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N. 10 - Ottobre 2008 (XLI)

RICORDANDO L'ESTATE ROMANA
I DUPLICI VOLTI DI ROMA

di Renato Nicolini

 

Roma è una città duplice, nel segno di Giano. Una faccia rivolta al passato, un’altra al futuro. Due facce possono diventare pesanti, soprattutto se, più che strabiche, sono addirittura opposte. L’antidoto è la leggerezza. Roma dà il meglio di sé quando non siede sopra la propria identità, ma si abbandona imprevedibile alle emozioni che può suscitare. Edmond About, un viaggiatore francese che visitò Roma nel 1861, ha ben descritto (in un delizioso resoconto di viaggio, Roma contemporanea), le sorprese che l’inesauribile cornucopia di Roma rovesciava sul visitatore.

 

Ci si avventurava per i vicoli del fitto tessuto urbano che ricopriva i Fori Imperiali, misere casupole, povera gente, ed ecco comparire improvvise le volte della Basilica di Massenzio! Una città predisposta, prima ancora che questa venisse concepita e teorizzata, per la derive surrealista, per la sensibilità delle avanguardie del Novecento, così come era già stato per Raffaello e la sensibilità umanistica. 

Anche nelle avventure artistiche che stimola e favorisce Roma è duplice. Piranesi ha colto nel segno quando ha parlato del “paragone tra gli antichi ed i moderni”. Ogni architettura che voglia essere moderna a Roma deve misurarsi con l’inattesa modernità dell’antico. Antico e moderno a Roma sono concetti così intrecciati che Louis I. Kahn, secondo me il più grande architetto del Novecento, ha scoperto il suo inconfondibile linguaggio architettonico dopo un soggiorno all’Accademia Americana del Gianicolo nel 1950, disegnando e studiando l’architettura romana e meditando su Villa Adriana.

Confesso che ho pensato proprio ai vagabondaggi di About (ed un po’ anche alle mie estati a Roma, in cui mi cominciavo ad avventurarmi fuori del quartiere in cui vivevo, Prati, in quegli anni Cinquanta in cui le vacanze scolastiche sembravano interminabili, durando da giugno a settembre), quando ho scelto la Basilica di Massenzio per la prima delle mie “estati romane” – nel 1977.

Bisognava fare tutto il contrario di quello che avevano tentato di fare Mussolini, Bottai, Ricci e Munoz, con l’invenzione di via dell’Impero. Altro che affermare con colossali scenografie urbane la continuità metastoria tra l’antica Roma dei Cesari e degli imperatori, ed il nostro presente! Il fascino di Roma contemporanea risiede proprio nel contrasto irriducibile con la Roma antica. L’occhio del cinema si accende e trasforma il monumento imperiale nell’“arena più bella del mondo”.

Il “monumento” non si perde, mantiene la sua identità – che solo un folle potrebbe pretendere di ridurre al nostro presente – ma accetta di sospenderla, sciogliendosi, sia pure per il tempo di una maratona cinematografica, nell’immaginario nostro contemporaneo, nei sogni ad occhi aperti che il cinema può innescare – ciascuno il proprio sogno, diverso da quello dei suoi vicini - una “folla” d’individui sovrani e solitari, non la “massa” all’unisono con il delirio d’onnipotenza delle istituzioni.

L’effimero delle estati romane a Roma, dal 1976 al 1981, forse un po’ meno dal 1981 al 1985 (quando sono nati bandi di concorso, commissioni di congruità, e dunque lottizzazioni ed aumento dei costi, ed è diminuita la fantasia), e poi sempre ogni anno di meno - ma qualcosa si è conservato fino ai giorni nostri - , è stato un rispettoso trionfo della soggettività nel modo di vivere a Roma.

La gioia di Roma di cui ci parla About consiste proprio nella scoperta della vita quotidiana della città sotto la pellicola della città museo, nelle infinite combinazioni che i due registri possono produrre. Una città che ancora non è ridotta a shopping mall griffato – il rischio di Firenze, Venezia e delle città d’arte in genere, da Samarcanda a Monaco di Baviera - che completa con l’indocile imprevedibilità della vita che lascia scorrere il fascino del grande parco archeologico, del tridente barocco – sotto lo stesso cielo di Bernini e Borromini.

