa
“nuova via”, una storica svolta
socialdemocratica dei partiti comunisti
in Francia, in Spagna ma soprattutto,
come vedremo, in Italia. In linea di
massima, la formula prevedeva l’apertura
politica anche alle altre forze non
marxiste dei rispettivi Stati, allo
scopo di realizzare programmi comunisti
nell’osservanza dei principi della
democrazia parlamentare.
Il termine “eurocomunismo” fu
pronunciato per la prima volta da Enrico
Berlinguer a Parigi, nel gennaio del
1976, ma l’atto ufficiale di nascita
sarebbe stato l’incontro di Madrid del
1977 con gli altri due leader comunisti
Santiago Carrillo (Spagna) e George
Marchais (Francia). L’incontro doveva
definire la
nuova via da seguire per i
tre partiti, che si indirizzavano
decisamente verso posizioni vicine alla
socialdemocrazia; questo percorso
comportava un allontanamento dalle
posizioni sovietiche e una critica
sempre più marcata dei sistemi politici
imposti nei paesi dell’Est europeo, che
in Italia era già cominciata molti anni
prima con il dissenso esplicito
sull’invasione della Cecoslovacchia.
Sul piano nazionale i tre partiti
eurocomunisti elaboravano analisi
convergenti sulla crisi che aveva
colpito le società capitaliste
dell’Europa occidentale; la crisi era
definita globale e strutturale, non
riguardava solo l’economia ma tutti gli
aspetti della società, comprese la
politica e la morale. Quindi era
auspicabile un’apertura a riforme in
senso più democratico e la sostanziale
rinuncia al dogma della rivoluzione come
unico mezzo per acquisire il potere.
La stagione del Compromesso Storico in
Italia (1976-1979)
Il contesto italiano era sicuramente il
più difficile e complicato, giacché il
nostro era un Paese dove erano entrati
in crisi gli equilibri politici ed
economici. Il terrorismo imperversava,
sfidando le istituzioni democratiche
come in nessun altro paese europeo e
aveva due opposte connotazioni, di
destra e di sinistra. A un terrorismo
“nero”, che si proponeva di spargere il
panico attraverso attentati dinamitardi
contro la popolazione allo scopo di
creare nell’opinione pubblica le
condizioni per una svolta autoritaria e
un forte governo di destra, si
contrapponeva un terrorismo “rosso” che
si identificava con la nascita delle BR
(Brigate Rosse) e che aveva un terreno
di cultura nella crisi economica, nella
disoccupazione giovanile e nel movimento
studentesco di quegli anni.
Alla fine degli anni Settanta, il
terrorismo di sinistra ebbe una tragica
impennata che sfociò nella
programmazione dei primi omicidi
politici, strategia che avrebbe segnato
quel periodo come “gli anni bui della
Repubblica” o, con il termine più
suggestivo, gli anni di piombo.
Sotto l’insegna dell’eurocomunismo, il
PCI di Berlinguer veniva sempre più
candidato a entrare al governo come un
necessario garante dell’unità nazionale,
di una più efficace politica economica e
di un maggiore impegno nella lotta al
terrorismo. Il processo di distensione
internazionale appariva a Berlinguer
come la condizione più favorevole per
superare l’ostacolo più importante alla
partecipazione dei comunisti al governo
del paese, la conventio ad
excludendum, ossia la condizione di
democrazia bloccata dall’esclusione del
PCI da qualsiasi coalizione governativa.
Il segretario comunista fu l’ispiratore
del compromesso storico fra le
due principali forze politiche del
dopoguerra italiano, il PCI e la
Democrazia Cristiana. Con tre articoli
pubblicati sulla rivista “Rinascita”, a
commento del Golpe in Cile del 1973,
Berlinguer si apriva a delle profonde
riflessioni sul contesto italiano e
proponeva un nuovo modello di
socialismo, basato su un programma di
profonde trasformazioni sociali e di
rinnovamento politico. Il progetto che
proponeva Berlinguer era dunque
l’accordo tra i partiti disposti a
realizzare una nuova politica
governativa, un’alternanza
democratica al “regime
democristiano” che aveva governato gli
ultimi trent’anni.
Il principale interlocutore del leader
comunista era il presidente
democristiano Aldo Moro, già
protagonista negli anni Sessanta dei
primi governi di apertura a sinistra
della storia repubblicana. Moro attuava
la cosiddetta “strategia
dell’attenzione” nei confronti del PCI,
che nasceva dal bisogno di rendere
possibile il più ampio dialogo in vista
di una nuova e qualificata maggioranza;
tale strategia era un chiaro invito alle
trattative verso il compromesso storico
elaborato da Berlinguer. Ma anche altri
autorevoli esponenti politici italiani,
come il leader dei repubblicani Ugo La
Malfa, erano convinti che fosse perfino
indispensabile la presenza del PCI
nell’area di governo, per cambiare il
vecchio sistema di guida democristiana.
Malgrado ciò, gli Stati Uniti non
potevano permettersi un atteggiamento
indifferente circa la posizione occupata
da un partito comunista all’interno di
un paese dell’Europa occidentale e
l’avvicinamento all’area di governo del
PCI veniva visto a Washington come un
notevole salto nel buio. Il Segretario
di Stato americano Kissinger diffidava
di questa presunta distanza
dall’ortodossia sovietica da parte del
PCI, credendola una tattica per la
conquista del potere e una minaccia per
l’intera alleanza atlantica.
