N. 34 - Ottobre 2010
(LXV)
"ET IN TERRA PAX"
Il cinema indipendente fa parlare di sé
di Leila Tavi
Questo mese InStoria
ha
intervistato
i
registi
Matteo
Botrugno
e
Daniele
Coluccini,
che
hanno
esordito
alla
67.
edizione
del
Festival
di
Venezia
con
la
loro
opera
prima
Et
in
terra
pax
nella
sezione
delle
Giornate
degli
autori.
Si tratta di un film in
cui
la
periferia
romana
è il
luogo
che
fa
scenario
al
vuoto
esistenziale
giovanile.
Senza esprimere giudizi
morali
sulla
condizione
sociale
del
disagio
giovanile,
i
due
giovani
registi
romani
narrano
la
storia
di
Marco,
interpretato
da
Maurizio
Tesei,
che
dopo
aver
trascorso
cinque
anni
in
prigione,
ritorna
al
Corviale
cercando
di
condurre
una
vita
“normale”,
lontano
da
quegli
ambienti
criminali
in
cui
è
cresciuto.
Fallito però ogni suo
tentativo
di
vivere
nella
legalità,
torna
a
spacciare
cocaina
su
una
panchina
davanti
a
casa
sua.
Da
quella
panchina,
con
l’opprimente
ombra
del
Serpentone
alle
sue
spalle,
passa
tutto
il
giorno
aspettando
che
i
clienti
gli
si
avvicinino
e
nelle
lunghe
attese
osserva
gli
abitanti
del
suo
quartiere
come
se
li
vedesse
per
la
prima
volta.
Attraverso la scoperta
dell’alterità
all’interno
di
quello
che
può
sembrare
un
gruppo
omogeneo
di
persone,
inizia
un
viaggio
dentro
se
stesso
alla
ricerca
della
sua
identità.
Un
giorno
si
siede
accanto
a
lui
sulla
panchina
Sonia,
interpretata
da
Ughetta
D’onorascenzo,
una
studentessa
che
vive
con
sua
nonna
ed è
alla
ricerca
di
un
lavoro
per
avere
qualche
guadagno.
I loro destini s’intrecceranno
drammaticamente
con
quelli
di
un
inseparabile
trio:
Faustino,
interpretato
da
Michele
Botrugno,
Federico,
interpretato
da
Fabio
Gomiero,
e
Massimo
detto
il
Nigger,
interpretato
da
Germano
Gentile,
che
passano
il
tempo
scorazzando
con
i
loro
motorini
nel
quartiere.
Questi tre ragazzi così
diversi
tra
loro,
si
muovono
sempre
in
simbiosi,
nell’omologazione
del
gruppo,
fino
a
che
l’essere
concepito
come
branco
li
porterà
a
commettere
un
grave
reato.
1)
Nel
vostro
film
la
borgata
diventa
“isola”;
ovvero
un
luogo
omologante,
evidentemente
isolato,
ma
allo
stesso
tempo
rassicurante,
protettivo.
Nell’isolamento
i
giovani
si
ritrovano,
si
coalizzano,
fanno
branco
pur
nelle
loro
differenze.
Perché?
Metaforicamente l’isola
e la
solitudine
del
Corviale
accompagnano
le
storie
dei
personaggi
attraverso
un
racconto
che
mette
in
risalto
l’aspetto
esistenziale
e
non
sociale
dell’isolamento
nelle
periferie.
Dal punto di vista sociale
i
pezzi
di
cemento
della
periferia,
il
palazzo
del
Serpentone,
la
piazzetta
costituiscono
una
specie
di
recinto,
uno
spazio
di
aggregazione
coatta,
dove
i
ragazzi
fanno
sì
gruppo,
ma
si
isolano
dai
ragazzi
di
altri
quartieri;
trovano
la
loro
forza
nel
il
gruppo
e
non
in
se
stessi.
