[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

163 / LUGLIO 2021 (CXCIV)


attualità

LA GUERRA CIVILE IN TIGRAY

DA CONFLITTO INTERNO A GUERRA REGIONALE? I RISCHI

di Lorenzo Lena

  

La guerra tra governo federale etiope e Tigray People Liberation Front prosegue ormai da nove mesi e ha causato un enorme numero di vittime, tra fame, stupri, saccheggi e migrazioni forzate anche nei Paesi vicini, destabilizzando una potenza regionale, l’Etiopia, impegnata in Somalia per conto dell’Unione Africana e in piena crisi con l’Egitto per il progetto GERD (Grand Ethiopian Renaissance Dam), una diga sul Nilo azzurro che fornirà energia al Paese al prezzo di stroncare le forniture idriche al Cairo. Si aggiunga il coinvolgimento dell’Eritrea, da cui si controlla il passaggio lungo il mar Rosso, e il Nobel per la pace consegnato al premier Abiy Ahmed scompare nel contesto più generale.

 

Le tensioni tra i tigrini e il governo sono esplose a novembre 2020, degenerando in guerra aperta tra l’inedita alleanza Addis Abeba-Asmara e il TPLF, che ha preferito abbandonare le città optando per una guerriglia su cui sono filtrate pochissime notizie, sfuggite alla censura etiope, che hanno inorridito i precedenti sostenitori di Ahmed come leader del Paese. La crisi è scomparsa dai media fino a primavera 2021, quando alle crescenti difficoltà delle forze federali hanno fatto seguito brutali rappresaglie sugli insediamenti tigrini.

 

A luglio 2021 l’esercito etiope è stato messo in rotta, quello eritreo sembra aver ripassato il confine. La capitale regionale, Makallé, è stata rioccupata dal TPLF assieme al grosso del territorio, mentre Ahmed ha cercato di mascherare la disfatta dichiarandosi vincitore e proclamando un cessate il fuoco unilaterale, ma bloccando gli aiuti umanitari verso la zona degli scontri.

 

Con un’inconsistente tregua che scadrà in autunno, la crisi tigrina è lontana dalla conclusione e va inserita in una serie di cause e conseguenze interne e internazionali, in grado di dare il via all’ennesima catastrofe africana.

 

 

Cause interne: tra etnie e politica

 

Le origini del conflitto si ritrovano nella politica seguita al regime di Mengistu Haile Mariam, rovesciato nel 1991 dall’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front, coalizione etnico-federale tra i gruppi di opposizione, in particolare tigrini, oromo e amhara. L’EPRDF ha dominato la politica etiope fino al 2019, quando Abiy Ahmed (primo oromo in tale carica, sull’onda delle manifestazioni di tre anni prima) l’ha sostituito con il Prosperity Party, partito centralizzato e nazionale, in cui per la prima volta prevalgono le etnie demograficamente maggioritarie, oromo e amhara.

 

Il TPLF, maggiore artefice della cacciata di Mengistu e tradizionalmente in ruoli di potere, si è ritrovato in netta minoranza, rappresentando il 6 % della popolazione etiope. Il rifiuto del nuovo corso ha dato inizio a una crisi politica. Ahmed è salito alla ribalta per la pace con l’Eritrea di Isaias Afewerki, padrone del Paese dall’indipendenza dei primi anni Novanta, mentre nell’ombra covava lo scontro interno tra le varie anime del potere etiope.

 

La situazione è precipitata a fine 2020, quando Ahmed ha rinviato le elezioni legislative e regionali a causa della pandemia da Covid-19, scatenando la reazione del TPLF, già cacciato dai posti di comando e stretto tra il governo centralista oromo e l’Eritrea storica avversaria di Makallé.

 

Debretsion Gebremichael, presidente del TPLF, ha rigettato la decisione e indetto elezioni locali a settembre, considerate nulle da Addis Abeba. Lo scontro è andato acuendosi fino al 4 novembre 2020, quando a seguito di un presunto attacco contro forze federali in territorio tigrino l’esercito etiope ha iniziato quella che Ahmed ha definito “poco più di un’operazione di polizia”.

