N. 9 - Settembre 2008
(XL)
Gli Esseni dispersi?
ipotesi sugli anni
perduti del Cristo
di Lawrence M.F.
Sudbury
Alcune
fonti stimano che ne siano rimasti solo 20.000, sparsi
nella zona tra Tigri ed Eufrate attorno allo
Shatt-el-Arab, altre, più ottimisticamente, arrivano a
contarne circa 60.000, tenendo conto delle numerosissime
frange di una diaspora plurimillenaria dovuta ad un
isolamento culturale che a lungo, anche il tempi più
recenti (sia sotto il regime di Saddam Hussein che dopo
la sua caduta), ha coinciso con termini quali
sottomissione, ghettizzazione o addirittura genocidio.
Loro,
non si sono mai contati, dispersi come sono in piccoli
villaggi e comunità sperdute tra quegli stati che oggi
chiamiamo Iraq, Iran, Siria e Giordania ma che, nella
loro cultura, sono nomi che significano poco, così come
ben poco significa la nozione di cronologia storica così
come noi la intendiamo: il 2008 non vuol dire niente per
chi, semplicemente, sa di essere in uno degli “anni del
Sabato” del grande ciclo cosmico.
Persino il loro nome varia a seconda di chi li osserva:
per i mussulmani che li circondano sono “Sabei”, cioè
“coloro che si battezzano” (dall'antico aramaico “saba”,
“battesimo”); per alcuni viaggiatori occidentali del
passato erano i “Cristiani di San Giovanni”, per il loro
credo fortemente giovannita. Tra loro, si definiscono
“Mandei” (“Mandaiia”), che, come provato dai glottologi
Mark Lidzbarski e Rudolf Macuch, in lingua “mandea” (una
sorta di dialetto di derivazione aramaica) starebbe a
significare “coloro che cercano la conoscenza”,
derivando dall'aramaico “manda” (“sapere”). Ma bisogna
fare attenzione, perché non tutti i Mandei sono “mandei”:
alcuni, pochi eletti, sono “Nozrai”, non dovendo più
cercare la “rivelazione” ma avendola ottenuta ed essendo
così divenuti “Nazirei”, cioè membri di quella schiera
eletta di uomini votati a Dio di cui, interpretando i
Vangeli sotto la lente storica e non della “traditio
fidei”, faceva parte anche Gesù il Nazireo (e non il
Nazareno, visto che Nazareth sorgerà almeno 100 anni
dopo la sua morte).
Un
popolo disperso, dunque, schiacciato e tendenzialmente
in via d'estinzione. Perché interessarsene, se non per
scopi etno-antropologici, catalogativi o umanitari?
La
ragione dell'importanza storica dei Mandei risiede
proprio nel loro isolamento socio-culturale, che ha
preservato pressoché intatto un patrimonio religioso che
possiamo definire come “ibernato” attorno al I secolo
d.C.. Sostanzialmente i Mandei sono per lo studio dello
sviluppo delle idee religiose, quello che un fossile del
periodo carbonifero potrebbe essere per lo studio
dell'evoluzione sulla terra.
Grazie
alle ricerche sviluppate in modo intensivo a partire
dall'inizio del secolo scorso da orientalisti come J.
Heinrich Petermann, Nicholas Siouffi e Lady Ethel Drower,
oggi abbiamo un panorama sufficientemente chiaro del
sistema di pensiero mandeo, fino a pochi decenni fa
quasi completamente misterioso e segreto.