Per
fare
un
esempio:
il
trio
pippa,
dice
parolaccie;
da
questo
modo
di
essere
trae
la
propria
forza;
dal
momento
in
cui
si
dividono
succede
un
casino
perché
l’equilibrio
precario,
quel
sottile
filo
che
li
legava,
viene
a
mancare
ed è
per
questo
che
poi
emerge
la
solitudine
dell’individuo.
La piazzetta porta a non
pensare
alla
propria
individualità,
mentre
Marco,
nella
solitudine
della
sua
panchina,
riesce
finalmente
a
pensare
alla
sua
condizione,
non
come
sociale,
ma
come
metafisica.
Quella
dei
ragazzi
del
trio
è
una
condizione
non
solo
dei
giovani
di
periferia;
lo
stesso
centro
può
essere
considerato
un’isola,
la
stessa
borghesia.
Abbiamo ritenuto interessante
tracciare
uno
scorcio
di
vita
periferica
romana
perché
nel
cinema
ultimamente
si è
persa
l’abitudine
di
raccontare
una
certa
società.
Ci
piace
pensare
che
il
nostro
film
parli
di
un
uomo
che
osserva
la
realtà
nella
sua
solitudine.
Questo
è un
tema
che
dà
grande
forza
comunicativa
al
cinema,
una
forza
che
a
noi
piace.
Ultimamente
di
storie
del
genere
ambientate
a
Napoli
ne
abbiamo
viste,
ma
era
tanto
tempo
che
non
si
raccontava
una
storia
di
disagio
ambientata
a
Roma.
2)
Quali
sono
le
difficoltà
dal
punto
di
vista
artistico
che
avete
incontrato
a
rappresentare
la
realtà
dei
giovani
che
crescono
ai
margini
della
società?
Non abbiamo avuto difficoltà,
conoscevano
delle
persone
che
abitavano
a
Corviale.
Abbiamo
voluto
dare
due
linee
guida:
da
una
parte
il
disagio
esistenziale,
dall’altro
la
vita
in
periferia.
Non solo non abbiamo
incontrato
difficoltà
“artistiche”,
non
abbiamo
avuto
nessun
tipo
di
difficoltà,
soprattutto
durante
le
riprese,
con
gli
abitanti
del
quartiere;
abbiamo
girato
senza
dar
fastidio
a
nessuno
e
crediamo
di
essere
riusciti
a
rappresentare
una
piccola
parte
di
tale
realtà.
La
violenza,
la
criminalità,
gli
stupri
ci
sono
dappertutto,
non
solo
in
periferia.
Ci teniamo a ribadire
poi
che
si
tratta
di
un
film,
non
di
un
documentario.
Abbiamo
scelto
di
utilizzare
il
dialetto
romano
nei
dialoghi
per
aumentare
la
veridicità.
Et
in
terra
pax
è un
film
di
finzione
con
un
linguaggio
reale.
Anche
se
avessimo
deciso
di
girare
un
film
in
cui
gli
alieni
scendono
a
Tor
Bella
Monaca
avremmo
utilizzato
il
romanaccio.
3)
Invece
quali
sono
state
le
difficoltà
nella
regia
a
quattro
mani?
Avete
esordito
nel
2007
con
il
corto
Chrysalis,
a
cui
poi
sono
seguiti
Europa
e
Sisifo,
che
fanno
tutti
parti
della
stessa
trilogia.
Come
è
nato
il
progetto
di
Et
in
terra
pax?
Noi ci conosciamo da
quando
avevamo
cinque
anni,
dunque
da
venticinque
anni.
Siamo
andati
a
scuola
insieme
e la
passione
per
il
cinema
ci
ha
uniti.
Abbiamo
iniziato
facendo
critica
cinematografica,
poi
abbiamo
deciso
di
scrivere
cose
nostre.
Dirigere a quattro mani
per
noi
non
è
difficile,
lavoriamo
molto
nella
fase
di
pre-produzione
e
arriviamo
preparati
sul
set.
Il
nostro
lavoro
è il
compromesso
tra
le
scelte
di
ognuno
di
noi.