 

Lo scenario militare

 

Le Forze di Difesa Nazionali Etiopi (ENDF) sono il punto di riferimento militare nella regione, impiegate sia in Somalia che in Sudan e dotate di equipaggiamento di provenienza prevalentemente russa, non certo moderno ma di pari livello con i plausibili avversari locali, eccezion fatta l’Egitto. L’Etiopia ha una lunga esperienza militare, dalla guerra contro l’Italia negli anni Trenta e Quaranta, contro la Somalia negli anni Settanta e contro l’Eritrea fino al 2018.

 

Il continuo impegno contro al-Shabab in Somalia ha fornito una buona esperienza nell’antiguerriglia, al prezzo di gravi e costanti perdite. Oltre alle forze federali, circa 150.000 uomini, ciascuno Stato ha la propria milizia su base prevalentemente etnica, al pari del TPLF tigrino. Le principali sono le milizie amhara e l’Oromo Liberation Front, il cui ruolo si vedrà essere rilevante.

 

I combattimenti hanno investito il Comando Nord, la cui sede è proprio a Makallé, e persistono voci contrastanti sulle strutture ancora sotto controllo federale o riconquistate dal TPLF. Il numero di militari tigrini che abbiano disertato per unirsi al proprio fronte etnico è sconosciuto, anche per la difficoltà di distinguere tra milizie e forze regolari. A oggi si può dire che il blitz con cui Abiy ha cercato di stroncare il TPLF in poco tempo è fallito, degenerando in una guerriglia che ha costretto il governo al ritiro e a mobilitare le milizie, con il rischio di spaccare l’Etiopia su faglie di odio etnico.

 

La reputazione militare del TPLF è stata conquistata sul campo, contro il regime comunista di Mengistu e ricoprendo ruoli di vertice per quasi trent’anni contro l’Eritrea. I membri stimati superano i duecentomila, solo una parte dei quali addestrata al combattimento ( Tigray Defence Forces), al comando di leader esperti e carismatici come Tsadkan Gebretensae, veterano della rivoluzione, estromesso dagli oromo e tornato alla guida delle forze tigrine.

 

Come per le altre milizie è disponibile un minimo parco veicoli, mentre l’assenza di qualunque capacità aerea non ha impedito di rivendicare l’abbattimento (negato da Addis Abeba) di alcuni velivoli federali. Il principale vantaggio del TPLF, comune a ogni forza che si opponga all’invasione del proprio territorio, è la perfetta conoscenza di una zona abitata da popolazioni amiche, oppresse dal governo centrale e a esso ostili.

 

L’Eritrea, retta da uno dei regimi più dispotici al mondo, mantiene un esercito di circa duecentomila uomini in ferma indefinita, tanto che la renitenza alla leva obbligatoria è uno dei principali motivi di emigrazione. Storicamente nemico dei tigrini, Isaias Afewerki ha a lungo negato la partecipazione di suoi militari nel conflitto, accusando anzi il TPLF del lancio di missili verso le città eritree.

 

A maggio 2021, a seguito delle denunce di varie ONG e delle Nazioni Unite, Ahmed ha annunciato un accordo con l’Eritrea per il ritiro delle forze straniere, con le quali non sembra essere stata messa in atto alcuna efficace collaborazione contro il TPLF. Secondo numerose accuse, gli eritrei sarebbero responsabili di gravi crimini contro la popolazione, incluso il massacro di centinaia di persone nella città di Axum.

 

 

Conseguenze interne e internazionali

 

Il fallimento di Ahmed nello schiacciare i tigrini è dovuto alla grave sottovalutazione dell’impresa, tentata con forze insufficienti su un altopiano che rappresenta un incubo logistico, abitato da popolazioni abituate a battersi. Buona parte dell’esercito etiope non ha potuto essere distolto dagli impegni in Somalia, in Sudan o al confine con l’Egitto, consentendo al TPLF di affrontare lo scontro in condizioni meno svantaggiose.

L’inaspettata resistenza ha trasformato una inevitabile disfatta militare in efficace guerriglia a lungo termine, costringendo il governo ha rivedere la propria politica e subire la condanna internazionale per le brutalità che una guerriglia civile comporta.

