N. 60 - Dicembre 2012
(XCI)
EUGENIO CURIEL E IL SOGNO DI UN’ITALIA LIBERA
a cent'anni dalla nascita
di Giuseppe Tramontana
“È
triste
ma
fiero
il
discorso
che
fanno
ai
nostri
cuori
i
morti
che
ci
sono
vicini.
Quella
consegna
che
ogni
patriota
sente
nel
dolore
del
suo
animo
straziato
dalla
visione
dell’Italia
su
cui
accampa
il
barbaro
massacratore
nazifascista,
quella
consegna
ci
sembra
più
sacra
quando
noi
la
cogliamo
nel
discorso
dei
nostri
morti:
combattere
fino
alla
vittoria,
fino
alla
libertà;
osare
ancora,
fare
di
più,
volere
tenacemente
e
instancabilmente
la
vita
e la
libertà
per
noi
e
per
l’Italia,
perché
volere
questo,
conquistare
questo,
è il
suffragio
migliore
per
la
loro
memoria.”
“Nessun
settarismo,
nessun
particolarismo
organizzativo
limiti
e
inceppi
la
nostra
azione.
Il
nostro
ideale
è di
essere
l’avanguardia
delle
nuove
generazioni
nella
lotta
di
oggi
e
nella
ricostruzione
di
domani.”
Eugenio
Curiel
La
scuola
è
alla
periferia
di
Padova,
all’Arcella,
il
più
popoloso
quartiere
della
città.
Ormai,
è la
mia
seconda
casa.
E
posso
dire
che,
con
un
pizzico
d’immaginazione,
può
sembrare
davvero
a
forma
di
falce
e
martello.
Il
corpo
semicircolare
centrale
– la
lama
della
falce
- è
intersecato
da
un
prolungamento
di
edificio
– il
manico
del
martello.
Certo,
sempre
con
un
pizzico
d’immaginazione,
potrebbe
sembrare
qualunque
altra
cosa,
ad
esempio
un
cavatappi,
ma
tant’è:
ormai,
anche
su
qualche
giornale
in
vena
di
polemiche,
è
passata
la
vulgata
che
la
struttura
è a
forma
di
falce
e
martello.
Che
io
sappia,
si
tratta
l’unica
scuola
d’Italia
dedicata
ad
Eugenio
Curiel,
scienziato,
ideologo
e
dirigente
politico
comunista,
ucciso
dai
fascisti
il
24
febbraio
1945,
a
Milano.
Appena
entrati
nell’atrio,
quasi
di
fronte
alla
portineria,
accanto
alla
porta
d’ingresso,
c’è
la
foto
di
Curiel,
protetta
da
una
dimessa
cornice
a
giorno.
In
calce
alla
foto,
la
motivazione
con
cui
il
Presidente
della
Repubblica,
Luigi
Einaudi,
gli
conferì,
nel
1949,
la
medaglia
d’oro
al
valore
civile.
La
scuola,
invece,
è
della
metà
degli
anni
Settanta
e la
scelta
di
intitolarla
ad
un
personaggio
non
particolarmente
noto
del
panorama
politico
ed
intellettuale
dovette
far
discutere
parecchio,
all’epoca.
Ma
il
significato
appare
chiaro:
la
persona
cui
dedicare
l’Istituito
doveva
avere
sia
la
caratteristica
dello
scienziato,
trattandosi
di
un
liceo
scientifico,
sia
quella
dell’intellettuale
impegnato,
dell’uomo
di
pensiero
capace
di
dare
un’impronta
forte
in
senso
democratico
e
antifascista.
Ed
ecco
che
venne
fuori
il
nome
di
Curiel.
Era
triestino,
Curiel.
Era
nato
l’11
dicembre
1912.
Il
padre,
Giulio,
era
tecnico
in
un’importante
industria
della
città
giuliana.
La
sua
era
una
famiglia
agiata
e
tale
rimase
fino
almeno
alla
grande
crisi
del
1929.
Sia
il
padre
che
la
madre,
Lucia
Limentani,
erano
di
discendenza
ebraica,
ma
la
loro
scelta
fu
quella
della
laicità.
Ebbe
due
sorelle,
Grazia
e
Gigliola.
Come
ricorda
Nereo
Battello,
al
confino,
Curiel
parlava
spesso
del
suo
amore
per
Trieste,
la
città
che
conservava
le
memorie
della
sua
infanzia.
Probabilmente,
l’aria
multietnica
e
multiculturale
che
aveva
respirato
in
questa
città-crocevia
contribuì
a
formare
il
suo
carattere
e,
soprattutto,
lo
vaccinò
contro
il
virus
nazionalista
di
cui
era
portatore
il
fascismo.
Fu
questa
città,
probabilmente,
a
indirizzarlo,
magari
in
maniera
istintiva
e
inconscia,
verso
i
valori
del
risorgimento
e
della
democrazia.
Tanto
che,
a
sedici
anni
–
nel
1928
–
viene
sorpreso
dal
padre
mentre
nasconde
dei
volantini
politici
antifascisti.
La
cosa
gli
costa
un
rimprovero:
più
che
altro
perché
Giulio
teme
che
il
figlio
vada
a
ficcarsi
nei
guai.
Sono
gli
anni
del
fascismo
dominatore
che
agisce
con
violenza
inaudita
a
Trieste
e
nella
regione
giuliana.
In
un
articolo
su
La
nostra
lotta,
rivista
pubblicata
dal
partito
comunista
durante
la
guerra
di
liberazione,
Curiel
ricorderà
le
violenze
ed i
soprusi
cui
saranno
sottoposti
croati
e
sloveni.
Costoro,
che
in
massa
erano
entrati
sotto
la
sovranità
italiana
a
partire
dal
primo
dopoguerra,
rinunciando
ad
entrare
nel
nuovo
Regno
jugoslavo,
nonostante
siano
“privati
della
loro
libertà
nazionale
(…)
rimaneva
ancora
una
precaria
autonomia
culturale,
di
gran
lunga
inferiore
a
quella
che
essi
avevano
goduto
sotto
la
vecchia
Austria”.
Ma,
ben
presto,
“il
misero
straccio
di
libertà
elargito
dalla
democrazia
prefascista
veniva
strappato
al
popolo
sloveno
dal
fascismo.
Proibiti
i
partiti
sloveni
e
croati,
soppressa
la
fiorente
stampa
libera
così
diffusa
tra
i
contadini
sloveni
che
vantavano
una
percentuale
di
analfabeti
inferiore
a
quella
di
ogni
altro
tipo
di
paese
europeo,
chiuse
le
scuole
nazionali
e
reso
obbligatorio
l’insegnamento
della
lingua
italiana,
contestato
ai
sacerdoti
il
diritto
di
predicare
nella
lingua
nazionale,
sul
popolo
sloveno
e
croato
si
abbatté
lo
stuolo
fascista
dei
funzionari
statali,
dei
podestà,
dei
segretari
comunali,
dei
ferrovieri,
dei
maestri
e,
come
in
un
paese
di
occupazione
militare,
una
quantità
di
carabinieri
e di
militi.
Il
ricco
patrimonio
cooperativo,
le
banche
popolari,
le
casse
artigianali
e le
numerose
iniziative
sociali,
caratteristiche
dell’economia
piccolo-contadina
degli
sloveni,
venivano
saccheggiate
e
distrutte
(…).
I
beni
comunali
così
necessari
ad
una
economia
in
buona
parte
zootecnica,
venivano
distribuiti
secondo
i
soliti
criteri
dell’amministrazione
fascista,
arricchendo
i
beni
che
i
‘signori’
italiani
avevano
da
lungo
tempo
usurpato
al
contadino
istriano.