A
volte
la
critica,
a
torto,
non
dà
alla
co-regia
lo
stesso
valore
di
una
regia
individuale.
Il nostro lavoro è il
frutto
dell’unione
di
tre
teste
nella
fase
di
scrittura,
insieme
al
nostro
co-sceneggiatore
Andrea
Esposito,
e di
due
nella
fase
delle
riprese.
Certo
nel
nostro
caso
tutti
gli
anni
trascorsi
insieme
fanno
la
differenza.
4)
Avete
dichiarato
che
nel
vostro
film
la
ricerca
di
un
altrove
indefinibile
è
una
tematica
centrale,
come
concretamente
i
personaggi
ricercano
al
di
là
dei
confini
della
loro
periferia?
Esemplificativa è la
scena
della
panchina
in
cui
il
protagonista
Marco
è lì
per
spacciare
invece
Sonia
attacca
bottone
con
lui,
così,
per
un
semplice
interesse
verso
il
ragazzo.
Marco
comincia
a
descrivere
a
Sonia
quello
che
ha
davanti
e le
descrive
quello
che
la
ragazza
vede
ma
non
riesce
a
guardare
veramente.
L’altrove è indefinibile,
perché
al
di
là
della
collina
che
si
erge
davanti
al
Serpentone
Marco
e
Sonia
non
possono
vedere.
L’altrove
per
loro
è un
qualcosa
di
cui
si
ha
la
percezione,
si
sa
che
c’è
ma
non
si
riesce
a
vedere;
tutto
questo
è la
metafora
di
come
quei
ragazzi
non
riescano
a
uscire
dalla
loro
condizione,
nonostante
provino,
se
pur
a
modo
loro,
se
pur
in
modo
sbagliato,
a
farlo.
Alcune
battute
sono
emblematiche,
quando
si
fa
menzione
al
“soldo
facile”,
all’evasione,
allo
“scopare”.
Pensiamo poi a Federico,
il
ragazzo
delle
marchette,
a
tutte
le
volte
che
esce
dal
quartiere
e va
a
mangiare
nei
ristoranti
di
lusso
a
Prati,
finge
di
essere
qualcun
altro,
ma
poi
il
suo
essere
“coatto”
di
periferia
prevale,
lo
rende
sicuro
di
sé,
il
gruppo
è la
condizione
in
cui
si
cela
per
non
rivelare
il
suo
vero
essere.
I ragazzi del trio ripropongono
un
modello
stereotipato
imposto
dalla
televisione:
pensare
di
essere
migliore
a
tutti
i
costi,
uscire
dalla
condizione
per
essere
modello
rappresentato.
La realtà però ti riporta
a
essere
quello
che
sei
nella
quotidianità
dei
gesti
familiari,
nella
ripetitiva
consuetudine.
Marco,
nella
scena
finale,
ricorda
ai
suoi
ex
compari
Glauco
e
Mauro
che
la
spirale
d’isolamento
di
cui
sono
prigionieri
loro
tutti
nel
quartiere
segnerà
il
destino
dei
loro
figli
e
dei
figli
dei
loro
figli,
che
faranno
la
loro
stessa
fine.
5)
Perché
questa
ricerca
dell’identità
li
porta
a
rifugiarsi
nella
solitudine?
E
perché,
cito
le
vostre
parole,
“il
non
agire
è
una
via
di
fuga
o un
atto
d’impotenza”?
La loro ricerca dell’identità
avviene
in
un
certo
senso
in
modo
“sbagliato”:
alcuni
di
loro
ricercano
il
soldo,
altri
la
cocaina,
altri
ancora
un
lavoro
per
rendersi
indipendente.
In fondo è solo un insieme
di
scelte
condizionate
da
tanti
agenti
esterni,
non
è
una
ricerca
individuale,
profonda,
ma
esterna,
di
forma.
Le
caratteristiche
autentiche
dei
personaggi
escono
fuori
quando
non
dovrebbero
e
con
conseguenze
drammatiche.