Partiamo con un'analisi della loro storia. La lingua di
chiarissimo ceppo aramaico-babilonese utilizzata da
questa popolazione, così come l'insieme delle loro
credenze, ci suggerisce immediatamente una origine
semitica, probabilmente nord-palestinese. E' verso il
secondo secolo d.C., dopo un probabile esodo a lunghe
tappe, che inizia la grande produzione letteraria mandea,
che culmina con la creazione del “libro sacro per
eccellenza”: il Ginza, una grande raccolta di
storia, teologia e preghiere liturgiche che rappresenta
la fonte principale per la ricostruzione delle vicende
di questo popolo. Attraverso uno studio di questo testo,
Jorunn Buckley ha potuto stabilire che, come attestato
anche dall'Harrān Gāwetā , un altro
testo di poco successivo, i Mandei dovevano aver
lasciato l'area palestinese nel I secolo d.C., subito
dopo la distruzione di Gerusalemme, per rifugiarsi
nell'area mesopotamica, dove, però , ben presto
iniziarono ad avere contrasti con i persiani, come
dimostra anche la famosa “iscrizione di Kaftir”, una
lapide ritrovata a Naqsh-I-Rustam (Iraq) che narra di
una persecuzione Sassanide contro questa “setta”
ebraica.
A
questo punto si pone il primo interrogativo. Perché i
Sassanidi perseguitano una setta ebraica presente nel
territorio da essi controllato? E' noto che l'israelitismo
non è mai stata una religione unitaria, ma, lungo tutto
il corso della sua storia, è sempre stata divisa in
gruppi e correnti, spesso ideologicamente e
teologicamente molto distanti tra loro. Perché, allora,
colpire una delle tante “interpretazioni” di una
religione che i persiani sostanzialmente non compresero
mai ma di cui, essendo a capo di un vastissimo impero
dai mille culti differenti, dimostrarono sempre di
disinteressarsi?
Forse
la risposta potrebbe venire da una soluzione del grande
enigma relativo ai rapporti tra Mandei e Manicheismo.
Che la religiosità mandea sia profondamente manichea
appare come un dato di fatto piuttosto evidente ed è
stato, per altro, ampiamente dimostrato da
Säve-Söderberg attraversp una analisi comparativa tra
salmi manichei e preghiere del Ginza, ma la domanda che
ci dobbiamo porre è: siamo certi che la religione mandea
sia manicheo o non è piuttosto il Manicheismo ad essere
mandeo?
Sulla
base del Fihrist di ibn al-Nadim, sappiamo che
Mani, il fondatore del Manicheismo, crebbe tra gli
Elkasaiti, una setta battesimale eretica di stampo
cristiano, molto prossima (se non, forse più
probabilmente, corrispondente) al mandeismo. Tenendo
conto che la localizzazione degli Elkasaiti risulta
essere a nord della Mesopotamia, mentre quella mandea a
sud della stessa regione, potrebbe essere sensato
pensare a due gruppi diasporaici divisisi in fase
migratoria ma provenienti da uno stesso nucleo
centrale. Se, allora, possiamo pensare che il
manicheismo derivi, almeno parzialmente, da forme di
vetero-mandeismo, possiamo ben capire come i Persiani,
ben comprendendo la carica potenzialmente rivoluzionaria
e sovversiva del pensiero pre-manicheo (e ricordiamo che
Mani stesso, sotto l'impero di Sapore I, passò lunghi
anni in carcere), cercassero di distruggerne la radice
nei territori ad essi sottoposti.
Ma il
corollario di questa possibilità è forse addirittura più
interessante dell'ipotesi stessa. Se, infatti, il
manicheismo derivasse da una rielaborazione di elementi
filosofico-religiosi mandei, potremmo dedurre che quegli
elementi (numerosi) della Gnosi cristiana di qualche
secolo successiva normalmente identificati come
manichei, fossero, in realtà, “autoctoni” di una
corrente originariamente ebraica, probabilmente
successivamente permeata da elementi zorohastriani,
mazdistici e misterico-orientali a formare il
neo-mandeismo odierno.
Una
ulteriore analisi del Ginza apporta ulteriori elementi
di interesse ad un quadro già di per sé estremamente
affascinante.
