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N. 60 - Dicembre 2012 (XCI)

EUGENIO CURIEL E IL SOGNO DI UN’ITALIA LIBERA
a cent'anni dalla nascita

di Giuseppe Tramontana

 

“È triste ma fiero il discorso che fanno ai nostri cuori i morti che ci sono vicini. Quella consegna che ogni patriota sente nel dolore del suo animo straziato dalla visione dell’Italia su cui accampa il barbaro massacratore nazifascista, quella consegna ci sembra più sacra quando noi la cogliamo nel discorso dei nostri morti: combattere fino alla vittoria, fino alla libertà; osare ancora, fare di più, volere tenacemente e instancabilmente la vita e la libertà per noi e per l’Italia, perché volere questo, conquistare questo, è il suffragio migliore per la loro memoria.”

 

“Nessun settarismo, nessun particolarismo organizzativo limiti e inceppi la nostra azione. Il nostro ideale è di essere l’avanguardia delle nuove generazioni nella lotta di oggi e nella ricostruzione di domani.”

                                             Eugenio Curiel

 

La scuola è alla periferia di Padova, all’Arcella, il più popoloso quartiere della città. Ormai, è la mia seconda casa. E posso dire che, con un pizzico d’immaginazione, può sembrare davvero a forma di falce e martello. Il corpo semicircolare centrale – la lama della falce - è intersecato da un prolungamento di edificio – il manico del martello.

 

Certo, sempre con un pizzico d’immaginazione, potrebbe sembrare qualunque altra cosa, ad esempio un cavatappi, ma tant’è: ormai, anche su qualche giornale in vena di polemiche, è passata la vulgata che la struttura è a forma di falce e martello. Che io sappia, si tratta l’unica scuola d’Italia dedicata ad Eugenio Curiel, scienziato, ideologo e dirigente politico comunista, ucciso dai fascisti il 24 febbraio 1945, a Milano.

 

Appena entrati nell’atrio, quasi di fronte alla portineria, accanto alla porta d’ingresso, c’è la foto di Curiel, protetta da una dimessa cornice a giorno. In calce alla foto, la motivazione con cui il Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, gli conferì, nel 1949, la medaglia d’oro al valore civile.

 

La scuola, invece, è della metà degli anni Settanta e la scelta di intitolarla ad un personaggio non particolarmente noto del panorama politico ed intellettuale dovette far discutere parecchio, all’epoca. Ma il significato appare chiaro: la persona cui dedicare l’Istituito doveva avere sia la caratteristica dello scienziato, trattandosi di un liceo scientifico, sia quella dell’intellettuale impegnato, dell’uomo di pensiero capace di dare un’impronta forte in senso democratico e antifascista. Ed ecco che venne fuori il nome di Curiel.

 

Era triestino, Curiel. Era nato l’11 dicembre 1912. Il padre, Giulio, era tecnico in un’importante industria della città giuliana. La sua era una famiglia agiata e tale rimase fino almeno alla grande crisi del 1929. Sia il padre che la madre, Lucia Limentani, erano di discendenza ebraica, ma la loro scelta fu quella della laicità. Ebbe due sorelle, Grazia e Gigliola. Come ricorda Nereo Battello, al confino, Curiel parlava spesso del suo amore per Trieste, la città che conservava le memorie della sua infanzia. Probabilmente, l’aria multietnica e multiculturale che aveva respirato in questa città-crocevia contribuì a formare il suo carattere e, soprattutto, lo vaccinò contro il virus nazionalista di cui era portatore il fascismo.

 

Fu questa città, probabilmente, a indirizzarlo, magari in maniera istintiva e inconscia, verso i valori del risorgimento e della democrazia. Tanto che, a sedici anni – nel 1928 – viene sorpreso dal padre mentre nasconde dei volantini politici antifascisti. La cosa gli costa un rimprovero: più che altro perché Giulio teme che il figlio vada a ficcarsi nei guai. Sono gli anni del fascismo dominatore che agisce con violenza inaudita a Trieste e nella regione giuliana. In un articolo su La nostra lotta, rivista pubblicata dal partito comunista durante la guerra di liberazione, Curiel ricorderà le violenze ed i soprusi cui saranno sottoposti croati e sloveni.

 

Costoro, che in massa erano entrati sotto la sovranità italiana a partire dal primo dopoguerra, rinunciando ad entrare nel nuovo Regno jugoslavo, nonostante siano “privati della loro libertà nazionale (…) rimaneva ancora una precaria autonomia culturale, di gran lunga inferiore a quella che essi avevano goduto sotto la vecchia Austria”.

 

Ma, ben presto, “il misero straccio di libertà elargito dalla democrazia prefascista veniva strappato al popolo sloveno dal fascismo. Proibiti i partiti sloveni e croati, soppressa la fiorente stampa libera così diffusa tra i contadini sloveni che vantavano una percentuale di analfabeti inferiore a quella di ogni altro tipo di paese europeo, chiuse le scuole nazionali e reso obbligatorio l’insegnamento della lingua italiana, contestato ai sacerdoti il diritto di predicare nella lingua nazionale, sul popolo sloveno e croato si abbatté lo stuolo fascista dei funzionari statali, dei podestà, dei segretari comunali, dei ferrovieri, dei maestri e, come in un paese di occupazione militare, una quantità di carabinieri e di militi. Il ricco patrimonio cooperativo, le banche popolari, le casse artigianali e le numerose iniziative sociali, caratteristiche dell’economia piccolo-contadina degli sloveni, venivano saccheggiate e distrutte (…).

 

I beni comunali così necessari ad una economia in buona parte zootecnica, venivano distribuiti secondo i soliti criteri dell’amministrazione fascista, arricchendo i beni che i ‘signori’ italiani avevano da lungo tempo usurpato al contadino istriano.