6)
Nel
vostro
film
manca
la
tensione
tra
etnie
diverse;
non
si
racconta
di
scontri
come
nelle
banlieue
parigine,
nel
quartiere
turco
Kreuzberg
di
Berlino,
nelle
città
governate
dalla
Lega
Nord.
Forse
perché
nella
Roma
multiculturale
è
più
facile
integrarsi
anche
in
periferia?
La visione utopica della
Lega
della
paura
dell’integrazione
si
fonda
sul
nulla.
Il
nostro
mondo
è
già
multiculturale.
Da
noi
questo
fenomeno
è
tardato
ad
arrivare,
ma
adesso
c’è
e
non
possiamo
ignorarlo.
L’unica cosa che si può
fare
è
cercare
di
mantenere
l’ordine
e la
legalità.
Sempre
tornando
al
film,
per
noi
mettere
un
ragazzo
“afro-italiano”
nel
trio
è
stata
una
scelta
naturale,
è
nella
realtà
delle
cose,
è
veritiero.
Molti operai sono di
origine
straniera
ma
italiani
a
tutti
gli
effetti.
La
legalità
va
mantenuta
indipendente
dalla
provenienza
e
dalla
nazionalità.
Le
idee
della
Lega
sono
anacronistiche
è
non
avranno
futuro.
La
storia
e la
realtà
lo
dicono.
Ogni uomo messo in condizioni
di
essere
come
gli
altri,
con
pari
dignità,
vive
bene,
ma
nel
momento
in
cui
mancano
questi
presupposti
le
persone
si
ribellano
e
non
accettano
di
essere
cittadini
di
seconda
classe.
È
uno
scenario
complesso;
noi
non
siamo
dei
sociologi,
il
nostro
sguardo
è
diverso,
ma
riconosciamo
che
se
ci
sono
problematiche
legate
all’integrazione
è
perché
non
è
effettiva.
Nel film si evince che
tra
i
ragazzi
non
c’è
razzismo
e
discriminazione
nei
confronti
di
Massimo
il
Nigger.
Sono
dei
ragazzi
di
borgata,
abituati
a
sottolineare
delle
caratteristiche
fisiche
con
apprezzamenti
pesanti
o
battute
goliardiche,
ma
tutto
questo
è
frutto
della
loro
spontaneità,
non
c’è
mai
un
razzismo
sottointeso.
Le nuove generazioni si
troveranno
meglio
perché
i
bambini
frequentano
scuole
con
classi
multiculturali.
La
società
fa
il
suo
corso
perché
la
storia
la
porta
ad
avere
quel
corso.
Dobbiamo
accettare
una
società
in
cui
tutti
sono
rispettati
e
possano
sentirsi
accettati.
Un
utopia?
7)
Il
cinema
italiano
vive
ormai
una
crisi
perenne.
Cosa
ha
dato
a
voi
il
coraggio
e
l’entusiasmo
per
poter
fare
un
film
nonostante
la
vostra
giovanissima
età,
la
grande
distribuzione
che
ignora
la
maggior
parte
dei
bei
film
italiani,
il
forse
ancora
per
poco
Ministro
dei
Beni
Culturali
che
tenta
di
crearsi
una
sorta
di
longa
manus
per
il
controllo
sul
cinema
italiano
e,
dulcis
in
fundo,
nonostante
si
sia
diffusa
tra
gli
spettatori
italiani
la
scostumata
abitudine
di
andare
al
cinema
in
massa
solo
per
gli
squallidi
cinepanettoni?
Qual
è la
forza
del
vostro
film?
Questo è l’anacronismo
di
cui
parlavamo
prima.
Il
Festival
di
Venezia
è
nato
durante
il
fascismo
perché
Mussolini
aveva
intuito
la
grande
forza
propagandistica
del
cinema,
così
alla
prima
edizione
furono
premiati
solo
film
italiani
o
tedeschi,
con
l’eccezione
di
un
film
francese
pro
regime.
Vogliamo tornare a quei
tempi?
Quel
è
stata
la
nostra
forza?