Chi
di
noi
triestini
non
ricorda
con
orrore
lo
strazio
che
il
fascismo
ha
fatto
del
popolo
sloveno
e
del
popolo
croato,
chi
non
ricorda
la
loro
indomita
volontà
di
liberazione
che
il
regime
di
terrore
non
riusciva
a
fiaccare,
chi
non
ricorda
il
martiri
di
Pola
nel
1929,
i
martiri
di
Basovizza
nel
1931
e
tutti
gli
altri
eroici
caduti
fino
al
compagno
Tomasic
e a
tutti
i
fucilati
di
Trieste
nel
1941?”.
E
ancora,
Curiel
annota:
“Ricordo
un
villaggio
sulle
pendici
del
Monte
Nanos,
poche
case
in
mezzo
alla
rada
boscaglia
carsica,
sulla
cima
di
una
collina;
per
arrivarci
soltanto
una
mulattiera
e
cinque
ore
di
cammino
dalla
stazione
dell’autocorriere.
Miseria
nera,
nessun
commercio,
tasse
enormi
schiacciano
una
miserrima
economia
essenzialmente
naturale,
fondata
su
qualche
capo
di
bestiame
e
sui
magri
prodotti
di
un
suolo
sterile,
sassoso,
dove
qui
e lì
sul
grigio,
rosseggia
il
magro
campicello
costruito
faticosamente
trasportando
a
spalla
un
po’
di
terriccio.
Ogni
tanto
un
pattuglione
di
carabinieri
o di
militi,
armato,
col
moschetto
carico,
passava
per
il
paese,
davanti
alle
porte
chiuse,
nel
silenzio
dell’odio
generale.”
L’immagine
di
questo
villaggio
Curiel
se
la
porterà
dentro
per
tanto
tempo.
E, a
Ventotene,
quando
si
troverà
davanti
i
compagni
sloveni,
confinati
anch’essi,
questa
esperienza
gli
servirà
per
imbastire
delle
lezioni
di
politica,
storia
ed
economia
della
regione
giuliana,
di
cui
resta
testimonianza
nei
suoi
appunti.
Nel
1929,
conseguita
la
licenza
liceale
con
un
anno
di
anticipo,
Eugenio
si
iscrive
al
biennio
di
Ingegneria
presso
l’Università
di
Firenze,
assecondando
il
desiderio
del
padre.
È
ospitato
dallo
zio,
Ludovico
Limentani,
fratello
di
mamma
Lucia,
il
quale,
nell’Ateneo
fiorentino,
insegna
filosofia
morale.
Lo
zio,
che
aveva
sottoscritto
il
manifesto
antifascista
redatto
da
Benedetto
Croce
nel
1925,
è
uno
dei
suoi
interlocutori
privilegiati
per
le
questioni
politiche
ed
ideologiche.
Limentani
è un
positivista
e,
probabilmente,
come
racconta
Enzo
Modica
nell’Introduzione
agli
Scritti
di
Curiel,
avrà
una
certa
influenza
nel
far
cambiare
indirizzo
di
studi
al
nipote.
Infatti,
terminato
il
biennio,
Eugenio,
nel
1931,
si
iscrive
a
Fisica
al
Politecnico
di
Milano.
Il
suo
ritratto,
negli
anni
milanesi,
è
quello
di
un
giovane
uomo
serio,
riservato,
apparentemente
chiuso
in
sé,
ma
pronto
ad
impegnarsi
a
fondo
nella
discussione
di
temi
scientifici
o
ideologici.
Inizia
a
dare
lezioni
private
per
arrotondare,
visto
che
le
sue
condizioni
economiche
si
sono
aggravate.
Sennonché,
nel
1933,
il
fisico
Bruno
Rossi,
assistente
presso
l’Università
di
Firenze,
il
docente
con
il
quale
Curiel,
durante
gli
anni
fiorentini,
ha
lavorato
per
la
preparazione
della
tesi
di
laurea
sperimentale
sulle
disintegrazioni
nucleari,
ottiene
la
cattedra
a
Padova.
Eugenio
decide
di
seguirlo
ed
approda
anch’egli
all’Università
patavina.
È il
13
febbraio
1933.
Il
20
luglio
dello
stesso
anno,
dopo
aver
superato
una
crisi
che
lo
stava
spingendo
ad
abbandonare
gli
studi
e a
dedicarsi
all’insegnamento
elementare,
si
laurea
con
il
massimo
dei
voti:
110
e
lode.
Il
prof.
Rossi
festeggia
la
brillante
conclusione
degli
studi
del
suo
allievo
con
una
cena.
Ma
l’anno
che
va
dal
1933
al
1934
non
sarà
per
nulla
facile.
Sarà
un
anno
vissuto
da
Curiel
in
un
profondo
disagio
spirituale,
causato,
probabilmente
dalla
ricerca
di
nuovi
orientamenti
esistenziali
ed
ideologici.
Rifiuta
di
seguire
il
prof.
Rossi
in
una
spedizione
scientifica
all’Asmara,
si
avvicina
temporaneamente
alla
teosofia
ed
alla
filosofia
di
Steiner,
ma
soprattutto
comincia
a
studiare
i
classici
del
pensiero
idealista
e di
quello
marxista.
Ben
presto
emerge
un’esigenza:
trovare
un
sistema
ideologico
e
spirituale
in
grado
di
rispondere
ad
una
condotta,
anzi
ad
un
impegno
pratico
nella
vita.
E
tale
impegno
non
può
essere
solo
l’insegnamento
universitario,
sul
quale
pesano
le
ingombranti
ipoteche
idealistiche,
crociane
e
gentiliane,
che
non
valorizzano
il
pensiero
scientifico
e
fanno
sì
che
lo
stesso
insegnamento
non
si
apra
al
mondo
esterno,
rinunciando
alla
generalizzazione
dei
dati
scientifici
sul
terreno
della
conoscenza.
E a
Curiel,
questo,
non
va
bene.
Ma
ciò
non
significherà
mai
un
abbandono
degli
studi
scientifici.
Anzi,
mai
se
ne
distaccherà,
né
li
sconfesserà.
Il 9
febbraio
1940,
da
Ventotene,
scrive:
“Ho
trovato
qui
parecchi
libri
per
i
miei
studi
e
sto
rifacendo
quel
lavoro
sui
principi
della
fisica,
ché,
tanto,
difficilmente
i
miei
vecchi
appunti
potrebbero
essermi
inviati”.
E
l’anno
precedente,
dal
carcere
di
S.
Vittore,
aveva
scritto:
“Ho
un
grande
desiderio
di
rimettermi
ai
miei
studi
di
fisica,
più
o
meno
critica.
Desiderio
che
spero
realizzare
presto”.
Senza
dubbio,
la
preparazione
scientifica
universitaria
rappresenta
una
componente
essenziale
della
sua
attività
ideologica
e
politica,
delle
sue
scelte
pratiche
ed
etiche.
Superata
la
parentesi
di
confusione
ideologica,
torna
in
seno
all’Università
di
Padova,
ottenendo
l’incarico
di
assistente
di
meccanica
razionale
del
prof.
Ernesto
Laura.
Nel
frattempo,
inizia
a
frequentare
l’Istituto
di
filosofia
del
diritto,
avvicinandosi
in
maniera
più
approfondita
e
sistematica
al
pensiero
di
Hegel
e,
tramite
questi,
di
Marx,
stringendo
amicizia
con
un
gruppo
di
professori,
più
o
meno
giovani,
critici
verso
il
fascismo
o
decisamente
antifascisti,
come
Concetto
Marchesi,
Egidio
Meneghetti,
Enrico
Opocher.
Si
incontrano
e
discutono.
Della
situazione
politica
e di
come
agire,
soprattutto.