 

Chi di noi triestini non ricorda con orrore lo strazio che il fascismo ha fatto del popolo sloveno e del popolo croato, chi non ricorda la loro indomita volontà di liberazione che il regime di terrore non riusciva a fiaccare, chi non ricorda il martiri di Pola nel 1929, i martiri di Basovizza nel 1931 e tutti gli altri eroici caduti fino al compagno Tomasic e a tutti i fucilati di Trieste nel 1941?”.

 

E ancora, Curiel annota: “Ricordo un villaggio sulle pendici del Monte Nanos, poche case in mezzo alla rada boscaglia carsica, sulla cima di una collina; per arrivarci soltanto una mulattiera e cinque ore di cammino dalla stazione dell’autocorriere. Miseria nera, nessun commercio, tasse enormi schiacciano una miserrima economia essenzialmente naturale, fondata su qualche capo di bestiame e sui magri prodotti di un suolo sterile, sassoso, dove qui e lì sul grigio, rosseggia il magro campicello costruito faticosamente trasportando a spalla un po’ di terriccio. Ogni tanto un pattuglione di carabinieri o di militi, armato, col moschetto carico, passava per il paese, davanti alle porte chiuse, nel silenzio dell’odio generale.”

 

L’immagine di questo villaggio Curiel se la porterà dentro per tanto tempo. E, a Ventotene, quando si troverà davanti i compagni sloveni, confinati anch’essi, questa esperienza gli servirà per imbastire delle lezioni di politica, storia ed economia della regione giuliana, di cui resta testimonianza nei suoi appunti.

 

Nel 1929, conseguita la licenza liceale con un anno di anticipo, Eugenio si iscrive al biennio di Ingegneria presso l’Università di Firenze, assecondando il desiderio del padre.

 

È ospitato dallo zio, Ludovico Limentani, fratello di mamma Lucia, il quale, nell’Ateneo fiorentino, insegna filosofia morale. Lo zio, che aveva sottoscritto il manifesto antifascista redatto da Benedetto Croce nel 1925, è uno dei suoi interlocutori privilegiati per le questioni politiche ed ideologiche.

 

Limentani è un positivista e, probabilmente, come racconta Enzo Modica nell’Introduzione agli Scritti di Curiel, avrà una certa influenza nel far cambiare indirizzo di studi al nipote. Infatti, terminato il biennio, Eugenio, nel 1931, si iscrive a Fisica al Politecnico di Milano.

 

Il suo ritratto, negli anni milanesi, è quello di un giovane uomo serio, riservato, apparentemente chiuso in sé, ma pronto ad impegnarsi a fondo nella discussione di temi scientifici o ideologici. Inizia a dare lezioni private per arrotondare, visto che le sue condizioni economiche si sono aggravate.

 

Sennonché, nel 1933, il fisico Bruno Rossi, assistente presso l’Università di Firenze, il docente con il quale Curiel, durante gli anni fiorentini, ha lavorato per la preparazione della tesi di laurea sperimentale sulle disintegrazioni nucleari, ottiene la cattedra a Padova. Eugenio decide di seguirlo ed approda anch’egli all’Università patavina. È il 13 febbraio 1933. Il 20 luglio dello stesso anno, dopo aver superato una crisi che lo stava spingendo ad abbandonare gli studi e a dedicarsi all’insegnamento elementare, si laurea con il massimo dei voti: 110 e lode.

 

Il prof. Rossi festeggia la brillante conclusione degli studi del suo allievo con una cena. Ma l’anno che va dal 1933 al 1934 non sarà per nulla facile. Sarà un anno vissuto da Curiel in un profondo disagio spirituale, causato, probabilmente dalla ricerca di nuovi orientamenti esistenziali ed ideologici. Rifiuta di seguire il prof. Rossi in una spedizione scientifica all’Asmara, si avvicina temporaneamente alla teosofia ed alla filosofia di Steiner, ma soprattutto comincia a studiare i classici del pensiero idealista e di quello marxista. Ben presto emerge un’esigenza: trovare un sistema ideologico e spirituale in grado di rispondere ad una condotta, anzi ad un impegno pratico nella vita.

 

E tale impegno non può essere solo l’insegnamento universitario, sul quale pesano le ingombranti ipoteche idealistiche, crociane e gentiliane, che non valorizzano il pensiero scientifico e fanno sì che lo stesso insegnamento non si apra al mondo esterno, rinunciando alla generalizzazione dei dati scientifici sul terreno della conoscenza. E a Curiel, questo, non va bene. Ma ciò non significherà mai un abbandono degli studi scientifici. Anzi, mai se ne distaccherà, né li sconfesserà. Il 9 febbraio 1940, da Ventotene, scrive: “Ho trovato qui parecchi libri per i miei studi e sto rifacendo quel lavoro sui principi della fisica, ché, tanto, difficilmente i miei vecchi appunti potrebbero essermi inviati”. E l’anno precedente, dal carcere di S. Vittore, aveva scritto: “Ho un grande desiderio di rimettermi ai miei studi di fisica, più o meno critica. Desiderio che spero realizzare presto”.

 

Senza dubbio, la preparazione scientifica universitaria rappresenta una componente essenziale della sua attività ideologica e politica, delle sue scelte pratiche ed etiche.

 

Superata la parentesi di confusione ideologica, torna in seno all’Università di Padova, ottenendo l’incarico di assistente di meccanica razionale del prof. Ernesto Laura. Nel frattempo, inizia a frequentare l’Istituto di filosofia del diritto, avvicinandosi in maniera più approfondita e sistematica al pensiero di Hegel e, tramite questi, di Marx, stringendo amicizia con un gruppo di professori, più o meno giovani, critici verso il fascismo o decisamente antifascisti, come Concetto Marchesi, Egidio Meneghetti, Enrico Opocher.