La
voglia,
la
volontà
e la
testa
dura
come
un
sanpietrino
e il
fregarcene
di
tutto
quello
che
succedeva
intorno
a
noi.
Le proiezioni che abbiamo
fatto
al
Farnese
di
Roma
e a
Milano
hanno
dimostrato
che
il
pubblico
c’è.
Ci
sono
persone
che
manifestano
per
i
diritti
del
cinema
e
poi
si
ritrovano
assoggettati
a un
certo
tipo
di
cinema.
Vero
è
che,
più
soldi
ci
sono
e
meno
si è
liberi.
Noi abbiamo semplicemente
guardato
alla
nostra
idea,
al
suo
valore
comunicativo,
e
abbiamo
smesso
di
guardare
agli
altri,
a
chi
va a
vedere
i
cinepanettoni.
Questa
voglia
ci
ha
dato
ragione,
magari
non
ci
siamo
arricchiti
ma
questo
film
ci
ha
dato
soddisfazioni:
a
cominciare
dal
fatto
che
abbiamo
girato
con
la
RED
ONE
Camera,
il
digitale
d’alta
definizione.
Poi
avere
una
storia,
magari
non
originale,
ma
forte,
probabilmente
è
stato
il
punto
di
forza.
La produzione esecutiva
del
film
è
stata
della
Kimerafilm,
nata
per
iniziativa
di
studenti
del
Centro
Sperimentale
di
Cinematografia;
dopo
il
nostro
film
molti
si
sono
rivolti
a
loro
per
proporre
film
no
budget
e
low
budget,
abbiamo
fatto
scuola
in
un
certo
senso.
Infine volevamo dimostrare
a
noi
stessi
in
primis
e
poi
agli
altri
che,
a
prescindere
da
Bondi,
un
altro
cinema
è
possibile.
Al
nostro
studio
di
montaggio
sono
contenti
che
ci
siano
i
cinepanettoni,
perché
così
hanno
i
soldi
per
poter
fare
poi
produzioni
come
le
nostre,
con
cui
guadagnano
pochino.
È importate saper riconoscere
quando
un
progetto
ha
valore
artistico
e
sociale,
sia
se
faccia
incassi
al
botteghino
o
no.
Ci
vorrebbe
una
normativa
più
equa,
invece
con
la
legge
attuale
si
finanziano
produzioni
che
già
hanno
soldi
e
non
se
ne
danno
a
chi
ne
avrebbe
bisogno.
8)
Qual
è
stata
la
reazione
all’estero?
Il
film
è
stato
selezionato
per
altri
festival?
Ci
sono
distributori
interessati?
Il Festival internazionale
del
cinema
di
Tokyo,
che
si
svolgerà
a
fine
ottobre,
ci
ha
selezionati
come
unico
film
in
rappresentanza
dell’Italia,
mentre
non
abbiamo
trovato
una
distribuzione
nazionale
e ci
toccherà
fare
l’auto-distribuzione,
cinema
per
cinema.
L’essere stati accettati
da
un
Festival
internazionale
di
enormi
dimensioni
ci
fa
capire
che
il
nostro
lavoro,
che
ha
riscosso
anche
in
Italia
un
discreto
successo
nelle
sale,
è un
prodotto
che
va
bene
anche
per
l’estero.
9)
E
nel
futuro
prossimo?
Avete
dei
progetti
in
cantiere?
Proprio in questo esatto
momento
stiamo
lavorando
insieme
al
nostro
co-sceneggiatore
per
i
prossimi
due
o
tre
progetti
da
presentare
in
primis
al
nostro
produttore
Gianluca
Arcopinto
e
poi
ad
altri.
I nostri progetti futuri
richiedono
uno
sforzo
produttivo
maggiore
di
Et
in
terra
pax
e
noi
speriamo
vivamente
di
poter
dar
modo
a
chi
lavora
di
avere
un
riscontro
economico.
Dopo
un
anno
e
mezzo
di
duro
lavoro
piacerebbe
anche
a
noi
poter
pagare
le
bollette.