Curiel
lo
fa
con
estremo
rigore
logico,
fumando
come
una
ciminiera
e
schiacciando
i
mozziconi
nel
posacenere
al
centro
del
tavolo.
Poi,
non
ancora
sazio,
quando
si
alzano
per
andar
via,
lui
riesce
a
trascinarne
qualcuno
in
lunghe
passeggiate
per
le
vie
della
città,
passeggiate
che
possono
durare
anche
tutta
la
notte.
Si
parla
di
filosofia
e di
scienza,
di
fascismo
e di
comunismo,
di
democrazia
e
delle
nuove
generazioni
da
educare.
In
quelle
notti
padovane
i
nomi
di
Fichte,
Hegel,
Marx,
Labriola,
Gobetti,
Bohr,
Fermi,
Tolstoj
(molto
amato
da
Curiel,
contrariamente
a
Dostoevskij),
Croce,
Gentile,
Rosmini,
Gioberti,
Garibaldi,
Cavour,
Mazzini,
Matteotti,
Leopardi,
Picasso,
Zola,
Sorel,
Bucharin,
Gramsci
si
rincorrono,
in
un
sussurro,
sotto
i
portici
silenziosi
della
città
dormiente.
Spesso,
oltre
agli
amici
dell’Università,
con
lui
ci
sono
anche
il
pittore
Tono
Zancanaro
e
gli
amici
triestini
Guido
Goldschmied
ed
Atto
Braun
(con
il
quale,
tra
l’altro,
coabita
per
un
certo
periodo)
e
Renato
Mieli,
padre
del
giornalista
Paolo:
saranno
loro
cinque
a
creare
la
prima
cellula
clandestina
del
partito
comunista
a
Padova.
“Egli
–
scrive
Enzo
Modica
–
chiedeva
alla
cultura
la
soluzione
di
un
problema
fondamentale;
come
possono
agire
gli
uomini
per
realizzare
nella
pratica
la
libertà
propria
e di
tutti
affermata
dalla
filosofia;
come
dunque
si
poteva
agire
allora
contro
il
regime
fascista,
che
opprimeva
la
libertà”.
Sono
proprio
gli
amici
Braun,
Goldschmied
e
Mieli
che
cullano
un
desiderio:
creare
un
giornale
universitario
a
carattere
sindacale
che
permetta,
da
un
lato,
di
orientare
gli
studenti
verso
i
problemi
del
mondo
del
lavoro
ed
il
contatto
con
gli
operai
e,
dall’altro,
di
penetrare
tra
gli
stessi
operai
per
tentare
di
formare
gruppi
antifascisti
attivi
in
campo
sindacale
e
quindi
capaci
di
sfruttare,
all’interno
del
sistema,
i
pochi
spazi
di
manovra
consentiti
dal
regime.
Il
piano
è
impegnativo,
ma
lo
attuano
con
determinazione.
Non
solo.
Riescono
ad
ottenere
che
come
direttore
nominale
ci
sia
il
federale
di
Padova,
Agostino
Podestà.
Ciò
assicura
la
copertura
dei
possibili
atteggiamenti
eterodossi.
Nasce
così,
alla
fine
del
1934,
Il
Bò,
il
giornale
dei
GUF
di
Padova.
Braun
e
Goldschmied
vi
lavorano
fin
dall’inizio,
insieme
a
giovani
ancora
fascisti,
ma
animati
da
forte
spirito
critico,
come
Ettore
Luccini
ed
Esulino
Sella.
Il
giornale,
nel
primo
periodo,
è
naturalmente
di
indirizzo
fascista,
anche
se,
durante
la
guerra
d’Africa,
comincia
ad
assumere
posizioni
poco
conformiste
ed
antirazziste.
Poi,
però,
la
posizione
di
Braun
e
Goldschmied
inizia
a
farsi
precaria
e,
alla
metà
del
1837,
vengono
espulsi.
Come
loro
anche
Esulino
Sella.
In
particolare,
l’uscita
di
scena
di
Sella
porta
Curiel
a
subentrargli,
con
il
compito
di
trattare
problemi
sindacali.
Da
questo
momento
pubblicherà
54
articoli.
In
ambito
sindacale
si
occuperà
della
nuova
regolamentazione
dell’apprendistato,
dell’istituzione
di
uffici
di
collocamento
presso
i
sindacati
di
categoria,
della
riforma
delle
scuole
professionali,
della
tutela
sindacale
dei
lavoratori
nelle
controversie
legali,
della
nuova
regolamentazione
dei
licenziamenti,
del
controllo
sui
profitti
aziendali
e di
altro
ancora.
Ma
non
di
solo
sindacato
scriverà.
In
tema
di
politica
estera,
scriverà
un
articolo
di
esaltazione
della
resistenza
cinese
contro
l’invasione
giapponese.
Varranno
al
Bò
i
ringraziamenti
dell’ambasciata
cinese
e le
proteste
di
quella
giapponese.
Sempre
per
la
politica
estera,
sosterrà
l’autonomia
dell’Italia
dalla
Germania
nazista,
criticherà
l’Anschluss
e
oserà
proporre
un
articolo
ammiccante
sul
Fronte
Popolare
francese.
Con
altri
scritti,
criticherà
il
fascismo
universitario
piccolo-borghese
e
l’anticapitalismo
romantico,
stroncherà
il
populismo
spicciolo
dello
Zavattini
de
I
poveri
sono
matti,
a
cui
contrapporrà
Verga,
si
occuperà
degli
esclusi
dalle
libere
professioni
a
causa
delle
precarie
condizioni
economiche.
Insomma
tanti
articoli,
tanti
impegni.
Tanti
rischi.
Intanto,
la
cellula
comunista
padovana
riesce
a
prendere
contatto
con
il
centro
del
partito
nell’emigrazione.
Alla
fine
del
’36,
proprio
Curiel
si
reca
a
Parigi
per
prendere
i
contatti
ufficiali.
A
Parigi
torna
anche
nel
dicembre
del
1937,
dopo
aver
ottenuto
il
passaporto
per
motivi
di
studio,
e
qui
per
due
mesi
ha
modo
di
rafforzare
sempre
più
i
rapporti
con
uomini
e
dirigenti
del
calibro
di
Donini,
Grieco
e
Sereni.
Come
ricorda
Gianni
Fresu,
Curiel
avrebbe
voluto
dedicarsi
totalmente
all’attività
clandestina,
ma
il
centro
estero
lo
convince
a
sfruttare
fino
all’ultimo
gli
spazi
legalitari
superstiti
ed a
non
rinunciare
né
al
suo
lavoro
universitario,
né
all’attività
nei
GUF.
Da
questi
viaggi
comunque
nasce
un
confronto
serrato
con
il
PCI
e
con
l’amico
Giuseppe
Berti,
referente
di
Giustizia
e
Libertà
veneta
a
Parigi.
Ben
presto
il
dialogo
si
allarga
ai
socialisti,
ai
sindacalisti
rivoluzionari
e ad
altri
gruppi
dell’emigrazione.
Dalla
Francia
torna
con
le
istruzioni
sul
lavoro
clandestino
da
svolgere,
portandosi
dietro
opuscoli
di
propaganda,
testi
marxisti
irreperibili
in
Italia,
copie
dell’
Unità
clandestina.
Non
solo.
È
incaricato
anche
della
raccolta
di
fondi
a
favore
dei
repubblicani
spagnoli,
di
prendere
contatti
con
i
cattolici
e
gli
altri
gruppi
antifascisti,
al
fine
di
tentare
di
creare
un
fronte
unico
per
la
libertà
e la
democrazia.
E,
infine,
porta
con
sé
la
famosa
direttiva
del
VII
Contesso
dell’Internazionale
dell’agosto
1935
sulla
collaborazione
tra
tutti
i
partiti
e
gruppi
antifascisti
per
una
strategia
comune
contro
le
dittature,
direttiva
che
segna
il
superamento
della
discutibile
formula
del
socialfascismo.
