N. 45 - Settembre 2011
(LXXVI)
mare Nostrum: un’identità possibile?
Voci e strumenti della tradizione musicale
di Monica Sanfilippo
Il Mediterraneo, o Mare Nostrum, come lo definirono i romani, conserva a tutt’oggi un importante ruolo socio-economico e politico, considerando che attorno al bacino gravitano gli spazi di ben tre continenti: Africa, Asia, Europa. Ma il Mediterraneo non è solo un mare, quanto l’eredità di un paesaggio “culturale” tra i più interessanti sul piano antropologico, un ambiente di interrelazioni le cui rappresentazioni attuali sono il frutto di una vivace profondità storica.
Non
a
caso
lo
storico
Fernand
Braudel,
alla
domanda
«cos’è
il
Mediterraneo»,
risponde:
«Mille
cose
insieme.
Non
un
paesaggio
ma
innumerevoli
paesaggi.
Non
un
mare,
ma
una
serie
di
civiltà
accatastate
le
une
sulle
altre.
Viaggiare
nel
Mediterraneo
significa
[…]
immergersi
nell’arcaismo
dei
mondi
insulari
e
nello
stesso
tempo
stupire
di
fronte
all’estrema
giovinezza
di
città
molto
antiche,
aperte
a
tutti
i
venti
della
cultura
e
del
profitto,
e
che
da
secoli
sorvegliano
e
consumano
il
mare.
Tutto
questo
perché
il
Mediterraneo
è un
crocevia
antichissimo»
(F.
Braudel,
Il
Mediterraneo).
Anche
sul
piano
dei
linguaggi
musicali
la
stratificazione
storica
e
areale
è
evidente,
nella
circolarità
degli
strumenti,
innanzitutto,
e
nei
comportamenti
delle
prassi
esecutive
della
fascia
folklorica
e di
tradizione
orale.
Eppure
la
questione
non
è
così
semplice
agli
occhi
degli
studiosi
che
intendono
approfondire
l’identità
culturale
mediterranea.
Gli
studi
sulle
società
e le
culture
del
Mediterraneo
si
sviluppano
a
partire
dal
successo
dell’opera
di
J.
G.
Peristiany,
Honour
and
Shame.
The
Values
of
Mediterranean
Society
(1966),
tanto
da
inaugurare
un
filone
specifico
d’indagine,
quello
dell’antropologia
mediterraneista.
Più
di
recente,
il
dibattito
attorno
alla
categoria
culturale
di
“mediterraneo”,
e
alla
standardizzazione
dei
modelli
interpretativi
di
“onore”
e
“vergogna”,
ha
evidenziato
nuovi
approcci
a
questo
campo
d’indagine,
tra
chi
nega
la
categoria
stessa
poiché
prodotto
dell’egemonia
geo-politica,
ossia
pura
invenzione
della
cultura
dominante
nord-europea,
e
chi
ritiene
che
una
definizione
antropologica
del
Mediterraneo
sia
possibile
a
patto
che
lo
si
identifichi
con
il
risultato
di
“un’interazione”
di
persone,
istituzioni
e
processi
sociali
in
un
lungo
arco
di
tempo
(J.
Davis,
Antropologia
delle
società
mediterranee).
Affinché
si
possa
«parlare
in
modo
produttivo»
di
antropologia
del
Mediterraneo
bisogna
considerare
l’eterogeneità
quale
componente
determinante
dell’area,
ovvero
il
melting
pot
che
essa
rappresenta.
Anche
in
ambito
etnomusicologico
gli
studiosi
concordano
che
non
è
possibile
parlare
di
musica
mediterranea
tout
court
e
che
un’identità
musicale
di
per
sé
non
esiste,
se
non
come
proiezione
di
un
identikit
costruito
a
tavolino
e
come
operazione
di
marketing.
Semmai
è
necessario
lavorare
sullo
studio
del
riconoscimento
di
tratti
comuni
attraverso
l’individuazione
di
parametri
rigorosi,
come
suggerisce
l’etnomusicologo
B.