é stata una grande festa per i romani – proprio nel cuore degli anni di piombo, quando l’invito delle istituzioni era piuttosto mettere “sacchi di sabbia davanti alle finestre” (qualcosa che mi sembra tornare sinistramente proprio in questi giorni, con l’ossessione della “sicurezza” – ma non diceva Rilke che l’uomo “abita poeticamente l’aperto, inconsapevole del pericolo” e che proprio questa “inconsapevolezza” lo distingue dagli animali?) - scoprire che la loro città non era soltanto un insieme di musei, monumenti e luoghi della politica, sorridenti ed in posa politically correct, ma poteva diventare lo spazio condiviso dell’immaginazione, della sovversione delle abitudini, degli ossimori e degli esperimenti, del disordine amoroso e creativo.

Sono passati trent’anni, ed ho nostalgia di quando piazza Farnese ospitava il “circo in piazza”, proprio di fronte all’ambasciata francese, in presenza del Sangallo e di Michelangelo. Nulla vieta di divertirsi in presenza del bello e del sublime, ed il divertimento contagiava via Giulia, scendeva sulle banchine del Tevere. Ho nostalgia di “Ballo, non solo” a Villa Ada, quando tutto il percorso dai cancelli d’accesso fino al laghetto si trasformava in una grande vetrina dei prodotti di tutto il mondo. Eravamo ancora (nel ’79), agli albori della globalizzazione, ed sui banchetti dove i ragazzi mostravano le loro merci si mostravano i segni del mondo ancora meraviglioso e largamente sconosciuto – dove qualche pioniere di quello che negli anni Ottanta sarebbe divenuto turismo di massa si era già avventurato per la gioia dei romani.

Ho nostalgia soprattutto del Festival dei Poeti (dei poeti cioè di persone fisiche, uomini in carne ed ossa – non l’astrazione della poesia) di Castelporziano. A Castelporziano ci fu un vero scontro culturale, quasi una battaglia. Da una parte i poeti invitati dal Comune, dall’altra il popolo della spiaggia, trentamila giovani accorsi in massa per il Festival, attirati da una “quotidiana di poesia” che uscì come inserto centrale di “Lotta Continua” per promuoverlo.

Chi dormiva sulla spiaggia per partecipare al Festival pensava generalmente di essere anche lui poeta, e voleva leggere sul palco come i poeti “ufficiali”. Fu una bella battaglia. Ad un certo punto i ribelli portarono sul palco una grande pentola di minestrone, ed invitarono tutti a salire ed a mangiarne. Bella contrapposizione tra i diritti dello spirito e le esigenze materiali del corpo, che aveva freddo e fame! Ma Allen Ginsberg bloccò quella che poteva diventare la fine del Festival, intonando il mantra del padre morto. “Father’s dead” cantava Ginsberg accompagnato al banjo da Peter Orlovsky: e la scalata al palco si arrestò. Quando mai la poesia ha vinto in una maniera così limpida e bella?

In anni così sovraccarichi d’immagini come gli anni Duemila, può essere difficile capire la “fame di immagini” dei cinephiles degli anni Settanta – ciascuno con il suo film preferito chiuso nella memoria – e che cosa abbia significato poterla finalmente saziare. Il Napoleon di Abel Gance, proiettato davanti al Colosseo per ottomila spettatori, alla presenza di madame Mitterrand e di Jack Lang, è un po’ il simbolo di questa concezione del cinema. Abel Gance aveva introdotto il colossale nel cinema muto. Aveva pensato ad un film che nella fase finale doveva essere proiettato da tre proiettori su tre schermi diversi, con l’accompagnamento di una grande orchestra. Poi era arrivato il cinema sonoro. Ed ecco che questo capolavoro anacronistico, riscoperto e restaurato da una cooperazione anglo francese, con una nuova colonna sonora composta da Carmine Coppola, il padre di Francis Ford Coppola, veniva proiettato proprio a Roma, battendo la concorrenza della Biennale di Venezia!

Sono trascorsi ormai molti anni da quella stagione di gioco, leggerezza e mancanza di paralizzanti atteggiamenti reverenziali… Roma, per quello che ho detto, è insofferente ai giudizi, alle sistemazioni troppo (all’apparenza…) coerenti…

Tuttavia credo di potermi azzardare ad affermare che – più dell’Auditorium di Piano, dell’Ara Pacis di Meier, della forse troppo attese Nuvola di Fuksas e MAXXI di Zaha Hadid – il segno del moderno a Roma negli ultimi trent’anni lo ha portato soprattutto l’estate romana. Mi tornano in mente gli allestimenti effimeri della “città del teatro” a via Sabotino, sorta nel giro di un mese (Purini, Thermes, Staderini, De Boni e Colombari); gli allestimenti di De Boni e Colombari per “Massenzio al Massimo” (dal 1982 al 1984). C’era anche l’architettura – la bella architettura – ma in vesti di servizio, per stimolare e consentire la vita, piuttosto che per irrigidirla nella separatezza del simbolo.

 

 

 

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