Le
cose,
però,
si
mettono
male.
Il
20
agosto
pubblica
l’ultimo
articolo
(La
rappresaglia
sindacale)
sul
Bò.
Nello
stesso
numero
del
giornale,
in
ultima
pagina,
viene
pubblicata
la
lista
coi
nomi
dei
professori
universitari
esclusi
dall’insegnamento
perché
di
origine
ebraica.
Tra
loro,
anche
Curiel.
Assieme
a
lui,
perdono
l’incarico
Donato
Donati,
Marco
Fanno,
Adolfo
Ravà,
Tullio
Terni,
Bruno
Rossi
–
l’amico
e
maestro
di
Curiel
– e
Cesare
Musatti,
allora
giovane
assistente.
Privato
dell’insegnamento,
decide
di
darsi
anima
e
corpo
all’attività
politica.
Si
reca
in
Svizzera,
poi
di
nuovo
in
Francia
e
stringe
ulteriormente
i
propri
rapporti
con
il
Partito
Comunista
Italiano
e
con
il
suo
centro
parigino.
È
quello
un
momento
particolarmente
difficile
per
le
forze
antifasciste,
travagliate
dalla
Guerra
Civile
spagnola
che
si
sta
avviando
verso
la
tragica
sconfitta
e da
dissidi
interni
sempre
più
evidenti.
A
Curiel
offrono
diverse
sistemazioni
lavorative
in
Francia,
Svizzera
e
persino
negli
USA
(come
insegnante
del
figlio
di
uno
dei
magnati
dell’industria
cinematografica,
Mayer),
ma
egli
rifiuta
per
non
abbandonare
la
militanza
e
l’impegno
antifascisti.
D’altra
parte,
come
scrive
lui
stesso,
“non
posso
vivere
fuori
d’Italia.
Sono
troppo
attaccato
al
mio
paese.
All’estero
mi
sembra
che
la
vita
non
abbia
senso”.
Una
frase
che
è,
di
per
sé,
un
programma
di
lotta
e di
vita.
Fermato
dalla
polizia
svizzera
nel
maggio
1938
e
arrestato
a
giugno,
viene
rinchiuso
nel
carcere
di
San
Vittore.
Nel
gennaio
1940
arriva
la
condanna
a
cinque
anni
di
confino
a
Ventotene.
Qui,
insieme
a
contadini
e
operai,
sono
ristretti
decine
di
ex
garibaldini
di
Spagna,
che
hanno
combattuto
a
difesa
della
Repubblica,
e
alcuni
dei
più
prestigiosi
intellettuali
antifascisti,
come
Eugenio
Colorni
ed
Ernesto
Rossi,
Sandro
Pertini
ed
Umberto
Terracini,
e
poi,
ancora,
Giorgio
Amendola,
Lelio
Basso,
Mauro
Scoccimarro,
Pietro
Secchia,
Luigi
Longo,
Giuseppe
Di
Vittorio,
Altiero
Spinelli,
Riccardo
Bauer,
Ilario
Tabarri,
Rocco
Pugliese,
Pietro
Grifone.
Nell’isola,
mettono
su
quella
che
verrà
chiamata
l’Università
del
Confino,
cioè
corsi
di
storia,
economia,
filosofia,
teoria
politica
a
beneficio
degli
altri
confinati.
Sarà
la
fucina
di
decine
di
quadri
che
agiranno
nella
Resistenza,
a
partire
dal
1943.
Da
Ventotene
viene
liberato
nell’agosto
1943,
dopo
il
25
luglio
e la
caduta
di
Mussolini.
Insieme
a
lui,
un
nutrito
schieramento
di
antifascisti.
Prima
di
raggiungere
Milano,
dove
si
sta
organizzando
il
centro
direttivo
del
PCI,
tenta
di
riattivare
i
contatti
con
il
Veneto
e
coi
suoi
vecchi
collaboratori
ed
amici.
Si
reca
a
Venezia,
dove
contribuisce
ad
orientare
il
nucleo
dirigente
della
locale
Federazione
comunista
verso
la
politica
dell’unità
antifascista,
secondo
la
linea
individuata
da
Palmiro
Togliatti
nell’aprile
del
1944
a
Napoli.
La
tappa
successiva
non
può
che
essere
Padova,
dove
va
in
cerca
degli
amici.
In
verità
non
riesce
ad
incontrare
né
Luccini
né
Sella.
Vede
invece
Tono
Zancanaro,
il
quale
gli
rivela
una
notizia
che
ha
appreso
da
poco:
l’arresto
del
1939
era
stato
causato
da
un
delatore.
Riparte
alla
volta
di
Milano.
Qui
incomincia
a
lavorare
febbrilmente
come
giornalista
e
organizzatore.
Scrive
articoli
su
articoli
per
La
nostra
lotta,
L’Unità
e
Il
Bollettino
del
Fronte
della
Gioventù.
E di
quest’ultima
organizzazione,
il
Fronte
della
Gioventù,
diviene
il
principale
animatore
ed
ispiratore.
Il
Fronte
condensa
quel
concetto
di
lotta
peculiare
dei
comunisti,
ossia
un
lavoro
capillare
affidato
ad
un’organizzazione
militante
capace
di
mobilitare,
in
forma
unitaria
e in
un
movimento
di
massa,
tutte
le
energie
delle
nuove
generazioni
chiamate
a
impegnarsi
contro
il
nazifascismo,
sia
sul
terreno
militare
sia
nella
lotta
sindacale
ed
economica,
promuovendo
anche
le
abilità
culturali
e
l’educazione
nelle
scuole.
In
un
articolo
del
1935,
Giancarlo
Pajetta
aveva
scritto,
infatti:
“ Il
Fronte
della
Gioventù
non
deve
essere
un’organizzazione
costituita
dall’alto
su
schemi
prestabiliti
nei
quali
una
realtà
che
ci è
in
parte
ignota
e in
divenire,
dovrebbe
inquadrarsi.
Esso
deve
essere
il
centro
che
suscita
le
energie
giovanili,
coordina
le
loro
manifestazioni
spontanee,
raccoglie
attorno
a sé
le
più
molteplici
forme
di
organizzazione
e di
attività,
curando
di
non
ottenere
artificialmente
una
unità
formale
che
potrebbe
rendere
l’azione
sterile,
ma
una
effettiva
unità
sulla
base
dell’azione
patriottica
e
della
difesa
degli
interessi
giovanili,
così
da
potere
sommare
gli
sforzi
e
utilizzare
la
varietà
dei
tentativi
e
delle
realizzazioni”.
Ma
quella
del
Fronte
sarà
anche
un’opera
culturale.
Significativo,
ad
esempio,
è il
fatto
che
nel
primo
numero
del
Bollettino
del
Fronte
della
Gioventù,
accanto
ad
un
racconto
partigiano
di
Elio
Vittorini
(Il
ragazzo
del
’25),
compaia
una
rubrica
di
recensioni
librarie,
scritta
interamente
da
Curiel,
nella
quale
si
segnala,
tra
l’altro,
anche
Furore
di
Steinbeck,
mentre,
nel
secondo
numero,
si
indicano
varie
opere
come
il
Napoleone
di
Tarle,
Pensiero
e
azione
nel
Risorgimento
di
Salvatorelli
e la
Storia
dell’Inghilterra
nel
XIX
secolo
di
Trevelyan.
“Selezionare
nella
massa
giovanile
coloro
che
possono
essere
arruolati
nei
gruppi
partigiani
e
nei
gruppi
di
azione
patriottica”,
questo
è il
motto
di
Curiel.
E,
per
farli
entrare
in
tali
gruppi,
occorre
anche
una
preparazione
culturale
e
morale.
