attualità
LA GUERRA CIVILE IN TIGRAY
DA CONFLITTO INTERNO A GUERRA REGIONALE?
I RISCHI
di Lorenzo Lena
La guerra tra governo federale etiope e
Tigray People Liberation Front
prosegue ormai da nove mesi e ha causato
un enorme numero di vittime, tra fame,
stupri, saccheggi e migrazioni forzate
anche nei Paesi vicini, destabilizzando
una potenza regionale, l’Etiopia,
impegnata in Somalia per conto
dell’Unione Africana e in piena crisi
con l’Egitto per il progetto GERD (Grand
Ethiopian Renaissance Dam), una diga
sul Nilo azzurro che fornirà energia al
Paese al prezzo di stroncare le
forniture idriche al Cairo. Si aggiunga
il coinvolgimento dell’Eritrea, da cui
si controlla il passaggio lungo il mar
Rosso, e il Nobel per la pace consegnato
al premier Abiy Ahmed scompare nel
contesto più generale.
Le tensioni tra i tigrini e il governo
sono esplose a novembre 2020,
degenerando in guerra aperta tra
l’inedita alleanza Addis Abeba-Asmara e
il TPLF, che ha preferito abbandonare le
città optando per una guerriglia su cui
sono filtrate pochissime notizie,
sfuggite alla censura etiope, che hanno
inorridito i precedenti sostenitori di
Ahmed come leader del Paese. La crisi è
scomparsa dai media fino a primavera
2021, quando alle crescenti difficoltà
delle forze federali hanno fatto seguito
brutali rappresaglie sugli insediamenti
tigrini.
A luglio 2021 l’esercito etiope è stato
messo in rotta, quello eritreo sembra
aver ripassato il confine. La capitale
regionale, Makallé, è stata rioccupata
dal TPLF assieme al grosso del
territorio, mentre Ahmed ha cercato di
mascherare la disfatta dichiarandosi
vincitore e proclamando un cessate il
fuoco unilaterale, ma bloccando gli
aiuti umanitari verso la zona degli
scontri.
Con un’inconsistente tregua che scadrà
in autunno, la crisi tigrina è lontana
dalla conclusione e va inserita in una
serie di cause e conseguenze interne e
internazionali, in grado di dare il via
all’ennesima catastrofe africana.
Cause interne: tra etnie e politica
Le origini del conflitto si ritrovano
nella politica seguita al regime di
Mengistu Haile Mariam, rovesciato nel
1991 dall’Ethiopian People’s
Revolutionary Democratic Front,
coalizione etnico-federale tra i gruppi
di opposizione, in particolare tigrini,
oromo e amhara. L’EPRDF ha dominato la
politica etiope fino al 2019, quando
Abiy Ahmed (primo oromo in tale carica,
sull’onda delle manifestazioni di tre
anni prima) l’ha sostituito con il
Prosperity Party, partito
centralizzato e nazionale, in cui per la
prima volta prevalgono le etnie
demograficamente maggioritarie, oromo e
amhara.
Il TPLF, maggiore artefice della
cacciata di Mengistu e tradizionalmente
in ruoli di potere, si è ritrovato in
netta minoranza, rappresentando il 6 %
della popolazione etiope. Il rifiuto del
nuovo corso ha dato inizio a una crisi
politica. Ahmed è salito alla ribalta
per la pace con l’Eritrea di Isaias
Afewerki, padrone del Paese
dall’indipendenza dei primi anni
Novanta, mentre nell’ombra covava lo
scontro interno tra le varie anime del
potere etiope.
La situazione è precipitata a fine 2020,
quando Ahmed ha rinviato le elezioni
legislative e regionali a causa della
pandemia da Covid-19, scatenando la
reazione del TPLF, già cacciato dai
posti di comando e stretto tra il
governo centralista oromo e l’Eritrea
storica avversaria di Makallé.
Debretsion Gebremichael, presidente del
TPLF, ha rigettato la decisione e
indetto elezioni locali a settembre,
considerate nulle da Addis Abeba. Lo
scontro è andato acuendosi fino al 4
novembre 2020, quando a seguito di un
presunto attacco contro forze federali
in territorio tigrino l’esercito etiope
ha iniziato quella che Ahmed ha definito
“poco più di un’operazione di polizia”.
