.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

.

attualità


N. 34 - Ottobre 2010 (LXV)

"ET IN TERRA PAX"
Il cinema indipendente fa parlare di sé

di Leila Tavi

 

Questo mese InStoria ha intervistato i registi Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, che hanno esordito alla 67. edizione del Festival di Venezia con la loro opera prima Et in terra pax nella sezione delle Giornate degli autori.

 

Si tratta di un film in cui la periferia romana è il luogo che fa scenario al vuoto esistenziale giovanile.

 

Senza esprimere giudizi morali sulla condizione sociale del disagio giovanile, i due giovani registi romani narrano la storia di Marco, interpretato da Maurizio Tesei, che dopo aver trascorso cinque anni in prigione, ritorna al Corviale cercando di condurre una vita “normale”, lontano da quegli ambienti criminali in cui è cresciuto.

 

Fallito però ogni suo tentativo di vivere nella legalità, torna a spacciare cocaina su una panchina davanti a casa sua. Da quella panchina, con l’opprimente ombra del Serpentone alle sue spalle, passa tutto il giorno aspettando che i clienti gli si avvicinino e nelle lunghe attese osserva gli abitanti del suo quartiere come se li vedesse per la prima volta.

 

Attraverso la scoperta dell’alterità all’interno di quello che può sembrare un gruppo omogeneo di persone, inizia un viaggio dentro se stesso alla ricerca della sua identità. Un giorno si siede accanto a lui sulla panchina Sonia, interpretata da Ughetta D’onorascenzo, una studentessa che vive con sua nonna ed è alla ricerca di un lavoro per avere qualche guadagno.

 

I loro destini s’intrecceranno drammaticamente con quelli di un inseparabile trio: Faustino, interpretato da Michele Botrugno, Federico, interpretato da Fabio Gomiero, e Massimo detto il Nigger, interpretato da Germano Gentile, che passano il tempo scorazzando con i loro motorini nel quartiere.

 

Questi tre ragazzi così diversi tra loro, si muovono sempre in simbiosi, nell’omologazione del gruppo, fino a che l’essere concepito come branco li porterà a commettere un grave reato.

 

1)            Nel vostro film la borgata diventa “isola”; ovvero un luogo omologante, evidentemente isolato, ma allo stesso tempo rassicurante, protettivo. Nell’isolamento i giovani si ritrovano, si coalizzano, fanno branco pur nelle loro differenze. Perché?

 

Metaforicamente l’isola e la solitudine del Corviale accompagnano le storie dei personaggi attraverso un racconto che mette in risalto l’aspetto esistenziale e non sociale dell’isolamento nelle periferie.

 

Dal punto di vista sociale i pezzi di cemento della periferia, il palazzo del Serpentone, la piazzetta costituiscono una specie di recinto, uno spazio di aggregazione coatta, dove i ragazzi fanno sì gruppo, ma si isolano dai ragazzi di altri quartieri; trovano la loro forza nel il gruppo e non in se stessi. Per fare un esempio: il trio pippa, dice parolaccie; da questo modo di essere trae la propria forza; dal momento in cui si dividono succede un casino perché l’equilibrio precario, quel sottile filo che li legava, viene a mancare ed è per questo che poi emerge la solitudine dell’individuo.

 

La piazzetta porta a non pensare alla propria individualità, mentre Marco, nella solitudine della sua panchina, riesce finalmente a pensare alla sua condizione, non come sociale, ma come metafisica. Quella dei ragazzi del trio è una condizione non solo dei giovani di periferia; lo stesso centro può essere considerato un’isola, la stessa borghesia.

 

Abbiamo ritenuto interessante tracciare uno scorcio di vita periferica romana perché nel cinema ultimamente si è persa l’abitudine di raccontare una certa società. Ci piace pensare che il nostro film parli di un uomo che osserva la realtà nella sua solitudine. Questo è un tema che dà grande forza comunicativa al cinema, una forza che a noi piace. Ultimamente di storie del genere ambientate a Napoli ne abbiamo viste, ma era tanto tempo che non si raccontava una storia di disagio ambientata a Roma.

 

 

2)            Quali sono le difficoltà dal punto di vista artistico che avete incontrato a rappresentare la realtà dei giovani che crescono ai margini della società?

 

Non abbiamo avuto difficoltà, conoscevano delle persone che abitavano a Corviale. Abbiamo voluto dare due linee guida: da una parte il disagio esistenziale, dall’altro la vita in periferia.

 

Non solo non abbiamo incontrato difficoltà “artistiche”, non abbiamo avuto nessun tipo di difficoltà, soprattutto durante le riprese, con gli abitanti del quartiere; abbiamo girato senza dar fastidio a nessuno e crediamo di essere riusciti a rappresentare una piccola parte di tale realtà. La violenza, la criminalità, gli stupri ci sono dappertutto, non solo in periferia.

