N. 104 - Agosto 2016
(CXXXV)
L’Etna nel mito
Ninfa, madre e ardor di fuoco
di Alessandra Romeo
(…)
là
sono
i
lauri,
là
sono
gli
ondeggianti
cipressi,
l’edera
scura
e la
vite
dai
dolci
frutti,
è
c’è
l’acqua
fresca,
bevanda
divina
che
per
me
fa
scendere
dalla
candida
neve
l’Etna
selvoso.
Chi
vorrebbe
avere,
in
cambio
di
tutto
questo,
il
mare
e le
onde?
[Theoc.
11,
45-49.
Trad.
it.
B.
M.
Palumbo
Stracca]
Con
queste
splendide
parole
Teocrito,
nel
suo
Idillio
11
dedicato
al
Ciclope,
descrive
il
vulcano
Etna
come
un
luogo
quasi
incantato
a
cui
nessuno
potrebbe
resistere.
Un
paradiso
terrestre
nonché
un
vulcano
dalla
maestosità
divina,
a
cui
gli
antichi
conferirono
tratti
umani
di
donna
e
madre,
e
con
un’importanza
paesaggistica
e
mitologica
incomparabile.
Un
luogo
dove
mito,
natura
e
culti
antichi
si
fondono
come
non
mai.
Etna
era
una
splendida
ninfa,
figlia
di
Urano
e di
Gea,
rispettivamente
personificazione
del
Cielo
e
della
Terra.
Il
monte
sarebbe
quindi
il
frutto
divino
della
fusione
tra
cielo
e
terra
e
questa
discendenza
non
stupisce
affatto
chi
ne
osserva
la
figura:
con
la
cima
sembra
toccare
il
cielo
e
con
le
radici
penetra
nelle
profondità
della
terra.
Un
pensiero
forse
fin
troppo
poetico,
ma
che
dà
un’idea
della
dimensione
divina
del
vulcano.
Una
ninfa
dalla
genealogia
sacra
e
con
una
discendenza
altrettanto
gloriosa,
infatti
si
narra
che
fu
una
delle
amanti
del
dio
Efesto
e
che
da
questa
unione
furono
generati
gli
dei
Palici.
Gli
episodi
mitici
in
cui
essa
risulta
protagonista
come
ninfa
sono
la
disputa
sulla
Sicilia
contesa
tra
Efesto,
dio
del
fuoco,
e
Demetra,
dea
delle
messi,
risolta
grazie
al
suo
intervento,
e la
nascita
dei
già
citati
Palici.
Quest’ultimi
erano
una
coppia
di
dei
gemelli
venerati
già
dai
Siculi.
Le
fonti
letterarie
non
concordano
sulla
loro
genealogia
e
diverse
sono
le
definizioni
date:
figli
di
Efesto
e
Etna;
figli
di
Etna
e
della
divinità
sicula
Adranos,
poi
identificato
con
Efesto;
figli
di
Zeus
e
Taleia,
a
sua
volta
figlia
di
Efesto,
e
quindi
nipoti
di
quest'ultimo.
Da
una
attenta
lettura
delle
fonti,
tuttavia,
si
evince
che
tutte
le
varianti
del
mito
hanno
in
comune
una
discendenza
divina
legata
agli
elementi
fuoco
e
terra.
Sono
quindi
divinità
ctonie,
motivo
per
cui
successivamente
i
Greci
li
assimilarono
ai
Cabiri
di
Samotracia,
anch'essi
generati
da
Efesto,
o ai
Dioscuri,
figli
gemelli
di
Zeus
e
protettori
della
navigazione.
Per
associazione,
i
Palici
divennero
la
personificazione
delle
sorgenti
solforosi-termali
e
protettori
della
navigazione.
La
versione
più
famosa
del
mito,
tuttavia,
è
quella
che
li
identifica
come
figli
di
Zeus
e
Taleia
e
che
narra
di
come
quest’ultima,
spaventata
dall'ira
di
Era,
moglie
del
dio
fedifrago,
si
nascose
sottoterra
per
portare
a
compimento
la
gravidanza
(Serv.
Aen.
9,
581).