Le elezioni politiche del giugno 1976
rivelarono una flessione della
Democrazia Cristiana, una netta
sconfitta di tutti i partiti minori che
rappresentavano il suo sistema di
coalizione e un notevole balzo in avanti
del Partito Comunista, che ottenne il
suo miglior risultato di sempre con il
34% dei voti. Fu chiaro che la DC non
poteva più garantire una stabilità
politica con lo stesso metodo con cui
aveva formato gli esecutivi negli ultimi
trent’anni.
Dal momento che tutte le forze
parlamentari si rifiutavano di associare
il PCI a qualsiasi coalizione di
maggioranza, l’unica soluzione possibile
fu quella di formare un governo
monocolore DC, cioè un esecutivo che
fosse sorretto in Parlamento solo dal
voto dei democristiani e che basasse la
sua fiducia sull’astensione dei
comunisti, in primis, e degli altri
partiti della rappresentanza
parlamentare. In poche parole, un
governo della non sfiducia e di “unità
nazionale”.
Giulio Andreotti, che nei primi anni
Sessanta aveva avversato la formula dei
governi di centrosinistra adottata da
Aldo Moro, fu chiamato a fare da
Presidente del Consiglio garante e guida
della suddetta solidarietà nazionale. Un
chiaro segnale dell’apertura politica al
PCI fu realizzata a livello
istituzionale con la nomina di Pietro
Ingrao a Presidente della Camera (il
primo comunista della storia) e con
l’assegnazione al Partito di Berlinguer
di alcune presidenze di importanti
commissioni.
Il Governo Andreotti III rimase in piedi
fino al termine dell’anno 1977, quando
il leader del PCI chiese l’ingresso a
pieno titolo nel governo per il suo
Partito; i comunisti dovevano essere
coinvolti in modo diretto per dare un
indirizzo nuovo alla politica italiana.
La scelta di Berlinguer non riscontrò i
favori dell’area più radicale del PCI ma
dovette imbattersi anche nel rifiuto
della Segreteria DC e del Dipartimento
di Stato americano. La nuova presidenza
di
Jimmy Carter, pur seguendo una linea più
equilibrata di non interferenza nella
politica interna italiana, dichiarava
espressamente di “non accogliere con
favore la partecipazione comunista nei
governi dei paesi occidentali”, un
chiaro messaggio destinato alla
situazione italiana e al pericolo reale
di ingresso del PCI nel governo.
Il paventato passo successivo nella
direzione del compromesso storico, che
doveva compiersi con la nascita del
primo vero governo “consociativo”, venne
così di fatto bloccato. Fu avanzata la
soluzione di un nuovo governo monocolore
DC, sempre presieduto da Giulio
Andreotti, ma stavolta sostenuto dal
voto parlamentare dei comunisti e degli
altri partiti. Il PCI, in questo modo,
entrava attivamente nella maggioranza,
pur non facendo parte del governo; una
strategia che fu resa possibile grazie
anche alla mediazione di Aldo Moro
innanzi al suo partito.
Il 16 marzo 1978, il giorno previsto per
il dibattito sulla fiducia in
Parlamento, le BR contribuirono a
interrompere bruscamente il processo di
cambiamento con il sequestro di Moro e
la successiva esecuzione (9 maggio). Nel
momento di massima crisi generato
dall’attentato di Via Fani, il nuovo
esecutivo ottenne la fiducia basandosi
sull’astensione dei comunisti.
La stagione del compromesso storico e
della solidarietà nazionale era tuttavia
agli sgoccioli, il Governo Andreotti IV
rimase in carica per circa un anno,
riuscendo solo in parte ad attuare le
riforme necessarie (una su tutte la
legge sanitaria).
Nel gennaio del 1979 il PCI poneva fine
all’eterogenea e fragile alleanza di
governo, per le divergenze in materia di
politica economica ed estera; a un
successivo esecutivo Andreotti, che però
non ottenne la fiducia in Senato, seguì
lo scioglimento anticipato delle Camere
da parte del Presidente Pertini,
nell’aprile dello stesso anno.
Il fallimento della svolta politica fu
in tal modo decretato e fu una disfatta
soprattutto per il PCI, che vide un
crollo dei voti nelle elezioni del
giugno 1979. Nondimeno, questo breve ma
intenso periodo diede un contributo
determinante per la sconfitta del
terrorismo in Italia.
Riferimenti bibliografici:
L. Bonanate,
Appunti sull’eurocomunismo,
Torino 1978.
M. Bruscagin, Eurocomunismo: il sogno
di coniugare democrazia con socialismo,
tesi di laurea Università Cattolica
di Milano, a.a. 1994/1995.
P. Filo Della Torre, E. Mortimer,
J.Story, Eurocomunismo, Mito o
Realtà?, Milano 1978.
R. Gardner, Mission: Italy. Gli anni
di piombo raccontati dall’ambasciatore
americano a Roma, Milano 2004.
P. Ginsborg, Storia d’Italia dal
dopoguerra ad oggi, Torino 2006.
A. Tatò (a cura di), Conversazioni
con Berlinguer, Roma 1985. |