 

Si incontrano e discutono. Della situazione politica e di come agire, soprattutto. Curiel lo fa con estremo rigore logico, fumando come una ciminiera e schiacciando i mozziconi nel posacenere al centro del tavolo. Poi, non ancora sazio, quando si alzano per andar via, lui riesce a trascinarne qualcuno in lunghe passeggiate per le vie della città, passeggiate che possono durare anche tutta la notte. Si parla di filosofia e di scienza, di fascismo e di comunismo, di democrazia e delle nuove generazioni da educare. In quelle notti padovane i nomi di Fichte, Hegel, Marx, Labriola, Gobetti, Bohr, Fermi, Tolstoj (molto amato da Curiel, contrariamente a Dostoevskij), Croce, Gentile, Rosmini, Gioberti, Garibaldi, Cavour, Mazzini, Matteotti, Leopardi, Picasso, Zola, Sorel, Bucharin, Gramsci si rincorrono, in un sussurro, sotto i portici silenziosi della città dormiente.

 

Spesso, oltre agli amici dell’Università, con lui ci sono anche il pittore Tono Zancanaro e gli amici triestini Guido Goldschmied ed Atto Braun (con il quale, tra l’altro, coabita per un certo periodo) e Renato Mieli, padre del giornalista Paolo: saranno loro cinque a creare la prima cellula clandestina del partito comunista a Padova. “Egli – scrive Enzo Modica – chiedeva alla cultura la soluzione di un problema fondamentale; come possono agire gli uomini per realizzare nella pratica la libertà propria e di tutti affermata dalla filosofia; come dunque si poteva agire allora contro il regime fascista, che opprimeva la libertà”.

 

Sono proprio gli amici Braun, Goldschmied e Mieli che cullano un desiderio: creare un giornale universitario a carattere sindacale che permetta, da un lato, di orientare gli studenti verso i problemi del mondo del lavoro ed il contatto con gli operai e, dall’altro, di penetrare tra gli stessi operai per tentare di formare gruppi antifascisti attivi in campo sindacale e quindi capaci di sfruttare, all’interno del sistema, i pochi spazi di manovra consentiti dal regime.

 

Il piano è impegnativo, ma lo attuano con determinazione. Non solo. Riescono ad ottenere che come direttore nominale ci sia il federale di Padova, Agostino Podestà. Ciò assicura la copertura dei possibili atteggiamenti eterodossi. Nasce così, alla fine del 1934, Il Bò, il giornale dei GUF di Padova. Braun e Goldschmied vi lavorano fin dall’inizio, insieme a giovani ancora fascisti, ma animati da forte spirito critico, come Ettore Luccini ed Esulino Sella. Il giornale, nel primo periodo, è naturalmente di indirizzo fascista, anche se, durante la guerra d’Africa, comincia ad assumere posizioni poco conformiste ed antirazziste.

 

Poi, però, la posizione di Braun e Goldschmied inizia a farsi precaria e, alla metà del 1837, vengono espulsi. Come loro anche Esulino Sella. In particolare, l’uscita di scena di Sella porta Curiel a subentrargli, con il compito di trattare problemi sindacali. Da questo momento pubblicherà 54 articoli. In ambito sindacale si occuperà della nuova regolamentazione dell’apprendistato, dell’istituzione di uffici di collocamento presso i sindacati di categoria, della riforma delle scuole professionali, della tutela sindacale dei lavoratori nelle controversie legali, della nuova regolamentazione dei licenziamenti, del controllo sui profitti aziendali e di altro ancora.

 

Ma non di solo sindacato scriverà. In tema di politica estera, scriverà un articolo di esaltazione della resistenza cinese contro l’invasione giapponese. Varranno al i ringraziamenti dell’ambasciata cinese e le proteste di quella giapponese. Sempre per la politica estera, sosterrà l’autonomia dell’Italia dalla Germania nazista, criticherà l’Anschluss e oserà proporre un articolo ammiccante sul Fronte Popolare francese.

 

Con altri scritti, criticherà il fascismo universitario piccolo-borghese e l’anticapitalismo romantico, stroncherà il populismo spicciolo dello Zavattini de I poveri sono matti, a cui contrapporrà Verga, si occuperà degli esclusi dalle libere professioni a causa delle precarie condizioni economiche. Insomma tanti articoli, tanti impegni. Tanti rischi. Intanto, la cellula comunista padovana riesce a prendere contatto con il centro del partito nell’emigrazione.

 

Alla fine del ’36, proprio Curiel si reca a Parigi per prendere i contatti ufficiali. A Parigi torna anche nel dicembre del 1937, dopo aver ottenuto il passaporto per motivi di studio, e qui per due mesi ha modo di rafforzare sempre più i rapporti con uomini e dirigenti del calibro di Donini, Grieco e Sereni. Come ricorda Gianni Fresu, Curiel avrebbe voluto dedicarsi totalmente all’attività clandestina, ma il centro estero lo convince a sfruttare fino all’ultimo gli spazi legalitari superstiti ed a non rinunciare né al suo lavoro universitario, né all’attività nei GUF.

 

Da questi viaggi comunque nasce un confronto serrato con il PCI e con l’amico Giuseppe Berti, referente di Giustizia e Libertà veneta a Parigi. Ben presto il dialogo si allarga ai socialisti, ai sindacalisti rivoluzionari e ad altri gruppi dell’emigrazione. Dalla Francia torna con le istruzioni sul lavoro clandestino da svolgere, portandosi dietro opuscoli di propaganda, testi marxisti irreperibili in Italia, copie dell’ Unità clandestina.

 

Non solo. È incaricato anche della raccolta di fondi a favore dei repubblicani spagnoli, di prendere contatti con i cattolici e gli altri gruppi antifascisti, al fine di tentare di creare un fronte unico per la libertà e la democrazia. E, infine, porta con sé la famosa direttiva del VII Contesso dell’Internazionale dell’agosto 1935 sulla collaborazione tra tutti i partiti e gruppi antifascisti per una strategia comune contro le dittature, direttiva che segna il superamento della discutibile formula del socialfascismo.