 

L’aspetto umanitario è complesso. Ahmed ha respinto le accuse di impedire gli aiuti, ma di fatto le strade sono chiuse e sulla regione è calato lo spettro della fame. La decisione di puntare sulle milizie etniche, per rinforzare l’esercito in difficoltà, potrebbe dare il via a scontri disgreganti sul modello jugoslavo, anche perché mentre gli oromo e gli amhara hanno risposto con entusiasmo, la componente somala nell’Ogaden, teatro di guerra a fine anni Settanta, ha negato ogni appoggio al governo etiope.

 

Sul piano internazionale la crisi si fa più pericolosa, in quanto sono molte le potenze interessate. L’Egitto, ostile verso Addis Abeba per il citato progetto fluviale, rincorre frequenti voci di guerra e verosimilmente sta sostenendo la resistenza, mentre le monarchie del Golfo sono favorevoli al governo, avendo mediato la pace con Asmara, e vedono di buon occhio la stabilizzazione centralista voluta da Ahmed, per investire in sicurezza sull’altra sponda del mar Rosso.

 

La Turchia sostiene l’Etiopia soprattutto per opposizione all’Egitto, con il quale è in crisi su tutti i fronti, dal Mediterraneo, alla Libia, allo scontro ideologico sulla Fratellanza musulmana. A livello globale, l’Etiopia rientra nelle Vie della Seta cinesi, con Pechino finanziatore della ferrovia Gibuti-Addis-Abeba per trasformare il Corno d’Africa in un perno commerciale e in futuro militare della propria espansione. Ovvio che guardi con preoccupazione alle imbarazzanti difficoltà che il governo sta incontrando nel sedare una rivolta locale.

 

Il principale interesse degli Stati Uniti, in questa regione e nel resto del mondo, è ormai il contenimento della Cina, entrambi presenti militarmente a Gibuti, ma Washington non può fare eccessive pressioni su Ahmed, avendone bisogno in Somalia e con la sterile mediazione con l’Egitto in corso. Per ultime l’Unione Europea, concentrata negli aiuti economici interni, lacerata dalla Brexit e litigiosa su migranti e diritti umani, e le Nazioni Unite, da cui partono accuse e appelli, ma sostanzialmente incapaci di incidere.

 

Se il governo etiope riuscirà a riprendere l’iniziativa e schiacciare il TPLF, come i rapporti di forza indurrebbero a credere, si assisterà a un esodo di massa per sfuggire alle violenze etniche, con il rischio concreto di coinvolgere nel conflitto l’Egitto e il Sudan, interessato da ondate di disperati in fuga e coinvolto in tensioni di confine nella regione di Al-Fashaga.

 

La coordinazione militare tra i due Paesi è sempre più stretta, con continue esercitazioni congiunte che simulano attacchi alle forze etiopi. Se il TPLF finisse per prevalere, come a oggi risulta, le conseguenze sul governo Ahmed e sulla tenuta stessa della federazione etiope sarebbero imprevedibili. In ciascun caso, una crisi lungo il corso del Nilo, dal mar Mediterraneo all’oceano Indiano, causerebbe un’immensa ondata migratoria verso l’Europa, con l’Italia in prima linea, peraltro già coinvolta essendo italiana la ditta che sta ultimando la costruzione della GERD.

 

Al momento, un’ipotesi diplomatica che disinneschi sia la guerra civile che i rischi di una guerra regionale sembra particolarmente improbabile. Solo alcuni dei fattori che dovrebbero indurre a prestare maggiore attenzione a un conflitto che ci riguarda molto da vicino.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Beltrami F., Etiopia, la Somali Region rifiuta la mobilitazione contro il Tigray. Abiy sempre più solo, “Focusonafrica.info”, 19 luglio 2021.

Bonini C., Del Re P., Pertici L., La guerra dell’acqua, “Repubblica.it”, 25 luglio 2021.

Casola C., Corno d’Africa. Etiopia: la dimensione regionale del conflitto in Tigray, “Ispionline.it”, 18 novembre 2020.

Del Re P., Tigray, lo stratega ribelle che ha sconfitto due volte l’esercito di Addis Abeba, “Repubblica.it”, 2 luglio 2021.

Marshall T., Il potere delle mappe. Le 10 aree cruciali per il futuro del nostro pianeta, Garzanti, Milano 2021.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]