Lortat-Jacob
che,
sulla
base
di
alcuni
criteri
musicali
(direzione
fonatoria,
timbro,
ornamentazione,
tessitura)
individua
le
caratteristiche
più
diffuse
della
“vocalità
mediterranea”.
Questi
tratti
vocali
hanno
riscontro
immediato
nei
canti
folklorici
delle
regioni
meridionali
europee
e
italiane,
come
rilevano
le
più
importanti
registrazioni
etniche;
sul
piano
organologico,
invece,
le
analogie
sono
più
facilmente
riscontrabili
per
la
fisicità
stessa
degli
strumenti
in
quanto
“oggetti
sonori”.
Tra
i
numerosi
repertori
di
tradizione
orale
spiccano
analogie
contestuali
e
modi
esecutivi
tipici,
legati
ai
cicli
calendariali
dell’anno
e
della
vita
agro-pastorale,
alle
occasioni
di
festa
e di
lavoro.
In
queste
circostanze
la
musica
ha
un
valore
fortemente
simbolico
e
rituale,
in
quanto
segna
riti
di
passaggio,
accompagna
eventi
collettivi,
accresce
l’integrazione
sociale,
reitera
l’identità.
Ogni
repertorio
appartiene
a
musicisti
specializzati
che
rivestono
un
ruolo
riconosciuto
attraverso
un
processo
di
apprendistato
e
abilità
performative.
Molto
diffusi,
per
esempio,
sono
i
canti
di
lavoro,
oggi
purtroppo
in
fase
di
decontestualizzazione,
considerando
i
processi
di
mutamento
e
meccanizzazione
dell’attività,
e i
canti
d’amore,
le
serenate,
i
dispetti:
essi
spiegano,
generalmente,
melodie
all’aria
estemporanee,
caratterizzate
da
intensità
e
timbro
possenti,
riccamente
fiorite,
senza
o
con
accompagnamento
strumentale.
Ne
sono
un
esempio
i
canti
alla
carrettiera
siciliani,
le
seguidillas
spagnole,
l’ottava
rima
dell’Italia
centrale,
lo
spirtu
prontu
maltese,
il
canto
a
chitarra
sardo,
le
fronne
campane,
la
ghana
maltese.
La
voce
è
protagonista
dell’evento
sonoro
che
il
cantore
gestisce
sulle
basi
di
un’arte
dell’improvvisazione
tramandata
oralmente
da
generazioni
attraverso
un
processo
mnemonico
che
esalta
il
rapporto
testo/musica,
poesia/canto.
La
memoria
collettiva
funziona
da
garante
dell’identità
nella
riproduzione
di
cicli
epici,
storie
e
leggende:
è
quello
che
avviene
nelle
tradizioni
musicali
di
ogni
regione
del
Mediterraneo,
dai
canti
cleftici
greci
ai
cantastorie
siciliani,
dai
romances
spagnoli
alla
sīra
hilāliyya
egiziana,
dall’ozan
turkmeno
al
guslar
dei
Balcani.
«I
canti
epici
e
leggendari
[…]
costituiscono
il
fondamento
e la
coesione
dell’immaginario
sonoro
di
ciascuna
nazione
[…]
Dalla
memoria
emergono
inoltre
le
linee
di
frattura
che
segnano
indelebilmente
le
mappe
del
Mediterraneo,
una
serie
di
diaspore,
i
conflitti
etnici,
la
pirateria,
le
conquiste,
le
invasioni,
le
lotte
d’indipendenza
nazionale»
(P.
Scarnecchia,
Musica
popolare
e
musica
colta).