Al
momento
del
parto,
i
gemelli
divini
vennero
alla
luce
due
volte:
la
prima
dal
ventre
materno
e la
seconda
da
quello
della
terra
quando
uscirono
in
superficie.
Questa
doppia
nascita
è
sottolineata
anche
dall'etimologia
del
nome,
infatti
πάλιν
ἱκέσϑαι
(palin
ikesthai)
si
traduce
con
"giunti
di
nuovo",
cioè
"nati
due
volte".
Tale
racconto,
a
mio
parere,
sarebbe
plausibile
anche
nel
caso
in
cui
la
madre
fosse
stata
la
ninfa-vulcano
Etna:
nati
dal
ventre
del
monte
e
poi
risaliti
in
superficie.
Il
loro
culto
sembra
fosse
situato
presso
il
lago
di
Naftia,
vicino
Palagonia,
località
della
Piana
di
Catania.
Qui
vi
erano
dei
laghetti,
crateri
dai
quali
sgorgavano
acque
sulfuree,
sempre
in
ebollizione
(Str.
6,
2,
9),
e
dove
fu
eretto
un
santuario,
luogo
di
solenni
giuramenti.
Polemone,
secondo
quanto
riportato
da
Macrobio
(Macr.
Sat.
5,
19,
15
ss.),
e lo
pseudo-Aristotele
(Aristot.
Memor.
57)
ne
descrivono
dettagliatamente
il
rito:
colui
il
quale
si
accingeva
a
prestare
giuramento
doveva
scriverlo
su
una
tavoletta
e
metterla
nel
lago.
Se
essa
avesse
galleggiato
il
giuramento
sarebbe
stato
veritiero,
in
caso
contrario
lo
sventurato
sarebbe
stato
tacciato
di
spergiuro
e
condannato
a
morte
o
alla
cecità.
Il
santuario
era
anche
sede
di
un
oracolo
e
asilo
per
gli
schiavi.
Sul
sito
del
santuario
Ducezio
fondò
la
città
sicula
di
Palikè
(453
a.C.),
i
cui
resti
sono
visibili
nell'area
archeologica
di
Rocchiccella,
nel
comune
di
Mineo.
Come
vulcano,
l'Etna
fu
sede
dell'officina
di
Efesto,
dove
il
dio
forgiava
i
fulmini
di
Zeus,
e fu
il
luogo
in
cui
si
svolsero
importanti
episodi
mitici,
quali
il
ratto
di
Persefone,
la
sconfitta
di
Tifone
e
quella
di
Encelado.
Il
mito
più
conosciuto
è
senz'altro
quello
del
rapimento
di
Persefone
ad
opera
di
Ade,
zio
della
giovane
e
dio
degli
Inferi.
La
dea,
figlia
di
Zeus
e
Demetra,
era
solita
raccogliere
fiori
nei
pressi
di
Enna
in
compagnia
di
alcune
ninfe.
Ade,
una
volta
vista
la
sua
bellezza,
si
invaghì
della
giovane
e
volle
possederla.
Con
l’inganno
fece
in
modo
che
si
allontanasse dalle
compagne,
attirandola
con
la
bellezza
di
un
narciso
e
nel
punto
esatto
in
cui
esso
si
trovava,
non
appena
fu
raccolto
dalla
sventurata,
si
aprì
una
voragine
nel
terreno
dalla
quale
uscì
un
carro
col
quale
il
dio
rapì
la
nipote
(h.
Hom.
5,
5-21).
Secondo
Ovidio
il
luogo
attraverso
il
quale
il
carro
ritornò
negli
Inferi
si
trova
invece
nella
fonte
Ciane,
nei
pressi
di
Siracusa
(Ov.
met.
5,
396-437).
Alla
notizia
del
rapimento
della
figlia
e
non
sapendo
l’identità
del
rapitore,
Demetra
iniziò
una
disperata
ricerca
per
nove
giorni
e
nove
notti,
durante
le
quali
si
aiutò
con
una
fiaccola
accesa
nelle
viscere
dell’Etna.
Giunse
così
ad
Eleusi
e fu
accolta
da
Baubo
(Paus.
1,
14,
2).