Scopriamo, infatti, che quella che Drower chiama “Gnosi”
mandea (e forse, alla luce di quanto osservato, i
termini andrebbero ribaltati) si fonda su alcuni
elementi principali:
la credenza di un entità superiore
spirituale che delega la funzione creatrice del tutto
all'Uomo Archetipo (una sorta di proto-Demiurgo), l'Adam
Kadmon della tradizione ebraica, che viene designato
come Re-Sacerdote del creato;
la contrapposizione, chiaramente ripresa
o derivante dal Manicheismo, tra una creazione positiva,
mascolina e adamitica e una creazione negativa da parte
di una “Madre del tutto”, che evidentemente non può non
riportarci alla figura di Ewa e al suo “peccato
originale”. Tale contrapposizione perdura in eterno
nella continua lotta tra potere della luce e potere
delle tenebre, tra mondo della materia e mondo delle
idee e le caduta dell'Adam Kadmon viene vissuta come
l'esilio delle anime dall'essenza dell'Entità superiore
a cui esse bramano di tornare; in un culto impregnato da
simboli e misteri, una tale possibilità di ritorno è
facilitata dall'accesso frequente ai sacramenti, primo
fra tutti il battesimo, da cui i Mandei hanno ereditato
il loro nome arabo.
Dei
Mandei come popolo di “battezzatori” tratta, già nel II
secolo a.C., Luciano di Samosata, che ci parla
esplicitamente di un gruppo di persone che,
sull'Eufrate, nel nord della Siria, si alzano ogni
giorno all'alba e “ricevono il battesimo” indossando
vesti di lino.
Questa
citazione ci porta verso un secondo argomento piuttosto
interessante. Già da quanto scritto da Luciano di
Samosata, confermato da tutti gli studi svolti sulla
religiosità mandea, il significato del battesimo come
inteso da questa setta risulta molto differente rispetto
alla nostra odierna visione cristiana. Il battesimo
mandeo, infatti, non si configura come un passaggio “una
tantum” allo stato di grazia conseguente alla
cancellazione del peccato originale, quanto come una
sorta di atto lustrale e purificatorio continuamente
ripetuto (alcuni testi sacri ne consigliano la pratica
almeno settimanalmente).
Se,
però, ripercorriamo la storia delle correnti ebraiche
del primo secolo, non possiamo non notare un notevole
parallelismo tra questa concezione battesimale e quella
di una delle correnti più note dell'ebraismo dei primi
secoli: quella essena.
Leggiamo cosa scrive il Gruppo Teologico SAE a proposito
del battesimo d egli Esseni:“L'origine del battesimo
cristiano va rintracciata nell'attività di Giovanni
Battista, il quale «evangelizzava il popolo» (Luca 3,18)
invitandolo alla conversione, simboleggiata da una
immersione nel fiume Giordano. Anche la comunità degli
Esseni, in quei tempi, praticava una forma di battesimo,
che però consisteva in abluzioni rituali periodicamente
ripetute [...]”.
Se poi
ci spingiamo un poco oltre, possiamo intravedere altre
analogie: gli Esseni erano soliti indossare vesti di
lino bianco all'atto dell'abluzione e anche per quanto
riguarda i Mandei, il battesimo è somministrabile
unicamente a chi indossi il tipico costume composto da
sette pezzi di lino bianco.
Tenendo conto che per tutti i popoli indo-europei e di
area medio-orientaale il bianco rappresenta
simbolicamente, secondo un stereotipo culturale
archetipico, il colore della purezza, potremmo pensare
ad una semplice casualità.
Ma
altri elementi ci inducono a pensarla diversamente.
Ritorniamo al Ginza e diamo una scorsa alla lista
dei profeti in esso contenuta. Ne troviamo parecchi,
praticamente gran parte di quelli vetero-testamentari,
e, non poi così sorprendentemente, l'ultimo profeta, il
più grande (in ambito mussulmano parleremmo, per lo
stesso grado di importanza attribuita dall'Islam a
Mohammad, di “sigillo dei profeti”) è “Iuhana Masbana”,
cioè Giovanni il Battista (e proprio per questo i
carmelitani che tentarono, con successo assolutamente
nullo, di evangelizzare i Mandei nel XVI secolo, li
definirono, come detto, “Cristiani di San Giovanni”).
Ricostruiamo quanto sappiamo di lui e quanto ci dicono
gli studi biblici più recenti.
Giovanni Battista si era ritirato nel deserto, vestiva
di peli di cammello, si cibava di locuste e miele
selvatico e praticava il battesimo a mezzo di abluzioni.