Lo scenario militare
Le Forze di Difesa Nazionali Etiopi (ENDF)
sono il punto di riferimento militare
nella regione, impiegate sia in Somalia
che in Sudan e dotate di equipaggiamento
di provenienza prevalentemente russa,
non certo moderno ma di pari livello con
i plausibili avversari locali, eccezion
fatta l’Egitto. L’Etiopia ha una lunga
esperienza militare, dalla guerra contro
l’Italia negli anni Trenta e Quaranta,
contro la Somalia negli anni Settanta e
contro l’Eritrea fino al 2018.
Il continuo impegno contro al-Shabab in
Somalia ha fornito una buona esperienza
nell’antiguerriglia, al prezzo di gravi
e costanti perdite. Oltre alle forze
federali, circa 150.000 uomini, ciascuno
Stato ha la propria milizia su base
prevalentemente etnica, al pari del TPLF
tigrino. Le principali sono le milizie
amhara e l’Oromo Liberation Front,
il cui ruolo si vedrà essere rilevante.
I combattimenti hanno investito il
Comando Nord, la cui sede è proprio a
Makallé, e persistono voci contrastanti
sulle strutture ancora sotto controllo
federale o riconquistate dal TPLF. Il
numero di militari tigrini che abbiano
disertato per unirsi al proprio fronte
etnico è sconosciuto, anche per la
difficoltà di distinguere tra milizie e
forze regolari. A oggi si può dire che
il blitz con cui Abiy ha cercato di
stroncare il TPLF in poco tempo è
fallito, degenerando in una guerriglia
che ha costretto il governo al ritiro e
a mobilitare le milizie, con il rischio
di spaccare l’Etiopia su faglie di odio
etnico.
La reputazione militare del TPLF è stata
conquistata sul campo, contro il regime
comunista di Mengistu e ricoprendo ruoli
di vertice per quasi trent’anni contro
l’Eritrea. I membri stimati superano i
duecentomila, solo una parte dei quali
addestrata al combattimento ( Tigray
Defence Forces), al comando di
leader esperti e carismatici come
Tsadkan Gebretensae, veterano della
rivoluzione, estromesso dagli oromo
e tornato alla guida delle forze tigrine.
Come per le altre milizie è disponibile
un minimo parco veicoli, mentre
l’assenza di qualunque capacità aerea
non ha impedito di rivendicare
l’abbattimento (negato da Addis Abeba)
di alcuni velivoli federali. Il
principale vantaggio del TPLF, comune a
ogni forza che si opponga all’invasione
del proprio territorio, è la perfetta
conoscenza di una zona abitata da
popolazioni amiche, oppresse dal governo
centrale e a esso ostili.
L’Eritrea, retta da uno dei regimi più
dispotici al mondo, mantiene un esercito
di circa duecentomila uomini in ferma
indefinita, tanto che la renitenza alla
leva obbligatoria è uno dei principali
motivi di emigrazione. Storicamente
nemico dei tigrini, Isaias Afewerki ha a
lungo negato la partecipazione di suoi
militari nel conflitto, accusando anzi
il TPLF del lancio di missili verso le
città eritree.
A maggio 2021, a seguito delle denunce
di varie ONG e delle Nazioni Unite,
Ahmed ha annunciato un accordo con
l’Eritrea per il ritiro delle forze
straniere, con le quali non sembra
essere stata messa in atto alcuna
efficace collaborazione contro il TPLF.
Secondo numerose accuse, gli eritrei
sarebbero responsabili di gravi crimini
contro la popolazione, incluso il
massacro di centinaia di persone nella
città di Axum.
Conseguenze interne e internazionali
Il fallimento di Ahmed nello schiacciare
i tigrini è dovuto alla grave
sottovalutazione dell’impresa, tentata
con forze insufficienti su un altopiano
che rappresenta un incubo logistico,
abitato da popolazioni abituate a
battersi. Buona parte dell’esercito
etiope non ha potuto essere distolto
dagli impegni in Somalia, in Sudan o al
confine con l’Egitto, consentendo al
TPLF di affrontare lo scontro in
condizioni meno svantaggiose.
L’inaspettata resistenza ha trasformato
una inevitabile disfatta militare in
efficace guerriglia a lungo termine,
costringendo il governo ha rivedere la
propria politica e subire la condanna
internazionale per le brutalità che una
guerriglia civile comporta.