La
donna
cercò
di
rifocillare
la
dea
dandole
una
minestra
che
Demetra
rifiutò
a
causa
della
mancanza
di
appetito
dovuta
al
dolore
per
la
scomparsa
della
figlia.
Così
Baubo,
per
tirarla
su
di
morale,
alzò
le
sue
vesti
mostrando
le
natiche
e
suscitando
il
buon
umore,
tanto
che
la
dea
accettò
alla
fine
il
pasto
offertole
(Clem.
Al.
Protr.
21,
2).
Quando
le
fu
rivelato
il
nome
del
rapitore,
si
rifiutò
di
assolvere
ai
suoi
doveri
di
divinità
delle
messi
e
dell’agricoltura
fin
quando
non
avesse
riavuto
la
figlia.
Zeus,
sotto
la
minaccia
dell’incombente
sterilità
della
terra,
dovette
acconsentire
alla
richiesta
e
invitò
il
dio
degli
Inferi
a
restituire
Persefone,
ma
questo
non
fu
più
possibile.
La
giovane
dea,
infatti,
convinta
con
l’inganno
da
Ade,
aveva
mangiato
dei
chicchi
di
melograna:
chi
si
nutre
del
cibo
degli
Inferi
è
costretto
a
rimanervi.
Si
giunse
al
compromesso
secondo
il
quale
Persefone
avrebbe
vissuto
sei
mesi
(primavera
-
estate)
in
cielo
con
la
madre,
durante
i
quali
la
terra
fiorisce
e
dona
i
suoi
frutti,
allegoria
della
giovane
dea che
risorge
alla
luce,
e
sei
mesi
(autunno
-
inverno)
negli
Inferi
con
il
marito,
nei
quali
la
terra
è
sterile.
Oltre
alla
figura
di
Baubo,
il
mito
narra
anche
di
un’altra
donna
di
Eleusi,
Iambe,
che
riuscì
coi
suoi
scherzi
osceni
ad
allietare
la
dea
(Ov.
met.
195
ss.).
Questa
versione
collega
il
nome
della
serva
al
termine
“giambo”,
uno
dei
quattro
generi della
poesia
greca
nonché
il
metro
usato
in
essa,
caratterizzato
da
temi
legati
all’invettiva
personale
e ad
un
linguaggio
osceno.
Da
questo
mito
ha
origine
il
gesto
dell’anásyrma (ἀνάσυρμα),
o anasyrmós (ἀνασυρμός),
ovvero
l’atto
di
sollevarsi
la
gonna
per
mostrare
la
propria
vulva. Non
è
pornografia
o
semplice
divertimento,
ma
un
vero
e
proprio
rituale
apotropaico.
Esso era
praticato
nelle
feste
religiose
associate a Demetra,
come
i
Misteri
Eleusini
e le
Termoforie,
propiziatorie
per
la
fertilità
della
terra
e
legate
al
ciclo
della
vita
e
della
rinascita.
Le
fonti
letterarie
ne
riportano
la
descrizione
con
riferimenti
al
sollevamento
delle
vesti,
a
danze,
all’uso
di
un
linguaggio
licenzioso,
a
scherzi
a
sfondo
sessuale
e di
esibizione,
a
simboli
di
fertilità
(per
esempio
i mylloi,
dolci
sui
quali
era
praticata
un’incisione
al
centro
prima
della
cottura
in
modo
tale
che,
una
volta
cotti,
assomigliassero
a
delle
vulve),
a
sacrifici
di
animali
legati
alla
sfera
demetriaca
(ad
esempio
piccoli
porcellini)
e al
consumo
di
alimenti
legati
alla
dea,
come
melograna,
fico
e
grano.
Fondamentali
in
tal
senso
sono
gli ex
voto ritrovati
nei
santuari
demetriaci
in
quanto
presentano
gli
attributi
appena
descritti.
Il
secondo
mito
svoltosi
sul
vulcano
è
quello
relativo
alla
sconfitta
di
Tifone
ad
opera
di
Zeus.