E
questo
perché,
nella
sua
visione,
non
tutti
i
giovani
sarebbero
andati
a
fare
i
partigiani.
Anzi,
i
più
avrebbero
contribuito
creando
un
movimento
antifascista
giovanile
militante
nelle
forme
più
varie,
dalla
diffusione
di
volantini
alla
mobilitazione
in
campagna
per
sottrarre
alle
requisizioni
fasciste
i
prodotti
della
terra,
dall’aiuto
agli
sfollati
al
sostegno
esterno
ed
interno
agli
scioperi.
Insomma,
avrebbero
operato
per
allargare
la
cosiddetta
‘resistenza
passiva’,
parlando
con
la
gente,
coi
titubanti,
scrivendo
articoli
o
volantini,
facendo
opera
di
convincimento
e di
educazione
democratica.
Chiave
di
volta
di
questo
impegno
sarebbe
stata
la
collaborazione
con
i
giovani
cattolici,
anche
in
vista
del
dopoguerra.
Così,
negli
articoli
di
questo
periodo
Curiel
non
manca
mai
di
sottolineare
l’importanza
dei
cattolici
nella
Val
Padana,
il
ruolo
egemone
della
DC
nelle
campagne
dove
la
presenza
del
partito
cattolico
si
sarebbe
dimostrata
essenziale
per
l’organizzazione
di
un
antifascismo
altrimenti
spontaneo.
L’obiettivo
è
sempre
quello
di
compattare
tutte
le
forze
antifasciste
–
dai
cattolici
ai
comunisti,
dai
liberali
ai
monarchici,
dai
socialisti
agli
azionisti
–
contro
le
persecuzioni
nazifasciste
che
ormai,
sotto
la
Repubblica
di
Salò,
cominciano
a
farsi
sempre
più
violente
e
feroci.
Nello
specifico,
l’intrigante
problema
della
partecipazione
delle
masse
cattoliche
alla
costruzione
del
nuovo
Stato
democratico
appassiona
Curiel.
Non
è
difficile
riconoscere
in
questo
suo
interesse
l’influenza
della
sua
particolare
formazione
culturale
e
della
sua
esperienza
veneta.
Proprio
in
Veneto,
infatti,
la
partecipazione
dei
cattolici
alla
guerra
di
liberazione
va
intensificandosi
in
quel
periodo,
coinvolgendo
nuovi
strati
di
popolazione,
specie
nella
campagne,
in
una
corrente
progressiva
di
vita
nazionale.
Curiel
trova
nei
preti
antifascisti
milanesi
Camillo
De
Piaz
e
Davide
Maria
Turoldo
coloro
che
lo
mettono
in
contatto
con
il
movimento
democristiano
giovanile.
E,
con
la
loro
collaborazione,
il
Fronte
tiene
le
prime
riunioni
clandestine
nella
sacrestia
della
chiesa
di
San
Carlo
al
Corso,
a
Milano.
Da
lì,
l’organizzazione
si
estenderà
a
tutte
le
regioni
ancora
soggette
all'oppressione
nazifascista.
A
Curiel,
comunque,
il
rapporto
tra
masse
cattoliche
e
comunisti
appare
fondamentale,
soprattutto
in
vista
della
creazione
della
futura
democrazia.
È un
rapporto
ineludibile
per
l’avvenire,
è un
rapporto
nato,
come
si
esprime
lui
stesso,
dalla
“fraternità
che
si
raggiunge
oggi
nella
lotta”
e
che
“deve
trasformarsi
in
durevole
unità
di
intenti
e di
azioni,
se
noi
vogliamo
che
le
forze
del
popolo
non
vadano
disperse”.
E
tale
collaborazione,
cementata
dalla
guerra
comune
contro
i
nazi-fascisti,
non
può
ridursi
a
questioni
di
mera
tattica
politica
contingente,
ma
rappresenta
uno
dei
nodi
decisivi
per
il
futuro
del
paese.
Sicché,
“dall’unione
di
tutto
il
popolo
nella
lotta
insurrezionale
-
scrive
-
dipenderà
quanto
noi
sapremo
salvare
per
la
ricostruzione,
dipenderà
il
contributo
che
noi
sapremo
dare
alla
vittoria
comune.
E
questo
interesse
nazionale
di
cui
la
classe
operaia,
classe
nazionale,
si
fa
combattiva
espressione,
non
può
non
sollecitare
ogni
cattolico,
ogni
italiano
a
vincere
infine
le
ultime
resistenze
ed a
partecipare
con
tutto
il
popolo
alle
lotte
finali”.
Perché,
in
fondo,
nella
erezione
della
nuova
democrazia
ciò
che
conterà
sarà
“il
contributo
che
(ognuno)
avrà
dato
alla
vittoria
ed
alla
insurrezione
di
popolo”
(Per
l’unione
delle
masse
popolari:
noi
e i
cattolici,
in
L’Unità,
edizione
per
l’Italia
settentrionale,
n.
3,
15
febbraio
1945).
Egli
avverte
senza
ombra
di
dubbio
(ed
anche
in
maniera
fin
troppo
ottimistica)
che
questa
collaborazione
avrebbe
potuto
rappresentare
“una
forza
largamente
operante
nella
democrazia
della
nuova
Italia”.
Nell'estate
del
1944
numerosi
nuclei
del
Fronte
sono
presenti
nelle
fabbriche,
nelle
scuole,
nelle
università,
nei
quartieri
cittadini
e
nei
villaggi,
mentre
sulle
montagne
si
costituiscono
alcune
brigate
partigiane
composte
esclusivamente
di
giovani.
Intanto,
però,
Curiel,
prendendo
spunto
dall’ottima
riuscita
dello
sciopero
generale
del
marzo
1944,
promosso
dal
Comitato
di
Liberazione
Nazionale
Alta
Italia
(CLNAI),
riconosce
su
La
nostra
lotta
che,
con
tale
sciopero,
la
collaborazione
tra
le
forze
antifasciste
ha
dato
eccellenti
risultati,
e
propone
l’elaborazione
di
una
posizione
teorica
più
ardita
sulla
base
della
Dichiarazione
del
PCI,
redatta
da
Luigi
Longo
e
che,
appunto,
tendeva
a
valorizzare
il
ruolo
sinergico
di
comunisti,
socialisti,
cattolici
e
azionisti.
Prende
corpo
in
tal
modo
la
concezione
della
democrazia
progressiva
curieliana.
Così
egli
stesso
ne
presenta
la
genesi:
“Nella
lotta
senza
quartiere
di
questi
sei
mesi
contro
il
tedesco
invasore
e i
suoi
servi
fascisti,
il
popolo
italiano
ha
espresso
i
suoi
organismi
di
lotta:
sono
i
comitati
clandestini
di
agitazione
degli
operai,
dei
tecnici
e
degli
impiegati
nelle
fabbriche,
cono
i
Comitati
contadini
nelle
campagne,
i
distaccamenti
partigiani
e
specialmente
le
Brigate
d’assalto
Garibaldi,
è il
Fronte
nazionale
della
Gioventù,
sono
i
Gruppi
di
difesa
della
donna.
Tutte
queste
forze
aderiscono
al
Comitato
di
Liberazione
Nazionale
(CLN).
Ebbene
saranno
queste
forze,
e
solo
esse,
che,
come
hanno
condotto
alla
lotta
e
condurranno
alla
vittoria
il
popolo
italiano,
presiederanno
il
nuovo
ordine
che
da
questa
lotta
scaturirà”
(Una
esperienza
che
non
deve
andare
perduta:
le
cinque
giornate
di
Milano
e la
situazione
odierna,
in
La
Nostra
lotta,
a II,
n.
5-6,
marzo
1944).