 

Le cose, però, si mettono male. Il 20 agosto pubblica l’ultimo articolo (La rappresaglia sindacale) sul Bò. Nello stesso numero del giornale, in ultima pagina, viene pubblicata la lista coi nomi dei professori universitari esclusi dall’insegnamento perché di origine ebraica. Tra loro, anche Curiel. Assieme a lui, perdono l’incarico Donato Donati, Marco Fanno, Adolfo Ravà, Tullio Terni, Bruno Rossi – l’amico e maestro di Curiel – e Cesare Musatti, allora giovane assistente.

 

Privato dell’insegnamento, decide di darsi anima e corpo all’attività politica. Si reca in Svizzera, poi di nuovo in Francia e stringe ulteriormente i propri rapporti con il Partito Comunista Italiano e con il suo centro parigino. È quello un momento particolarmente difficile per le forze antifasciste, travagliate dalla Guerra Civile spagnola che si sta avviando verso la tragica sconfitta e da dissidi interni sempre più evidenti.

 

A Curiel offrono diverse sistemazioni lavorative in Francia, Svizzera e persino negli USA (come insegnante del figlio di uno dei magnati dell’industria cinematografica, Mayer), ma egli rifiuta per non abbandonare la militanza e l’impegno antifascisti. D’altra parte, come scrive lui stesso, “non posso vivere fuori d’Italia. Sono troppo attaccato al mio paese. All’estero mi sembra che la vita non abbia senso”. Una frase che è, di per sé, un programma di lotta e di vita. Fermato dalla polizia svizzera nel maggio 1938 e arrestato a giugno, viene rinchiuso nel carcere di San Vittore.

 

Nel gennaio 1940 arriva la condanna a cinque anni di confino a Ventotene. Qui, insieme a contadini e operai, sono ristretti decine di ex garibaldini di Spagna, che hanno combattuto a difesa della Repubblica, e alcuni dei più prestigiosi intellettuali antifascisti, come Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi, Sandro Pertini ed Umberto Terracini, e poi, ancora, Giorgio Amendola, Lelio Basso, Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia, Luigi Longo, Giuseppe Di Vittorio, Altiero Spinelli, Riccardo Bauer, Ilario Tabarri, Rocco Pugliese, Pietro Grifone. Nell’isola, mettono su quella che verrà chiamata l’Università del Confino, cioè corsi di storia, economia, filosofia, teoria politica a beneficio degli altri confinati. Sarà la fucina di decine di quadri che agiranno nella Resistenza, a partire dal 1943.

 

Da Ventotene viene liberato nell’agosto 1943, dopo il 25 luglio e la caduta di Mussolini. Insieme a lui, un nutrito schieramento di antifascisti. Prima di raggiungere Milano, dove si sta organizzando il centro direttivo del PCI, tenta di riattivare i contatti con il Veneto e coi suoi vecchi collaboratori ed amici.

 

Si reca a Venezia, dove contribuisce ad orientare il nucleo dirigente della locale Federazione comunista verso la politica dell’unità antifascista, secondo la linea individuata da Palmiro Togliatti nell’aprile del 1944 a Napoli. La tappa successiva non può che essere Padova, dove va in cerca degli amici. In verità non riesce ad incontrare né Luccini né Sella. Vede invece Tono Zancanaro, il quale gli rivela una notizia che ha appreso da poco: l’arresto del 1939 era stato causato da un delatore. Riparte alla volta di Milano.

 

Qui incomincia a lavorare febbrilmente come giornalista e organizzatore. Scrive articoli su articoli per La nostra lotta, L’Unità e Il Bollettino del Fronte della Gioventù. E di quest’ultima organizzazione, il Fronte della Gioventù, diviene il principale animatore ed ispiratore. Il Fronte condensa quel concetto di lotta peculiare dei comunisti, ossia un lavoro capillare affidato ad un’organizzazione militante capace di mobilitare, in forma unitaria e in un movimento di massa, tutte le energie delle nuove generazioni chiamate a impegnarsi contro il nazifascismo, sia sul terreno militare sia nella lotta sindacale ed economica, promuovendo anche le abilità culturali e l’educazione nelle scuole.

 

In un articolo del 1935, Giancarlo Pajetta aveva scritto, infatti: “ Il Fronte della Gioventù non deve essere un’organizzazione costituita dall’alto su schemi prestabiliti nei quali una realtà che ci è in parte ignota e in divenire, dovrebbe inquadrarsi. Esso deve essere il centro che suscita le energie giovanili, coordina le loro manifestazioni spontanee, raccoglie attorno a sé le più molteplici forme di organizzazione e di attività, curando di non ottenere artificialmente una unità formale che potrebbe rendere l’azione sterile, ma una effettiva unità sulla base dell’azione patriottica e della difesa degli interessi giovanili, così da potere sommare gli sforzi e utilizzare la varietà dei tentativi e delle realizzazioni”. Ma quella del Fronte sarà anche un’opera culturale.

 

Significativo, ad esempio, è il fatto che nel primo numero del Bollettino del Fronte della Gioventù, accanto ad un racconto partigiano di Elio Vittorini (Il ragazzo del ’25), compaia una rubrica di recensioni librarie, scritta interamente da Curiel, nella quale si segnala, tra l’altro, anche Furore di Steinbeck, mentre, nel secondo numero, si indicano varie opere come il Napoleone di Tarle, Pensiero e azione nel Risorgimento di Salvatorelli e la Storia dell’Inghilterra nel XIX secolo di Trevelyan. “Selezionare nella massa giovanile coloro che possono essere arruolati nei gruppi partigiani e nei gruppi di azione patriottica”, questo è il motto di Curiel. E, per farli entrare in tali gruppi, occorre anche una preparazione culturale e morale. E questo perché, nella sua visione, non tutti i giovani sarebbero andati a fare i partigiani.