Egli
era
un
mostro,
figlio
di
Gea
e
del
Tartaro,
mezzo
uomo
e
mezzo
belva,
più
alto
di
tutte
le
montagne,
tanto
che
con
la
testa
urtava
le
stelle,
con
lunghissime
braccia
che
stese
toccavano
sia
l'Oriente
che
l'Occidente,
con
cento
draghi
al
posto
delle
dita
delle
mani,
vipere
attorno
alla
vita,
ali
e
occhi
che
lanciavano
fiamme.
Tanta
fu
la
paura
provata
nel
momento
in
cui
il
mostro
attaccò
il
Cielo
che
gli
stessi
dei
si
rifugiarono
nel
deserto
dell'Egitto,
camuffando
i
propri
corpi
sotto
sembianze
animalesche.
Soltanto
Atena
e
Zeus
resistettero
e lo
attaccarono:
dapprima
il
mostro
ebbe
la
meglio
sul
dio
e
riuscì
persino
a
strappargli
i
tendini
delle
braccia
e
delle
gambe,
poi
recuperati
da
Eros
e
Pan
(o
Cadmo).
Recuperate
le
forze,
Zeus
lo
inseguì
prima
sul
monte
Nisa,
poi
in
Tracia
e
infine
in
Sicilia.
Qui
il
mostro
fu
definitivamente
sconfitto
a
colpi
di
fulmine
e
schiacciato
sotto
il
monte
Etna.
Secondo
il
mito,
infatti,
le
fiamme
che
il
vulcano
erutta
sono
ancora
quelle
che
Tifone
vomitò
al
momento
della
sconfitta
e i
terremoti
sono
i
vani
tentativi
di
liberarsi
dall‘enorme
peso
(Ov.
met.
5,
352-358).
Encelado,
infine,
era
un
gigante,
nato
dalla
fecondazione
di
Gea
col
sangue
di
Urano
una
volta
evirato
dal
figlio
Crono,
uomo
fino
alla
vita
e
con
code
di
serpenti
al
posto
degli
arti
inferiori,
caratteristica
non
presente
in
tutte
le
fonti
letterarie
e
iconografiche.
Egli
partecipò
nella
lotta
tra
Giganti
e
dei
e fu
sconfitto
da
Atena,
che
lo
sotterrò
sotto
la
Sicilia.
Secondo
il
mito,
infatti,
l'attività
vulcanica
del
monte
e i
terremoti
sono
frutto
della
sua
presenza
al
di
sotto
di
esso
(Apollod.
Bibliotheca,
1,
6,
1).
Ninfa,
madre
e
terra
di
fuoco,
l'Etna
rappresenta
uno
dei
luoghi
simbolo
più
concreti
della
grandezza
delle
civiltà
che
ci
hanno
preceduto
e,
ancora
oggi,
fonte
di
ispirazione
per
poeti,
scrittori
e
artisti.
Riferimenti
bibliografici:
Burkert,
W.,
La
religione
greca
(ed.
it.
a
cura
di
G.
Arrigoni),
Jaca
Book,
Milano
2010,
p.
448.
Cantarella,
E.,
I
supplizi
capitali.
Origine
e
funzioni
delle
pene
di
morte
in
Grecia
e a
Roma,
Feltrinelli,
Milano
2011,
pp.
258-259.
Carassiti,
A. M.,
Dizionario
di
mitologia
greca
e
romana,
Newton
&
Compton,
Roma
1996,
pp.
89-90;
226.
Grimal,
P.,
Enciclopedia
della
Mitologia
(trad.
it.
di
P.
A.
Borgheggiani;
ed.
it.
a
cura
di
C.
Cordié),
Garzanti,
Milano
2005,
pp.
159-160;
263;
308;
470;
502-503;
613-14.
Kerényi,
K.,
Gli
dèi
e
gli
eroi
della
Greci
(trad.
it.
di
V.
Tedeschi),
Il
Saggiatore,
Milano
2014,
pp.
35-38.
Ramorino,
F.,
Mitologia
Classica
Illustrata,
Ulrico
Hoepli,
Milano
1984,
pp.
14;
234-246.
Teocrito,
Idilli
e
epigrammi,
(trad.
it.
Di
B.
M.
Palumbo
Stracca),
Bur,
Milano
2004,
vv.
45-49,
pp.
212-213.