Ma
la
democrazia
progressiva
è
molto
altro.
Come
sottolinea
Elio
Franzin,
essa
è,
in
primis,
il
tentativo
di
promuovere
la
democratizzazione
nell’Italia
postfascista
tramite
un
lungo
processo.
“Organi
fondamentali
dell’autogoverno
delle
masse
popolari
–
scrive
Franzin
–
saranno
i
comitati
locali
e
sociali
della
lotta
di
liberazione
nazionale,
le
libere
associazioni
di
massa,
che
dovranno
trasformarsi
in
organi
democratici
rappresentativi.
Il
passaggio
da
una
fase
all’altra
non
è
descritto
in
modo
completo,
ma
tutta
la
progettazione
della
nuova
forma
statale,
la
‘democrazia
progressiva,
ricorda
la
democrazia
consiliare,
dei
consigli
operai
e
contadini,
della
democrazia
di
base
delineata
da
alcuni
teorici
del
marxismo
eterodosso
tedesco
come
Rosa
Luxemburg
e
Karl
Korsch,
distantissimi
dalle
posizioni
teoriche
e
politiche
imposte
da
Stalin”.
In
un
articolo
del
marzo
o
aprile
1944,
Curiel
cerca
di
spiegare
ancora
cosa
egli
intenda
con
questo
concetto
di
‘democrazia
progressiva’:
“
‘Tutto
il
potere
al
CLN’
esprime
la
consapevolezza
che
la
classe
operaia
ha
della
sua
egemonia,
esprime
la
volontà
di
attuare
contro
tutte
le
reviviscenze
fasciste
la
democrazia
popolare
e,
quindi,
progressiva.
E
attuare
la
democrazia
progressiva
significa
appunto
indirizzare
la
grande
maggioranza
della
nazione
sulla
via
del
progresso,
sulla
via
del
socialismo.”
Ma
non
solo.
Come
specifica
poco
oltre,
la
democrazia
progressiva
non
è
soltanto
una
tappa,
ma “la
formulazione
politica
del
processo
sociale
della
rivoluzione
permanente”
(in
corsivo
nell’originale),
concetto,
quest’ultimo
di
chiara
derivazione
trotzkista
e,
pertanto,
evidentemente
e
gravemente
eterodosso
rispetto
alla
vulgata
staliniana
dell’epoca.
Da
quanto
sopra,
peraltro,
deriva
che
il
concetto
di
democrazia
così
inteso
non
può
essere
“una
condizione
di
equilibrio
delle
forze
sociali:
l’esistenza
di
una
democrazia
progressiva
è
condizionata
al
continuo
progresso
sociale,
alla
sempre
più
decisa
partecipazione
popolare
al
governo,
alla
sempre
più
matura
egemonia
della
classe
operaia.
Ed
in
questo
processo
–
che
è la
democrazia
progressiva
–
andranno
cadendo
gli
ostacoli
che
si
frappongono
alla
conquista
del
socialismo,
mentre
si
dimostrerà
sempre
più
chiaramente
l’identità
degli
interessi
generali
della
società
con
gli
interessi
specifici
della
classe
operaia”
(Due
tappe
della
storia
del
proletariato,
marzo
o
aprile
1944,
scritto
ma
non
pubblicato:
forse
da
utilizzare
per
una
lezione
o
una
conferenza).
Qualche
mese
dopo,
il
25
luglio
1944,
tornando
sul
tema
della
democrazia
in
un
articolo
dal
titolo
emblematico
–
Perché
vogliamo
la
democrazia
progressiva
–
pubblicato
sull’Unità
(edizione
dell’Italia
settentrionale,
n.
11),
traccia
la
linea
demarcazione
tra
questo
peculiare
concetto
di
democrazia
e
quello
ormai
superato
dell’Italia
prefascista.
Scrive,
infatti:
“Noi
parliamo
di
democrazia
progressiva
come
della
forma
di
vita
politica
e
sociale
che
si
distingue
dalla
vecchia
democrazia
prefascista
in
quanto
si
forma
sull’autogoverno
delle
masse
popolari.
Non
si
tratta
quindi
di
una
democrazia
che
si
esaurisca
nella
periodica
consultazione
elettorale,
ma
di
una
forma
di
vita
sociale
politica
che
assicura,
attraverso
le
libere
associazioni
di
massa
un
peso
preminente
alla
partecipazione
popolare
al
governo”.
E
spiega
come,
in
realtà,
le
radici
di
tale
forma
democratica
esistano
già:
sono
le
radici
che
affondano
nelle
lotte
e
nelle
organizzazioni
resistenziali.
Infatti,
“il
contenuto
che
meglio
distingue
questa
democrazia
dalla
vecchia
democrazia
prefascista,
si
può
riassumere
nella
lotta
contro
il
fascismo,
inteso
non
soltanto
come
epurazione
della
società
dai
collaboratori,
ma
come
epurazione
della
struttura
sociale
ed
economica
dai
cartelli
e
dai
trust
che
hanno
dato
vita
al
fascismo”.
Per
quanto
concerne
poi
gli
elementi,
essa
trova
fondamento
nelle
“formazioni
partigiane
dei
Volontari
della
libertà,
(ne)i
Comitati
di
liberazione
nazionale
di
massa,
(ne)i
Comitati
di
agitazione,
(ne)i
Comitati
contadini,
(nel)
Fronte
della
Gioventù,
(nei)
Gruppi
di
difesa
della
donna,
(nel)le
Giunte
popolari
delle
zone
liberate.
Costruire,
estendere,
potenziare
questi
organi
significa
realizzare
da
oggi,
nelle
forme
consentite
dalla
situazione,
la
democrazia
progressiva:
che
non
è
ordinamento
elargito
dall’alto,
ma
la
lotta
nella
quale
le
masse
popolari
acquistano
esperienza,
maturità
e
capacità
politica”.
E,
davanti
all’affiorare
di
varie
forme
di
settarismo
(es.
la
posizione
di
Pietro
Secchia
riassunta
in
una
lettera
allo
stesso
Curiel
nel
gennaio
1945)
lo
scienziato-politico
ribadisce
il
concetto
di
democrazia
che
ha
in
mente:
“Una
democrazia
nuova
–
scrive
–
capace
di
mobilitare
le
masse
nello
sforzo
e
nei
sacrifici
della
lotta
di
liberazione
e
della
ricostruzione,
non
può
essere
solo
il
frutto
e il
prodotto
di
un
mutamento
istituzionale;
non
può
esaurirsi
nel
semplice
meccanismo
di
periodiche
consultazioni
elettorali;
deve
tradursi
in
un
atteggiamento
e in
una
partecipazione
nuova
delle
masse
al
governo
della
cosa
pubblica”.
Ciò,
tuttavia,
non
deve
far
dimenticare
che,
per
Curiel,
così
come
per
Gramsci,
l’egemonia
appartiene
alla
classe
operaia,
la
nuova
classe
“avanguardia
di
tutte
le
masse
oppresse
e
sfruttate”,
la
quale,
“a
differenza
delle
vecchie
classi
dirigenti
della
democrazia
conservatrice,
sempre
preoccupate
della
conservazione
dei
loro
privilegi,
(…)
è
interessata
non
già
a
respingere
ed a
comprimere,
ama
anzi
a
suscitare
ed a
promuovere
l’iniziativa
democratica
delle
masse
popolari
e
delle
loro
libere
organizzazioni,
la
loro
partecipazione
diretta
ed
attiva
alla
soluzione
dei
loro
problemi”
(Perché
i
comunisti
lottano
oggi
in
Italia
per
una
democrazia
progressiva,
in
La
Nostra
lotta,
a.
III,
n.1,
gennaio
1945).