Tutte queste caratteristiche sembrano indicare, con ben
pochi dubbi, che Giovanni fosse un Esseno: gli Esseni,
così come possiamo tentare di conoscerli oggi, erano
infatti esattamente una comunità di eremiti che
abitavano nel deserto, vestivano semplici vesti ricavate
dalle pelli dei cammelli, vivevano mangiando quello che
il deserto gli forniva (locuste e miele selvatico) e
praticavano abluzioni per purificare il proprio
spirito. A differenza di Matteo e Marco, Luca ci
presenta un Giovanni molto più approfondito,
raccontandoci della sua nascita e facendo intendere che
oltre ad un semplice Esseno fosse anche un Maestro, o
Rabbi, conoscitore della Torah. Possiamo quindi pensare
con una certa sicurezza che Giovanni, almeno in una
determinata fase della sua vita, fosse un Esseno e un
Rabbi che probabilmente preparava i nuovi accoliti ad
entrare nella comunità, insegnado loro le rigide regole
comunitarie ed, infine, iniziandoli tramite la pratica
del Battesimo. In questo senso, dobbiamo fare molta
attenzione: i Vangeli ci parlano di un Battista che
praticava il battesimo di conversione, cioè quello
stesso battesimo che assumeva il grado di rito
iniziatico di immissione nella comunità, ma non
specificano mai, in nessun passo, che tale battesimo
fosse unico.
A tale
battesimo si sottopone Gesù e, proprio a proposito del
Cristo, troviamo una nuova, sorprendente analogia tra
Esseni e Mandei.
Nella
teologia mandea, infatti, Gesù (Ishu Mshiha) è un “mšiha
kdaba”, un falso Messia (così come falsi profeti sono
Abramo e Mosè e un falso insegnamento, da cui
distaccarsi per elevarsi verso Dio, è la Torah) che ha
completamente stravolto gli insegnamenti impartitigli
dal Battista. E' pur vero che in neo-mandaico la stessa
frase “mšiha kdaba” potrebbe voler dire anche “Messia
del Libro”, ma si tratta di una interpretazione più
recente, probabilmente legata a correnti ecumeniche che
avrebbero voluto, contro le persecuzioni islamiche, che
anche i Mandei venissero riconosciuti e protetti come
parte dei popoli del Libro. Una visione negativa di
Gesù, comunque, sembrerebbe trarre fondamento proprio da
un paragone con il pensiero esseno. Anche per gli Esseni,
infatti, è possibile che la Messianicità di Gesù avesse
una connotazione negativa.
Nel
Commento ad Abacuc, ritrovato nella grotta n. 1 di
Qumran e considerato il testo che più si avvicina ad una
cronaca della comunità, infatti, si racconta che un
certo numero di membri della comunità essena, seguendo
gli incitamenti di un personaggio chiamato “uomo di
menzogna”, si allontanarono rompendo il patto e finirono
per non rispettare più la Legge. Questo fece sì che
esplodesse un conflitto fra loro e il “Maestro di
Giustizia”, capo della comunità.
Alcuni
hanno ritenuto che queste vicende si riferissero ad un
periodo o precedente o successivo alla predicazione di
Gesù ma nel documento viene nominato anche un avversario
malvagio conosciuto come il “Sacerdote empio”. Dal
momento che il sacerdozio ebraico ebbe termine con la
caduta del Tempio, ciò significa che il Tempio esisteva
ancora al momento della redazione del Commento.
D'altra parte, come nella Regola della Guerra, in
questo rotolo si fa riferimento alla Roma Imperiale,
quindi alla Roma del I secolo avanti Cristo, dal momento
che si ricorda una pratica particolare delle le truppe
romane vittoriose che facevano offerte sacrificali alle
loro insegne, attestata unicamente dopo che, con la
nascita dell’Impero, l’imperatore divenne una divinità
agli occhi dei suoi sudditi e la sua immagine o il suo
simbolo furono riprodotti sulle insegne dell’esercito.