L’aspetto umanitario è complesso. Ahmed
ha respinto le accuse di impedire gli
aiuti, ma di fatto le strade sono chiuse
e sulla regione è calato lo spettro
della fame. La decisione di puntare
sulle milizie etniche, per rinforzare
l’esercito in difficoltà, potrebbe dare
il via a scontri disgreganti sul modello
jugoslavo, anche perché mentre gli oromo
e gli amhara hanno risposto con
entusiasmo, la componente somala nell’Ogaden,
teatro di guerra a fine anni Settanta,
ha negato ogni appoggio al governo
etiope.
Sul piano internazionale la crisi si fa
più pericolosa, in quanto sono molte le
potenze interessate. L’Egitto, ostile
verso Addis Abeba per il citato progetto
fluviale, rincorre frequenti voci di
guerra e verosimilmente sta sostenendo
la resistenza, mentre le monarchie del
Golfo sono favorevoli al governo, avendo
mediato la pace con Asmara, e vedono di
buon occhio la stabilizzazione
centralista voluta da Ahmed, per
investire in sicurezza sull’altra sponda
del mar Rosso.
La Turchia sostiene l’Etiopia
soprattutto per opposizione all’Egitto,
con il quale è in crisi su tutti i
fronti, dal Mediterraneo, alla Libia,
allo scontro ideologico sulla
Fratellanza musulmana. A livello
globale, l’Etiopia rientra nelle Vie
della Seta cinesi, con Pechino
finanziatore della ferrovia
Gibuti-Addis-Abeba per trasformare il
Corno d’Africa in un perno commerciale e
in futuro militare della propria
espansione. Ovvio che guardi con
preoccupazione alle imbarazzanti
difficoltà che il governo sta
incontrando nel sedare una rivolta
locale.
Il principale interesse degli Stati
Uniti, in questa regione e nel resto del
mondo, è ormai il contenimento della
Cina, entrambi presenti militarmente a
Gibuti, ma Washington non può fare
eccessive pressioni su Ahmed, avendone
bisogno in Somalia e con la sterile
mediazione con l’Egitto in corso. Per
ultime l’Unione Europea, concentrata
negli aiuti economici interni, lacerata
dalla Brexit e litigiosa su migranti e
diritti umani, e le Nazioni Unite, da
cui partono accuse e appelli, ma
sostanzialmente incapaci di incidere.
Se il governo etiope riuscirà a
riprendere l’iniziativa e schiacciare il
TPLF, come i rapporti di forza
indurrebbero a credere, si assisterà a
un esodo di massa per sfuggire alle
violenze etniche, con il rischio
concreto di coinvolgere nel conflitto
l’Egitto e il Sudan, interessato da
ondate di disperati in fuga e coinvolto
in tensioni di confine nella regione di
Al-Fashaga.
La coordinazione militare tra i due
Paesi è sempre più stretta, con continue
esercitazioni congiunte che simulano
attacchi alle forze etiopi. Se il TPLF
finisse per prevalere, come a oggi
risulta, le conseguenze sul governo
Ahmed e sulla tenuta stessa della
federazione etiope sarebbero
imprevedibili. In ciascun caso, una
crisi lungo il corso del Nilo, dal mar
Mediterraneo all’oceano Indiano,
causerebbe un’immensa ondata migratoria
verso l’Europa, con l’Italia in prima
linea, peraltro già coinvolta essendo
italiana la ditta che sta ultimando la
costruzione della GERD.
Al momento, un’ipotesi diplomatica che
disinneschi sia la guerra civile che i
rischi di una guerra regionale sembra
particolarmente improbabile. Solo alcuni
dei fattori che dovrebbero indurre a
prestare maggiore attenzione a un
conflitto che ci riguarda molto da
vicino.
Riferimenti bibliografici:
Beltrami F., Etiopia, la Somali
Region rifiuta la mobilitazione contro
il Tigray. Abiy sempre più solo, “Focusonafrica.info”,
19 luglio 2021.
Bonini C., Del Re P., Pertici L., La
guerra dell’acqua, “Repubblica.it”,
25 luglio 2021.
Casola C., Corno d’Africa. Etiopia:
la dimensione regionale del conflitto in
Tigray, “Ispionline.it”, 18 novembre
2020.
Del Re P., Tigray, lo stratega
ribelle che ha sconfitto due volte
l’esercito di Addis Abeba, “Repubblica.it”,
2 luglio 2021.
Marshall T., Il potere delle mappe.
Le 10 aree cruciali per il futuro del
nostro pianeta, Garzanti, Milano
2021. |