Per
esempio,
il
canto
cleftico
racconta
le
gesta
dei
kleftis,
letteralmente
i
“banditi”,
ossia
quei
guerriglieri
che
lottarono
contro
gli
invasori
ottomani
nella
guerra
d’indipendenza
prima,
contro
tedeschi
e
italiani
dopo,
durante
l’occupazione
della
seconda
guerra
mondiale;
oppure
i
cantastorie
siciliani,
legati
alla
tradizione
degli
“orbi”,
i
cantori
ciechi
di
aedica
memoria,
girovaghi
in
compagnia
dei
loro
cartelloni
e di
una
chitarra,
narratori
di
gesta,
dai
paladini
di
Francia
ai
fatti
più
attuali
di
sangue
e
onore,
alla
diffusione
di
oroscopi.
Figura
interessante
questa
del
cantastorie,
nella
specificità
“magica”
di
evocare
storie
e
personaggi,
nella
funzione
comunicativa
di
circolarità
delle
leggende
che
dal
Cinquecento
in
poi,
attraverso
libretti
popolari
e
fogli
volanti,
sono
giunte
fino
a
noi
in
versione
stampata.
«I
cantastorie
di
questa
vastissima
area
–
nota
Roberto
Leydi
–
hanno
in
comune
anche
alcuni
tratti
dello
stile
di
canto,
certi
procedimenti
recitativi,
l’uso
di
determinati
strumenti
per
l’accompagnamento.
Due
tipi
di
strumenti
ricorrono
infatti
con
precisa
coincidenza
in
tutta
l’area:
il
liuto
lungo
(tanbûr),
nelle
sue
molteplici
versioni
e
denominazioni
e il
violino
verticale,
sia
nel
tipo
piriforme
e a
tre
corde
(lyra
–
gudók)
che
nel
tipo
monocordo
(gusle-rebāb)».
La
presenza
e la
diffusione
dei
cantastorie
nei
vari
contesti
del
bacino
individuerebbe
una
fascia
mediterranea
di
interazione
poetico/musicale
e
narrativa.
Anche
la
varietà
degli
strumenti
musicali
denota
un
patrimonio
organologico
di
straordinaria
ricchezza
attraverso
cui
è
possibile
leggere
i
segni
di
una
storia
comune,
nella
circolarità
di
questi
“oggetti”
e
nella
capacità
di
adattamento
dall’ambito
colto
al
popolare,
e
viceversa.
Tra
i
cordofoni,
per
esempio,
ritroviamo
la
grande
famiglia
dei
liuti
a
pizzico
a
manico
corto
(liuto
europeo,
ud
turco,
llaute
albanese)
e
lungo
(buzuki
greco,
colascione
italiano);
le
chitarre
(chitarra
battente
italiana,
vihuela
spagnola)
e i
liuti
ad
arco
(rebāb
maghrebino,
lyra
greca,
lira
calabrese);
tra
i
membranofoni
tutta
la
famiglia
dei
tamburi
a
cornice
(dal
tār
maghrebino
al
tamburello
e
tammorra
italiani),
cilindrici
e a
calice,
percossi
con
mani
o
bacchette;
tra
gli
idiofoni
tutta
la
serie
di
sonagli,
crotali
e
castagnette
dalla
spiccata
funzione
ritmica;
e
tra
gli
aerofoni
la
grande
famiglia
dei
flauti
(il
kaval
balcanico,
i
fischietti
dell’Italia
meridionale,
il
fuviolcatalano),
delle
zampogne
(gaita
spagnola,
mih
croata,
musette
francese),
dei
clarinetti
doppi
e
tripli
(lelauneddas
sarde).
Ogni
strumento
esprime
un
percorso
storico,
richiamando
nelle
origini
archetipi
antichi.
Gli
attuali
nay
arabo
e
kaval
dei
Balcani,
per
esempio,
sembrano
essere
la
versione
moderna
a
più
fori
degli
antichi
flauti
egiziani
di
cui
sono
stati
rinvenuti
diversi
esemplari
nelle
tombe
della
valle.
Per
la
zampogna,
invece,
la
corrispondenza
non
è
così
semplice:
il
tipo
più
arcaico
oggi
ancora
in
uso
in
alcune
aree
pastorali
europee
sembra
essere
il
modello
ad
una
sola
canna
di
bordone
risalente
al
Medioevo,
ma
circa
la
sua
presenza,
prima
di
questa
data,
non
abbiamo
notizie
a
sufficienza.