Sono
evidenti,
in
questi
passaggi,
gli
elementi
che
avvicinano
Curiel
a
Gramsci,
con
la
differenza
che,
mentre
il
pensiero
di
Gramsci
– in
particolar
modo
e
per
gli
evidenti
motivi
legati
alla
prigionia,
nei
Quaderni
-
intraprende
uno
sviluppo
soprattutto
teorico
suscettibile,
poi,
di
applicazione
pratica,
quello
di
Curiel
–
essendo
egli
impegnato
nella
lotta
resistenziale
in
prima
persona
– ha
modo
di
dipanarsi
a
contatto
con
la
realtà
ed
in
sintonia
con
le
problematiche
emergenti
dai
confronti
in
seno
alle
organizzazioni
della
Resistenza.
Il
24
febbraio
1945,
dopo
aver
pranzato
in
ufficio
con
la
sua
compagna,
con
Arturo
Colombi
e
con
altre
due
giovani
collaboratrici,
ed
aver
discusso
il
piano
del
numero
dell’Unità
in
preparazione,
esce
per
recarsi
alla
chiesa
di
S.
Carlo,
dove
lo
attendono
per
una
riunione.
Si
avvia
verso
piazzale
Baracca,
quando
viene
sorpreso
da
una
pattuglia
repubblichina,
guidata
da
un
delatore.
Non
tentano
neanche
di
bloccarlo:
sparano
immediatamente.
Ferito,
tenta
di
rifugiarsi
nel
cortile
di
un
palazzo,
ma
viene
raggiunto
e
finito.
Uno
degli
assassini
gli
ruba
anche
l’orologio
che
porta
al
polso.
L’indomani
una
donna
sparge
dei
garofani
sulla
macchia
di
sangue
rimasta
a
terra.
Con
un
radiomessaggio,
la
notizia
della
morte
di
Curiel
viene
comunicata
immediatamente
a
Togliatti:
“Eugenio
Curiel,
fondatore,
animatore
e
capo
del
fronte
della
Gioventù
assassinato
a
Milano
per
strada
dai
fascisti
sabato
24
febbraio.
In
nome
suo,
gioventù
patriota
serra
le
file,
ed
intensifica
la
lotta
liberatrice
per
salvare
l’onore
della
patria
e
l’avvenire
della
gioventù
nella
nuova
Italia”.
Qualche
giorno
dopo,
il 4
marzo,
in
una
lettera
indirizzata
sempre
a
Togliatti,
Pietro
Secchia
comunica
con
tono
contrito
la
morte
di
Curiel,
dicendosi
tra
l’altro
convinto
che
non
di
errore
si
sia
trattato,
ma
“è
più
probabile
che
Curiel
sia
stato
individuato
perché
settimane
or
sono
erano
avvenute
delle
cadute
di
elementi
del
Fronte
della
gioventù
con
i
quali
egli
era
stato
legato”.
L’emozione
e il
cordoglio
dei
comunisti
si
manifestano
in
particolare
in
un
articolo
pieno
di
rabbia
e
commozione
scritto
da
un
caro
amico
e
collaboratore
di
Curiel,
Elio
Vittorini:
“I
cani
sanguinari
che
ancora
battono
le
vie
di
Milano,
–
scrive
l’autore
di
Conversazione
in
Sicilia
- in
questi
giorni
della
loro
repubblica
protetta
dal
reich,
possono
cantare
vittoria
per
una
volta.
Non
per
un
orologio,
una
penna
stilografica
e
alcune
migliaia
di
lire
di
cui
hanno
fatto
bottino.
Né
per
il
sangue
in
cui
hanno
affondato
il
muso.
Per
molto
di
più.
L’uomo
che
una
loro
pattuglia
di
militi
uccise
e
derubò…
non
era
uno
di
‘nessuno’.
Era
‘nostro’,
del
Partito
comunista
italiano
e
dell’Italia
che
lotta;
uno
dei
migliori
e
dei
capi
tra
i
‘nostri’.
Era
Giorgio…”
(Giorgio
era
il
nome
di
battaglia
di
Curiel,
nda).
E
continua
imbastendo
anche
il
primo
riconoscimento
politico
che
il
partito
rende
al
capo
del
Fronte
della
gioventù,
all’ideologo
e
all’uomo
d’azione:
“Molto
era
suo
degli
sforzi
compiuti
per
realizzare
in
Italia
l’idea
della
‘democrazia
progressiva’,
e
l’idea
del
‘potere’
ai
Comitati
di
liberazione;
molto
era
suo
anche
nell’opera
assidua
colla
quale
il
nostro
partito
cerca
di
trasformare
i
propri
organismi,
malgrado
le
condizioni
imposte
dall’attività
clandestina,
in
organismi
democratici”.
Ed,
infine,
come
nota
Paolo
Spriano,
prende
nuovamente
il
sopravvento
l’emozione
dell’artista
e
dell’amico,
fino
a
fargli
esclamare
che
“la
morte,
su
ogni
uomo,
è
insieme
di
luce
e di
oscurità.
Su
un
uomo
che
cade
come
è
caduto
Giorgio,
la
morte
si
divide;
lascia
la
luce
di
sé
sul
caduto,
e
l’oscurità
cammina,
copre
i
colpevoli
e
suggella
l’infamia
su
di
loro.”
(Eugenio
Curiel:
chi
era,
chi
è
ora,
in
L’Unità,
a.
XXII,
n.
6, 9
aprile
1945).
Basandosi
su
questo
ricordo
di
Vittorini,
il
poeta
Alfonso
Gatto
dedicherà
due
poesie
a
Curiel,
Giorgio
Curiel
e
25
aprile.
Nella
prima,
in
special
modo,
Gatto
riconosce
che
“in
un
giorno
della
vita/ho
camminato
con
Giorgio/a
capo
scoperto
nel
cielo”.
Identificandolo
persino
con
l’essenza
stessa
del
partito,
con
la
sua
anima
più
lucida
e
battagliera,
così
lo
descrive:
“Giorgio
era
un
compagno/Giorgio
era
il
Partito,
maturo
come
un
frutto,/
Giorgio
era
la
sua
voce/
inceppata
e
sicura/
(…)/un
desiderio
di
svegliare/il
mondo
coi
suoi
pensieri”.
E
sottolinea
con
ardore
poetico
l’amore
di
Curiel
per
i
giovani,
per
la
loro
lotta,
per
la
loro
educazione:
“come
un
grande
studente/usciva
in
fretta
alle
porte/
a
insegnare
la
strada/
ai
giovani
compagni”
e
poi
con
tono
accorato
e
straziante
passa
a
ricordarne
la
morte
e il
lascito:
“Compagna
anche
la
morte/
diceva,
il
sangue
è
rosso./
A
maggio
lo
portammo
al
cimitero./
Se
potevamo
camminare/
e
coprirlo
di
fiori
e di
bandiere/
era
perchè
da
morto
c’indicava/
la
grande
strada
della
primavera./
Lui
che
c’indicava/
la
grande
strada
della
primavera.”
Nella
poesia
25
aprile,
invece
Curiel
diventa
l’emblema
della
lotta
per
la
libertà,
e
soprattutto
della
lotta
e
del
sacrificio
dei
giovani
per
la
libertà:
una
lotta
condotta
fino
alle
estreme
conseguenza
con
tenacia
e
consapevolezza:
“la
speranza
che
dentro
ci
svegliava/
oltre
l’orrore
le
parole
udite/
dalla
bocca
fermissima
dei
morti/
‘liberate
l’Italia,
Curiel
vuole/
essere
avvolto
nella
sua
bandiera’”.
E il
tema
della
lotta
e
dei
giovani
in
lotta
per
un
mondo
migliore
ritorna
anche
nella
commemorazione
di
un
altro
amico
e
collaboratore,
il
filosofo
Antonio
Banfi.