 

Anzi, i più avrebbero contribuito creando un movimento antifascista giovanile militante nelle forme più varie, dalla diffusione di volantini alla mobilitazione in campagna per sottrarre alle requisizioni fasciste i prodotti della terra, dall’aiuto agli sfollati al sostegno esterno ed interno agli scioperi. Insomma, avrebbero operato per allargare la cosiddetta ‘resistenza passiva’, parlando con la gente, coi titubanti, scrivendo articoli o volantini, facendo opera di convincimento e di educazione democratica.

 

Chiave di volta di questo impegno sarebbe stata la collaborazione con i giovani cattolici, anche in vista del dopoguerra. Così, negli articoli di questo periodo Curiel non manca mai di sottolineare l’importanza dei cattolici nella Val Padana, il ruolo egemone della DC nelle campagne dove la presenza del partito cattolico si sarebbe dimostrata essenziale per l’organizzazione di un antifascismo altrimenti spontaneo. L’obiettivo è sempre quello di compattare tutte le forze antifasciste – dai cattolici ai comunisti, dai liberali ai monarchici, dai socialisti agli azionisti – contro le persecuzioni nazifasciste che ormai, sotto la Repubblica di Salò, cominciano a farsi sempre più violente e feroci.

 

Nello specifico, l’intrigante problema della partecipazione delle masse cattoliche alla costruzione del nuovo Stato democratico appassiona Curiel. Non è difficile riconoscere in questo suo interesse l’influenza della sua particolare formazione culturale e della sua esperienza veneta. Proprio in Veneto, infatti, la partecipazione dei cattolici alla guerra di liberazione va intensificandosi in quel periodo, coinvolgendo nuovi strati di popolazione, specie nella campagne, in una corrente progressiva di vita nazionale. Curiel trova nei preti antifascisti milanesi Camillo De Piaz e Davide Maria Turoldo coloro che lo mettono in contatto con il movimento democristiano giovanile.

 

E, con la loro collaborazione, il Fronte tiene le prime riunioni clandestine nella sacrestia della chiesa di San Carlo al Corso, a Milano. Da lì, l’organizzazione si estenderà a tutte le regioni ancora soggette all'oppressione nazifascista. A Curiel, comunque, il rapporto tra masse cattoliche e comunisti appare fondamentale, soprattutto in vista della creazione della futura democrazia.

 

È un rapporto ineludibile per l’avvenire, è un rapporto nato, come si esprime lui stesso, dalla “fraternità che si raggiunge oggi nella lotta” e che “deve trasformarsi in durevole unità di intenti e di azioni, se noi vogliamo che le forze del popolo non vadano disperse”. E tale collaborazione, cementata dalla guerra comune contro i nazi-fascisti, non può ridursi a questioni di mera tattica politica contingente, ma rappresenta uno dei nodi decisivi per il futuro del paese.

 

Sicché, “dall’unione di tutto il popolo nella lotta insurrezionale - scrive - dipenderà quanto noi sapremo salvare per la ricostruzione, dipenderà il contributo che noi sapremo dare alla vittoria comune. E questo interesse nazionale di cui la classe operaia, classe nazionale, si fa combattiva espressione, non può non sollecitare ogni cattolico, ogni italiano a vincere infine le ultime resistenze ed a partecipare con tutto il popolo alle lotte finali”. Perché, in fondo, nella erezione della nuova democrazia ciò che conterà sarà “il contributo che (ognuno) avrà dato alla vittoria ed alla insurrezione di popolo” (Per l’unione delle masse popolari: noi e i cattolici, in L’Unità, edizione per l’Italia settentrionale, n. 3, 15 febbraio 1945). Egli avverte senza ombra di dubbio (ed anche in maniera fin troppo ottimistica) che questa collaborazione avrebbe potuto rappresentare “una forza largamente operante nella democrazia della nuova Italia”.

 

Nell'estate del 1944 numerosi nuclei del Fronte sono presenti nelle fabbriche, nelle scuole, nelle università, nei quartieri cittadini e nei villaggi, mentre sulle montagne si costituiscono alcune brigate partigiane composte esclusivamente di giovani. Intanto, però, Curiel, prendendo spunto dall’ottima riuscita dello sciopero generale del marzo 1944, promosso dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI), riconosce su La nostra lotta che, con tale sciopero, la collaborazione tra le forze antifasciste ha dato eccellenti risultati, e propone l’elaborazione di una posizione teorica più ardita sulla base della Dichiarazione del PCI, redatta da Luigi Longo e che, appunto, tendeva a valorizzare il ruolo sinergico di comunisti, socialisti, cattolici e azionisti.

 

Prende corpo in tal modo la concezione della democrazia progressiva curieliana. Così egli stesso ne presenta la genesi: “Nella lotta senza quartiere di questi sei mesi contro il tedesco invasore e i suoi servi fascisti, il popolo italiano ha espresso i suoi organismi di lotta: sono i comitati clandestini di agitazione degli operai, dei tecnici e degli impiegati nelle fabbriche, cono i Comitati contadini nelle campagne, i distaccamenti partigiani e specialmente le Brigate d’assalto Garibaldi, è il Fronte nazionale della Gioventù, sono i Gruppi di difesa della donna.

 

Tutte queste forze aderiscono al Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). Ebbene saranno queste forze, e solo esse, che, come hanno condotto alla lotta e condurranno alla vittoria il popolo italiano, presiederanno il nuovo ordine che da questa lotta scaturirà” (Una esperienza che non deve andare perduta: le cinque giornate di Milano e la situazione odierna, in La Nostra lotta, a II, n. 5-6, marzo 1944).