 

Ci teniamo a ribadire poi che si tratta di un film, non di un documentario. Abbiamo scelto di utilizzare il dialetto romano nei dialoghi per aumentare la veridicità. Et in terra pax è un film di finzione con un linguaggio reale. Anche se avessimo deciso di girare un film in cui gli alieni scendono a Tor Bella Monaca avremmo utilizzato il romanaccio.

 

3)            Invece quali sono state le difficoltà nella regia a quattro mani? Avete esordito nel 2007 con il corto Chrysalis, a cui poi sono seguiti Europa e Sisifo, che fanno tutti parti della stessa trilogia. Come è nato il progetto di Et in terra pax?

 

Noi ci conosciamo da quando avevamo cinque anni, dunque da venticinque anni. Siamo andati a scuola insieme e la passione per il cinema ci ha uniti. Abbiamo iniziato facendo critica cinematografica, poi abbiamo deciso di scrivere cose nostre.

 

Dirigere a quattro mani per noi non è difficile, lavoriamo molto nella fase di pre-produzione e arriviamo preparati sul set. Il nostro lavoro è il compromesso tra le scelte di ognuno di noi. A volte la critica, a torto, non dà alla co-regia lo stesso valore di una regia individuale.

 

Il nostro lavoro è il frutto dell’unione di tre teste nella fase di scrittura, insieme al nostro co-sceneggiatore Andrea Esposito, e di due nella fase delle riprese. Certo nel nostro caso tutti gli anni trascorsi insieme fanno la differenza.

 

4)            Avete dichiarato che nel vostro film la ricerca di un altrove indefinibile è una tematica centrale, come concretamente i personaggi ricercano al di là dei confini della loro periferia?

 

Esemplificativa è la scena della panchina in cui il protagonista Marco è lì per spacciare invece Sonia attacca bottone con lui, così, per un semplice interesse verso il ragazzo. Marco comincia a descrivere a Sonia quello che ha davanti e le descrive quello che la ragazza vede ma non riesce a guardare veramente.

 

L’altrove è indefinibile, perché al di là della collina che si erge davanti al Serpentone Marco e Sonia non possono vedere. L’altrove per loro è un qualcosa di cui si ha la percezione, si sa che c’è ma non si riesce a vedere; tutto questo è la metafora di come quei ragazzi non riescano a uscire dalla loro condizione, nonostante provino, se pur a modo loro, se pur in modo sbagliato, a farlo. Alcune battute sono emblematiche, quando si fa menzione al “soldo facile”, all’evasione, allo “scopare”.

 

Pensiamo poi a Federico, il ragazzo delle marchette, a tutte le volte che esce dal quartiere e va a mangiare nei ristoranti di lusso a Prati, finge di essere qualcun altro, ma poi il suo essere “coatto” di periferia prevale, lo rende sicuro di sé, il gruppo è la condizione in cui si cela per non rivelare il suo vero essere.

 

I ragazzi del trio ripropongono un modello stereotipato imposto dalla televisione: pensare di essere migliore a tutti i costi, uscire dalla condizione per essere modello rappresentato.

 

La realtà però ti riporta a essere quello che sei nella quotidianità dei gesti familiari, nella ripetitiva consuetudine. Marco, nella scena finale, ricorda ai suoi ex compari Glauco e Mauro che la spirale d’isolamento di cui sono prigionieri loro tutti nel quartiere segnerà il destino dei loro figli e dei figli dei loro figli, che faranno la loro stessa fine.

 

5)            Perché questa ricerca dell’identità li porta a rifugiarsi nella solitudine? E perché, cito le vostre parole, “il non agire è una via di fuga o un atto d’impotenza”?

 

La loro ricerca dell’identità avviene in un certo senso in modo “sbagliato”: alcuni di loro ricercano il soldo, altri la cocaina, altri ancora un lavoro per rendersi indipendente.

 

In fondo è solo un insieme di scelte condizionate da tanti agenti esterni, non è una ricerca individuale, profonda, ma esterna, di forma. Le caratteristiche autentiche dei personaggi escono fuori quando non dovrebbero e con conseguenze drammatiche.

 

6)            Nel vostro film manca la tensione tra etnie diverse; non si racconta di scontri come nelle banlieue parigine, nel quartiere turco Kreuzberg di Berlino, nelle città governate dalla Lega Nord. Forse perché nella Roma multiculturale è più facile integrarsi anche in periferia?

 

La visione utopica della Lega della paura dell’integrazione si fonda sul nulla. Il nostro mondo è già multiculturale. Da noi questo fenomeno è tardato ad arrivare, ma adesso c’è e non possiamo ignorarlo.

 

L’unica cosa che si può fare è cercare di mantenere l’ordine e la legalità. Sempre tornando al film, per noi mettere un ragazzo “afro-italiano” nel trio è stata una scelta naturale, è nella realtà delle cose, è veritiero.

 

Molti operai sono di origine straniera ma italiani a tutti gli effetti. La legalità va mantenuta indipendente dalla provenienza e dalla nazionalità. Le idee della Lega sono anacronistiche è non avranno futuro. La storia e la realtà lo dicono.