L’unica
testimonianza
certa
risale
al I
secolo
d.
C.
quando
«Svetonio,
lo
storico
dei
Cesari,
riferisce
di
Nerone:
“verso
la
fine
della
sua
vita
egli
aveva
pubblicamente
promesso
che
se
avesse
potuto
conservare
l’Impero,
nei
giochi
per
celebrare
la
sua
vittoria
si
sarebbe
esibito
in
una
esecuzione
sull’organo
idraulico,
con
la
choraula
e l’utricularium”.
L’ultimo
nome
indica
un
otre
di
cuoio
e
sarebbe
difficile
intenderlo
altrimenti
da
una
zampogna»
(C.
Sachs,
Storia
degli
strumenti
musicali).
Nulla
vieterebbe
allora
di
pensare
che
tale
strumento
«potrebbe
benissimo
essere
stato
reinventato
nel
Medio
Evo».
Da
non
confondere
poi,
come
superficialmente
è
stato
fatto,
il
flauto
con
l’aulós
e la
rispettiva
tibia
latina,
aerofoni
di
canna
non
a
imboccatura
libera,
ma
caratterizzati
dalla
presenza
dell’ancia,
una
linguetta
di
legno
posta
fuori
o
all’interno
dello
strumento,
ancora
oggi
riscontrabile
nel
sistema
di
produzione
sonora
di
tutti
gli
strumenti
a
fiato
del
tipo
clarinetto
e
oboe.
Ad
un
occhio
più
attento,
i
suonatori
di
auloí
raffigurati
sui
vasi
greci
e
romani
indossano
“una
specie
di
museruola”
(phorbeiá
per
i
Greci,
capistrum
per
i
romani)
allo
«scopo
di
mantenere
una
pressione
regolare
alle
gote
del
sonatore
che
assolvevano
alla
funzione
di
mantice,
del
sacco
d’una
cornamusa».
Aulos
greco
e
tibia
romana
arrivarono
con
ogni
certezza
fino
all’Alto
Medioevo.
Anche
per
i
cordofoni
la
situazione
è
complessa:
per
esempio,
la
lira
popolare
ancora
oggi
presente
nel
sud
Italia,
nei
Balcani
e
nelle
isole
greche,
non
va
confusa
con
l’antica
lira
greca,
legata
al
culto
d’Apollo,
le
cui
testimonianze
sono
già
presenti
nell’Iliade
quando
i
cantori
professionisti
se
ne
servivano
per
accompagnare
i
loro
versi.
«La
lira
omerica
fu
senza
possibilità
d’errore
una
kithára,
tal
quale
appare
su
molti
dei
cosiddetti
vasi
geometrici:
piccola,
arrotondata,
tenuta
in
posizione
obliqua»
(C.
Sachs).
Quella
popolare
attualmente
presente
nella
fascia
mediterranea
è un
liuto
corto,
piriforme,
verticale
suonato
con
l’archetto
collegato
con
il
rebab
arabo-persiano
e/o
la
lira
bizantina
sotto
il
cui
nome
di
fidlle
e
viola
si
raccolsero
quasi
tutti
gli
strumenti
ad
arco
dell’Europa
medievale.
Nel
processo
di
standardizzazione
degli
strumenti
colti
europei,
dal
Rinascimento
al
Barocco,
e
anche
oltre,
non
ci
sorprenderà
rintracciare
esemplari
che
trovano
diversi
utilizzi,
di
piazza
come
di
corte,
situazione
analoga
per
molti
motivi
musicali,
sia
di
canto
che
di
danza,
destinati
ad
ampia
circolarità,
basti
pensare
a
temi
popolari
di
follie,
ciaccone
e
passacaglie
che
rivivono
in
composizioni
di
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di
spessore
come
Bach,
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