Costui,
in
un
articolo
del
1946,
dal
titolo
Oggi
commemoriamo
E.
Curiel,
così
ricorda
l’amico
e
quei
giorni
di
passione:
“Ai
primi
di
maggio
egli
ha
ripercorso
di
nuovo
quella
via:
lo
scortavano
le
nostre
bandiere,
le
bandiere
rosse
del
lavoro,
tricolori
della
patria.
Ondeggiavano
all’aria
di
primavera
del
sole,
sulle
schiere
dei
giovani
combattenti,
sulle
brigate
di
operai
in
tuta
di
fatica,
sulla
turba
delle
donne
e
dei
bimbi.
E il
dolore
e il
rimpianto
s’accendeva
della
fiamma
di
speranza
e
letizia:
egli
era
ed è
l’eroe
giovane,
che
il
tempo
non
ha
toccato,
che
tristezza
di
uomini
e di
tempi
non
consuma,
che
vive
puro
e
libero,
testimone
di
una
gioconda
inflessibile
volontà
di
liberazione,
egli
è
l’anima
dei
giovani.
Perché,
nonostante
l’inganno
e il
tradimento,
i
giovani
sono
con
lui,
tutti
i
giovani,
quanti
combattono
per
l’indipendenza
della
patria
italiana,
per
l’umana
libertà
del
loro
lavoro,
per
la
responsabilità
di
una
fraterna
opera
comune
di
civiltà,
per
una
cultura
aperta
all’orizzonte
sereno
della
pace”.
È,
quella
che
descrive
Banfi,
una
concezione
della
storia
tipicamente
marxista
che,
giustamente,
egli
attribuisce
anche
a
Curiel.
Il
quale,
va
ricordato,
vede
nella
storia
non
“il
flusso
omogeneo
del
mondo
concettuale”
idealistico,
non
il
“processo
omogeneo,
ma
vicenda
di
faticose
incubazioni
e
turbinose
trasformazioni
rivoluzionarie”,
il
tutto
raccontato
e
sintetizzato
nella
storia
delle
lotte
di
classe
(Sul
“manuale”
di
Bucharin,
in
E.
Curiel,
Scritti,
1935-1945,
vol.
I,
p.
302).
La
lotta,
il
coraggio
del
pensiero,
la
visione
della
storia
come
progresso
verso
la
democrazia
e la
libertà,
la
determinazione
a
non
arrendersi,
la
fiducia
nei
giovani
e
nelle
loro
doti
morali
e
intellettuali,
il
disprezzo
per
ogni
compromesso
opportunistico
e,
più
o
meno,
concussorio,
la
stessa
intransigenza
morale
e la
concomitante
valorizzazione
dell’indignazione
come
molla
etica
e
politica,
la
fiducia
nella
cultura
e
nell’educazione,
l’amore
per
lo
studio,
la
scienza,
la
letteratura,
la
curiosità
per
il
mondo
e
l’istintiva
partecipazione
ai
dolori
ed
alle
vessazioni
subite
dalle
fasce
sociali
più
deboli,
dagli
operai,
dai
contadini,
dalle
donne
e,
soprattutto,
dai
giovani,
tutto
questo
rende
attuale
il
pensiero
e
l’opera
di
Curiel.
C
uriel
uno
di
noi,
un
contemporaneo,
si
potrebbe
dire.
Soprattutto
se,
poi,
si
considera
ciò
che
scrive
Giorgio
Amendola
nella
Prefazione
agli
Scritti
dell’amico
e
compagno.
“In
quest’Italia
dell’eterna
commedia
trasformista
–
notava
Amendola
–
dove
tutto
finisce
a
tarallucci
e
vino,
finalmente
c’è
il
sangue
riparatore,
invocato
da
Piero
Gobetti.
La
durezza
della
lotta
introduce
un
elemento
nuovo,
intransigente
moralmente.
Chi
ha
sbagliato
deve
pagare.
Anche
Mussolini
non
potrà
sfuggire
alla
sua
condanna.
Il
trasformismo
è il
vero
morbo
italico,
l’arte
del
continuo
compromesso
generale,
io
aiuto
te
se
tu
aiuti
me.
Bisogna
spezzare
questa
rete
malefica
e
corruttrice.
Bisogna
lottare,
buttando
la
propria
vita
in
giuoco”.
Come
ha
fatto
Curiel.
Cosa
c’è
di
più
attuale
di
queste
parole,
nell’Italia
di
oggi?
Nell’aula
magna
del
liceo
a
lui
intitolato,
affisso
in
alto,
su
un
pilastro
a
destra,
quasi
a
ridosso
del
grande
tavolo
delle
conferenze,
c’è
un
ritratto
di
Curiel.
È
una
copia
ingrandita
e
incorniciata
di
un
disegno
di
Renato
Guttuso.
Al
visitatore,
si
mostra
un
giovane
uomo
dal
viso
affilato,
il
ciuffo
un
po’
ribelle,
gli
occhialetti
rotondi
a
mettere
in
risalto
uno
sguardo
attento,
come
per
prestare
attenzione
a
ciò
che
in
quell’aula
studenti
ed
insegnanti
quotidianamente
dicono.
Come
a
garantire,
con
la
sua
sola
presenza,
la
democraticità
del
luogo.
E
democraticità
significa
partecipazione.
Giacché,
come
ebbe
a
scrivere
il
15
maggio
1938,
con
lo
pseudonimo
di
Nordio,
se,
da
un
lato
“questa
influenza
fascista
ha
spezzato
ogni
sentimento
di
solidarietà
nazionale
ed
internazionale,
ha
ucciso
ogni
fede
in
una
possibile
convivenza
pacifica
dei
popoli”,
dall’altro,
“questo
infinito
scetticismo,
che
si
rivela
più
o
meno
chiaramente,
ma
che
uccide
ogni
possibile
fiducia
in
un
ideale,
che
deride
il
sacrificio
dell’individuo
proteso
verso
il
benessere
della
comunità,
è,
in
fondo,
la
più
cospicua
conquista
del
fascismo
e ne
sarà
probabilmente
la
più
amara
eredità”.
Parole
di
un’attualità
sconcertante.
Parole
pesanti
come
macigni
che
sembrano
scritte
oggi.
Parole
che
ci
ricordano,
come
hanno
fatto
altri
dopo
di
lui,
da
Pasolini
a
Bobbio,
da
Sciascia
a
Zagrebelsky,
che
il
fascismo
può
camuffarsi
e
manifestarsi
in
mille
modi
diversi.
Spesso
sotto
forma
di
populismo,
più
o
meno
xenofobo,
o
qualunquismo,
oppure
sotto
forma
di
individualismo
e
cinismo,
magari
artatamente
pilotati.
In
mille
modi
si
può
manifestare
il
fascismo,
ma
in
un
luogo
solo
può
crescere
e
affermarsi:
nel
vuoto
della
partecipazione
dei
cittadini
alla
politica,
cioè
nell’indifferenza
verso
il
destino
collettivo
di
un
popolo.
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Eugenio
Curiel
e la
generazione
degli
anni
difficili,
Padova,
1970;
Garin,
Eugenio,
Eugenio
Curiel
nella
storia
dell’antifascismo,
in
“Studi
storici”,
1,
1965;
Merli,
Stefano,
La
rinascita
del
socialismo
italiano
e la
lotta
contro
il
fascismo
dal
1934
al
1939,
Milano,
1963;
Modica,
Enzo,
Classi
e
generazioni
nel
secondo
Risorgimento,
Roma,
1955;
Marchesi,
Concetto,
Pagine
all’ombra,
Padova,
1946;
Meneghetti,
Egidio,
Cronaca
dell’Università
di
Padova,
in
“Mercurio”,
a.
II,
n.
16,
dicembre
1945.