 

Ogni uomo messo in condizioni di essere come gli altri, con pari dignità, vive bene, ma nel momento in cui mancano questi presupposti le persone si ribellano e non accettano di essere cittadini di seconda classe. È uno scenario complesso; noi non siamo dei sociologi, il nostro sguardo è diverso, ma riconosciamo che se ci sono problematiche legate all’integrazione è perché non è effettiva.

 

Nel film si evince che tra i ragazzi non c’è razzismo e discriminazione nei confronti di Massimo il Nigger. Sono dei ragazzi di borgata, abituati a sottolineare delle caratteristiche fisiche con apprezzamenti pesanti o battute goliardiche, ma tutto questo è frutto della loro spontaneità, non c’è mai un razzismo sottointeso.

 

Le nuove generazioni si troveranno meglio perché i bambini frequentano scuole con classi multiculturali. La società fa il suo corso perché la storia la porta ad avere quel corso. Dobbiamo accettare una società in cui tutti sono rispettati e possano sentirsi accettati. Un utopia?

 

7)            Il cinema italiano vive ormai una crisi perenne. Cosa ha dato a voi il coraggio e l’entusiasmo per poter fare un film nonostante la vostra giovanissima età, la grande distribuzione che ignora la maggior parte dei bei film italiani, il forse ancora per poco Ministro dei Beni Culturali che tenta di crearsi una sorta di longa manus per il controllo sul cinema italiano e, dulcis in fundo, nonostante si sia diffusa tra gli spettatori italiani la scostumata abitudine di andare al cinema in massa solo per gli squallidi cinepanettoni? Qual è la forza del vostro film?

 

Questo è l’anacronismo di cui parlavamo prima. Il Festival di Venezia è nato durante il fascismo perché Mussolini aveva intuito la grande forza propagandistica del cinema, così alla prima edizione furono premiati solo film italiani o tedeschi, con l’eccezione di un film francese pro regime.

 

Vogliamo tornare a quei tempi? Quel è stata la nostra forza? La voglia, la volontà e la testa dura come un sanpietrino e il fregarcene di tutto quello che succedeva intorno a noi.

 

Le proiezioni che abbiamo fatto al Farnese di Roma e a Milano hanno dimostrato che il pubblico c’è. Ci sono persone che manifestano per i diritti del cinema e poi si ritrovano assoggettati a un certo tipo di cinema. Vero è che, più soldi ci sono e meno si è liberi.

 

Noi abbiamo semplicemente guardato alla nostra idea, al suo valore comunicativo, e abbiamo smesso di guardare agli altri, a chi va a vedere i cinepanettoni. Questa voglia ci ha dato ragione, magari non ci siamo arricchiti ma questo film ci ha dato soddisfazioni: a cominciare dal fatto che abbiamo girato con la RED ONE Camera, il digitale d’alta definizione. Poi avere una storia, magari non originale, ma forte, probabilmente è stato il punto di forza.

 

La produzione esecutiva del film è stata della Kimerafilm, nata per iniziativa di studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia; dopo il nostro film molti si sono rivolti a loro per proporre film no budget e low budget, abbiamo fatto scuola in un certo senso.

 

Infine volevamo dimostrare a noi stessi in primis e poi agli altri che, a prescindere da Bondi, un altro cinema è possibile. Al nostro studio di montaggio sono contenti che ci siano i cinepanettoni, perché così hanno i soldi per poter fare poi produzioni come le nostre, con cui guadagnano pochino.

 

È importate saper riconoscere quando un progetto ha valore artistico e sociale, sia se faccia incassi al botteghino o no. Ci vorrebbe una normativa più equa, invece con la legge attuale si finanziano produzioni che già hanno soldi e non se ne danno a chi ne avrebbe bisogno.

 

8)            Qual è stata la reazione all’estero? Il film è stato selezionato per altri festival? Ci sono distributori interessati?

 

Il Festival internazionale del cinema di Tokyo, che si svolgerà a fine ottobre, ci ha selezionati come unico film in rappresentanza dell’Italia, mentre non abbiamo trovato una distribuzione nazionale e ci toccherà fare l’auto-distribuzione, cinema per cinema.

 

L’essere stati accettati da un Festival internazionale di enormi dimensioni ci fa capire che il nostro lavoro, che ha riscosso anche in Italia un discreto successo nelle sale, è un prodotto che va bene anche per l’estero.

 

9)            E nel futuro prossimo? Avete dei progetti in cantiere?

 

Proprio in questo esatto momento stiamo lavorando insieme al nostro co-sceneggiatore per i prossimi due o tre progetti da presentare in primis al nostro produttore Gianluca Arcopinto e poi ad altri.

 

I nostri progetti futuri richiedono uno sforzo produttivo maggiore di Et in terra pax e noi speriamo vivamente di poter dar modo a chi lavora di avere un riscontro economico. Dopo un anno e mezzo di duro lavoro piacerebbe anche a noi poter pagare le bollette.


 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.