 

Ma la democrazia progressiva è molto altro. Come sottolinea Elio Franzin, essa è, in primis, il tentativo di promuovere la democratizzazione nell’Italia postfascista tramite un lungo processo. “Organi fondamentali dell’autogoverno delle masse popolari – scrive Franzin – saranno i comitati locali e sociali della lotta di liberazione nazionale, le libere associazioni di massa, che dovranno trasformarsi in organi democratici rappresentativi. Il passaggio da una fase all’altra non è descritto in modo completo, ma tutta la progettazione della nuova forma statale, la ‘democrazia progressiva, ricorda la democrazia consiliare, dei consigli operai e contadini, della democrazia di base delineata da alcuni teorici del marxismo eterodosso tedesco come Rosa Luxemburg e Karl Korsch, distantissimi dalle posizioni teoriche e politiche imposte da Stalin”.

 

In un articolo del marzo o aprile 1944, Curiel cerca di spiegare ancora cosa egli intenda con questo concetto di ‘democrazia progressiva’: “ ‘Tutto il potere al CLN’ esprime la consapevolezza che la classe operaia ha della sua egemonia, esprime la volontà di attuare contro tutte le reviviscenze fasciste la democrazia popolare e, quindi, progressiva. E attuare la democrazia progressiva significa appunto indirizzare la grande maggioranza della nazione sulla via del progresso, sulla via del socialismo.” Ma non solo.

 

Come specifica poco oltre, la democrazia progressiva non è soltanto una tappa, ma “la formulazione politica del processo sociale della rivoluzione permanente” (in corsivo nell’originale), concetto, quest’ultimo di chiara derivazione trotzkista e, pertanto, evidentemente e gravemente eterodosso rispetto alla vulgata staliniana dell’epoca.

 

Da quanto sopra, peraltro, deriva che il concetto di democrazia così inteso non può essere “una condizione di equilibrio delle forze sociali: l’esistenza di una democrazia progressiva è condizionata al continuo progresso sociale, alla sempre più decisa partecipazione popolare al governo, alla sempre più matura egemonia della classe operaia. Ed in questo processo – che è la democrazia progressiva – andranno cadendo gli ostacoli che si frappongono alla conquista del socialismo, mentre si dimostrerà sempre più chiaramente l’identità degli interessi generali della società con gli interessi specifici della classe operaia” (Due tappe della storia del proletariato, marzo o aprile 1944, scritto ma non pubblicato: forse da utilizzare per una lezione o una conferenza).

 

Qualche mese dopo, il 25 luglio 1944, tornando sul tema della democrazia in un articolo dal titolo emblematico – Perché vogliamo la democrazia progressiva – pubblicato sull’Unità (edizione dell’Italia settentrionale, n. 11), traccia la linea demarcazione tra questo peculiare concetto di democrazia e quello ormai superato dell’Italia prefascista. Scrive, infatti: “Noi parliamo di democrazia progressiva come della forma di vita politica e sociale che si distingue dalla vecchia democrazia prefascista in quanto si forma sull’autogoverno delle masse popolari.

 

Non si tratta quindi di una democrazia che si esaurisca nella periodica consultazione elettorale, ma di una forma di vita sociale politica che assicura, attraverso le libere associazioni di massa un peso preminente alla partecipazione popolare al governo”. E spiega come, in realtà, le radici di tale forma democratica esistano già: sono le radici che affondano nelle lotte e nelle organizzazioni resistenziali. Infatti, “il contenuto che meglio distingue questa democrazia dalla vecchia democrazia prefascista, si può riassumere nella lotta contro il fascismo, inteso non soltanto come epurazione della società dai collaboratori, ma come epurazione della struttura sociale ed economica dai cartelli e dai trust che hanno dato vita al fascismo”.

 

Per quanto concerne poi gli elementi, essa trova fondamento nelle “formazioni partigiane dei Volontari della libertà, (ne)i Comitati di liberazione nazionale di massa, (ne)i Comitati di agitazione, (ne)i Comitati contadini, (nel) Fronte della Gioventù, (nei) Gruppi di difesa della donna, (nel)le Giunte popolari delle zone liberate. Costruire, estendere, potenziare questi organi significa realizzare da oggi, nelle forme consentite dalla situazione, la democrazia progressiva: che non è ordinamento elargito dall’alto, ma la lotta nella quale le masse popolari acquistano esperienza, maturità e capacità politica”.

 

E, davanti all’affiorare di varie forme di settarismo (es. la posizione di Pietro Secchia riassunta in una lettera allo stesso Curiel nel gennaio 1945) lo scienziato-politico ribadisce il concetto di democrazia che ha in mente: “Una democrazia nuova – scrive – capace di mobilitare le masse nello sforzo e nei sacrifici della lotta di liberazione e della ricostruzione, non può essere solo il frutto e il prodotto di un mutamento istituzionale; non può esaurirsi nel semplice meccanismo di periodiche consultazioni elettorali; deve tradursi in un atteggiamento e in una partecipazione nuova delle masse al governo della cosa pubblica”.

 

Ciò, tuttavia, non deve far dimenticare che, per Curiel, così come per Gramsci, l’egemonia appartiene alla classe operaia, la nuova classe “avanguardia di tutte le masse oppresse e sfruttate”, la quale, “a differenza delle vecchie classi dirigenti della democrazia conservatrice, sempre preoccupate della conservazione dei loro privilegi, (…) è interessata non già a respingere ed a comprimere, ama anzi a suscitare ed a promuovere l’iniziativa democratica delle masse popolari e delle loro libere organizzazioni, la loro partecipazione diretta ed attiva alla soluzione dei loro problemi” (Perché i comunisti lottano oggi in Italia per una democrazia progressiva, in La Nostra lotta, a. III, n.1, gennaio 1945).

 

Sono evidenti, in questi passaggi, gli elementi che avvicinano Curiel a Gramsci, con la differenza che, mentre il pensiero di Gramsci – in particolar modo e per gli evidenti motivi legati alla prigionia, nei Quaderni - intraprende uno sviluppo soprattutto teorico suscettibile, poi, di applicazione pratica, quello di Curiel – essendo egli impegnato nella lotta resistenziale in prima persona – ha modo di dipanarsi a contatto con la realtà ed in sintonia con le problematiche emergenti dai confronti in seno alle organizzazioni della Resistenza.

 

Il 24 febbraio 1945, dopo aver pranzato in ufficio con la sua compagna, con Arturo Colombi e con altre due giovani collaboratrici, ed aver discusso il piano del numero dell’Unità in preparazione, esce per recarsi alla chiesa di S. Carlo, dove lo attendono per una riunione. Si avvia verso piazzale Baracca, quando viene sorpreso da una pattuglia repubblichina, guidata da un delatore. Non tentano neanche di bloccarlo: sparano immediatamente. Ferito, tenta di rifugiarsi nel cortile di un palazzo, ma viene raggiunto e finito. Uno degli assassini gli ruba anche l’orologio che porta al polso. L’indomani una donna sparge dei garofani sulla macchia di sangue rimasta a terra.

 

Con un radiomessaggio, la notizia della morte di Curiel viene comunicata immediatamente a Togliatti: “Eugenio Curiel, fondatore, animatore e capo del fronte della Gioventù assassinato a Milano per strada dai fascisti sabato 24 febbraio. In nome suo, gioventù patriota serra le file, ed intensifica la lotta liberatrice per salvare l’onore della patria e l’avvenire della gioventù nella nuova Italia”.

 

Qualche giorno dopo, il 4 marzo, in una lettera indirizzata sempre a Togliatti, Pietro Secchia comunica con tono contrito la morte di Curiel, dicendosi tra l’altro convinto che non di errore si sia trattato, ma “è più probabile che Curiel sia stato individuato perché settimane or sono erano avvenute delle cadute di elementi del Fronte della gioventù con i quali egli era stato legato”.

 

L’emozione e il cordoglio dei comunisti si manifestano in particolare in un articolo pieno di rabbia e commozione scritto da un caro amico e collaboratore di Curiel, Elio Vittorini: “I cani sanguinari che ancora battono le vie di Milano, – scrive l’autore di Conversazione in Sicilia - in questi giorni della loro repubblica protetta dal reich, possono cantare vittoria per una volta. Non per un orologio, una penna stilografica e alcune migliaia di lire di cui hanno fatto bottino. Né per il sangue in cui hanno affondato il muso. Per molto di più. L’uomo che una loro pattuglia di militi uccise e derubò… non era uno di ‘nessuno’. Era ‘nostro’, del Partito comunista italiano e dell’Italia che lotta; uno dei migliori e dei capi tra i ‘nostri’. Era Giorgio…” (Giorgio era il nome di battaglia di Curiel, nda).

 

E continua imbastendo anche il primo riconoscimento politico che il partito rende al capo del Fronte della gioventù, all’ideologo e all’uomo d’azione: “Molto era suo degli sforzi compiuti per realizzare in Italia l’idea della ‘democrazia progressiva’, e l’idea del ‘potere’ ai Comitati di liberazione; molto era suo anche nell’opera assidua colla quale il nostro partito cerca di trasformare i propri organismi, malgrado le condizioni imposte dall’attività clandestina, in organismi democratici”.

 

Ed, infine, come nota Paolo Spriano, prende nuovamente il sopravvento l’emozione dell’artista e dell’amico, fino a fargli esclamare che “la morte, su ogni uomo, è insieme di luce e di oscurità. Su un uomo che cade come è caduto Giorgio, la morte si divide; lascia la luce di sé sul caduto, e l’oscurità cammina, copre i colpevoli e suggella l’infamia su di loro.” (Eugenio Curiel: chi era, chi è ora, in L’Unità, a. XXII, n. 6, 9 aprile 1945). Basandosi su questo ricordo di Vittorini, il poeta Alfonso Gatto dedicherà due poesie a Curiel, Giorgio Curiel e 25 aprile.

 

Nella prima, in special modo, Gatto riconosce che “in un giorno della vita/ho camminato con Giorgio/a capo scoperto nel cielo”.

 

Identificandolo persino con l’essenza stessa del partito, con la sua anima più lucida e battagliera, così lo descrive: “Giorgio era un compagno/Giorgio era il Partito, maturo come un frutto,/ Giorgio era la sua voce/ inceppata e sicura/ (…)/un desiderio di svegliare/il mondo coi suoi pensieri”.

 

E sottolinea con ardore poetico l’amore di Curiel per i giovani, per la loro lotta, per la loro educazione: “come un grande studente/usciva in fretta alle porte/ a insegnare la strada/ ai giovani compagni” e poi con tono accorato e straziante passa a ricordarne la morte e il lascito: “Compagna anche la morte/ diceva, il sangue è rosso./ A maggio lo portammo al cimitero./ Se potevamo camminare/ e coprirlo di fiori e di bandiere/ era perchè da morto c’indicava/ la grande strada della primavera./ Lui che c’indicava/ la grande strada della primavera.”

 

Nella poesia 25 aprile, invece Curiel diventa l’emblema della lotta per la libertà, e soprattutto della lotta e del sacrificio dei giovani per la libertà: una lotta condotta fino alle estreme conseguenza con tenacia e consapevolezza: “la speranza che dentro ci svegliava/ oltre l’orrore le parole udite/ dalla bocca fermissima dei morti/ ‘liberate l’Italia, Curiel vuole/ essere avvolto nella sua bandiera’”.

 

E il tema della lotta e dei giovani in lotta per un mondo migliore ritorna anche nella commemorazione di un altro amico e collaboratore, il filosofo Antonio Banfi. Costui, in un articolo del 1946, dal titolo Oggi commemoriamo E. Curiel, così ricorda l’amico e quei giorni di passione: “Ai primi di maggio egli ha ripercorso di nuovo quella via: lo scortavano le nostre bandiere, le bandiere rosse del lavoro, tricolori della patria. Ondeggiavano all’aria di primavera del sole, sulle schiere dei giovani combattenti, sulle brigate di operai in tuta di fatica, sulla turba delle donne e dei bimbi.

 

E il dolore e il rimpianto s’accendeva della fiamma di speranza e letizia: egli era ed è l’eroe giovane, che il tempo non ha toccato, che tristezza di uomini e di tempi non consuma, che vive puro e libero, testimone di una gioconda inflessibile volontà di liberazione, egli è l’anima dei giovani. Perché, nonostante l’inganno e il tradimento, i giovani sono con lui, tutti i giovani, quanti combattono per l’indipendenza della patria italiana, per l’umana libertà del loro lavoro, per la responsabilità di una fraterna opera comune di civiltà, per una cultura aperta all’orizzonte sereno della pace”.

 

È, quella che descrive Banfi, una concezione della storia tipicamente marxista che, giustamente, egli attribuisce anche a Curiel. Il quale, va ricordato, vede nella storia non “il flusso omogeneo del mondo concettuale” idealistico, non il “processo omogeneo, ma vicenda di faticose incubazioni e turbinose trasformazioni rivoluzionarie”, il tutto raccontato e sintetizzato nella storia delle lotte di classe (Sul “manuale” di Bucharin, in E. Curiel, Scritti, 1935-1945, vol. I, p. 302).

 

La lotta, il coraggio del pensiero, la visione della storia come progresso verso la democrazia e la libertà, la determinazione a non arrendersi, la fiducia nei giovani e nelle loro doti morali e intellettuali, il disprezzo per ogni compromesso opportunistico e, più o meno, concussorio, la stessa intransigenza morale e la concomitante valorizzazione dell’indignazione come molla etica e politica, la fiducia nella cultura e nell’educazione, l’amore per lo studio, la scienza, la letteratura, la curiosità per il mondo e l’istintiva partecipazione ai dolori ed alle vessazioni subite dalle fasce sociali più deboli, dagli operai, dai contadini, dalle donne e, soprattutto, dai giovani, tutto questo rende attuale il pensiero e l’opera di Curiel. C

 

uriel uno di noi, un contemporaneo, si potrebbe dire. Soprattutto se, poi, si considera ciò che scrive Giorgio Amendola nella Prefazione agli Scritti dell’amico e compagno. “In quest’Italia dell’eterna commedia trasformista – notava Amendola – dove tutto finisce a tarallucci e vino, finalmente c’è il sangue riparatore, invocato da Piero Gobetti. La durezza della lotta introduce un elemento nuovo, intransigente moralmente. Chi ha sbagliato deve pagare. Anche Mussolini non potrà sfuggire alla sua condanna. Il trasformismo è il vero morbo italico, l’arte del continuo compromesso generale, io aiuto te se tu aiuti me. Bisogna spezzare questa rete malefica e corruttrice. Bisogna lottare, buttando la propria vita in giuoco”.

 

Come ha fatto Curiel. Cosa c’è di più attuale di queste parole, nell’Italia di oggi?

 

Nell’aula magna del liceo a lui intitolato, affisso in alto, su un pilastro a destra, quasi a ridosso del grande tavolo delle conferenze, c’è un ritratto di Curiel. È una copia ingrandita e incorniciata di un disegno di Renato Guttuso. Al visitatore, si mostra un giovane uomo dal viso affilato, il ciuffo un po’ ribelle, gli occhialetti rotondi a mettere in risalto uno sguardo attento, come per prestare attenzione a ciò che in quell’aula studenti ed insegnanti quotidianamente dicono. Come a garantire, con la sua sola presenza, la democraticità del luogo. E democraticità significa partecipazione.

 

Giacché, come ebbe a scrivere il 15 maggio 1938, con lo pseudonimo di Nordio, se, da un lato “questa influenza fascista ha spezzato ogni sentimento di solidarietà nazionale ed internazionale, ha ucciso ogni fede in una possibile convivenza pacifica dei popoli”, dall’altro, “questo infinito scetticismo, che si rivela più o meno chiaramente, ma che uccide ogni possibile fiducia in un ideale, che deride il sacrificio dell’individuo proteso verso il benessere della comunità, è, in fondo, la più cospicua conquista del fascismo e ne sarà probabilmente la più amara eredità”.

 

Parole di un’attualità sconcertante. Parole pesanti come macigni che sembrano scritte oggi. Parole che ci ricordano, come hanno fatto altri dopo di lui, da Pasolini a Bobbio, da Sciascia a Zagrebelsky, che il fascismo può camuffarsi e manifestarsi in mille modi diversi.

 

Spesso sotto forma di populismo, più o meno xenofobo, o qualunquismo, oppure sotto forma di individualismo e cinismo, magari artatamente pilotati. In mille modi si può manifestare il fascismo, ma in un luogo solo può crescere e affermarsi: nel vuoto della partecipazione dei cittadini alla politica, cioè nell’indifferenza verso il destino collettivo di un popolo.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

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Fresu, Gianni, La generazione che “rottamò” il fascismo. Eugenio Curiel, i giovani, la resistenza, in www.marxxxi.it, 11.11.2012 (sito visitato il 17.11.2012);

Eugenio Curiel, Il fisico ebreo comunista confinato a Ventotene, “Il Mattino di Padova”, 20.04.2012;

Duranti, Simone, Lo spirito gregario. I gruppi universitari fascisti tra politica e propaganda (1930-1940), Roma, 2008;

Gatto, Alfonso, Tutte le poesie, a cura di Silvio Ramat, Milano, 2005;

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