Ne consegue che testi quali la Regola della Guerra,
il Rotolo del Tempio e, appunto, il Commento
ad Abacuc si riferiscono tutti all’epoca di Erode.
Prima
di tentare di trarre alcune ipotesi conclusive da quanto
accennato, affrontiamo un ultimo punto di grande
interesse. Abbiamo visto che i Mandei che sviluppano una
conoscenza mistico-misterica superiore, passano al rango
di Nozrai, cioè, come accennato, entrano in quella
schiera eletta del “Nazireato” di cui faceva parte anche
Gesù. Ma di cosa si tratta?
Il
Nazireato é, nella Bibbia, la consacrazione a Dio con il
conseguente voto di seguire alcuni rigidi precetti di
vita, illustati nel libro dei Numeri:
“Il
Signore disse ancora a Mosè: «Parla agli Israeliti e
riferisci loro: Quando un uomo o una donna farà un voto
speciale, il voto di nazireato, per consacrarsi al
Signore, si asterrà dal vino e dalle bevande inebrianti;
non berrà aceto fatto di vino né aceto fatto di bevanda
inebriante; non berrà liquori tratti dall’uva e non
mangerà uva, né fresca né secca. Per tutto il tempo del
suo nazireato non mangerà alcun prodotto della vigna,
dai chicchi acerbi alle vinacce. Per tutto il tempo del
suo voto di nazireato il rasoio non passerà sul suo
capo; finché non siano compiuti i giorni per i quali si
è consacrato al Signore, sarà santo; si lascerà crescere
la capigliatura. Per tutto il tempo in cui rimane
consacrato al Signore, non si avvicinerà a un cadavere;
si trattasse anche di suo padre, di sua madre, di suo
fratello e di sua sorella, non si contaminerà per loro
alla loro morte, perché porta sul capo il segno della
sua consacrazione a Dio. Per tutto il tempo del suo
nazireato egli è consacrato al Signore. Se uno gli muore
accanto improvvisamente e il suo capo consacrato rimane
così contaminato, si raderà il capo nel giorno della sua
purificazione; se lo raderà il settimo giorno; l’ottavo
giorno porterà due tortore o due colombi al sacerdote,
all’ingresso della tenda del convegno. Il sacerdote ne
offrirà uno in sacrificio espiatorio e l’altro in
olocausto e farà per lui il rito espiatorio del peccato
in cui è incorso a causa di quel morto; in quel giorno
stesso, il nazireo consacrerà così il suo capo.
Consacrerà di nuovo al Signore i giorni del suo
nazireato e offrirà un agnello dell’anno come sacrificio
di riparazione; i giorni precedenti non saranno contati,
perché il suo nazireato è stato contaminato. Questa è la
legge del nazireato; quando i giorni del suo nazireato
saranno compiuti, lo si farà venire all’ingresso della
tenda del convegno; egli presenterà l’offerta al
Signore: un agnello dell’anno, senza difetto, per
l’olocausto; una pecora dell’anno, senza difetto, per il
sacrificio espiatorio, un ariete senza difetto, come
sacrificio di comunione; un canestro di pani azzimi
fatti con fior di farina, di focacce intrise in olio, di
schiacciate senza lievito unte d’olio, insieme con
l’oblazione e le libazioni relative. Il sacerdote
presenterà quelle cose davanti al Signore e offrirà il
suo sacrificio espiatorio e il suo olocausto; offrirà
l’ariete come sacrificio di comunione al Signore, con il
canestro dei pani azzimi; il sacerdote offrirà anche
l’oblazione e la libazione. Il nazireo raderà,
all’ingresso della tenda del convegno, il suo capo
consacrato; prenderà i capelli del suo capo consacrato e
li metterà sul fuoco che è sotto il sacrificio di
comunione. Il sacerdote prenderà la spalla dell’ariete,
quando sarà cotta, una focaccia non lievitata dal
canestro e una schiacciata senza lievito e le porrà
nelle mani del nazireo, dopo che questi si sarà raso il
capo consacrato. Il sacerdote le agiterà, come offerta
da farsi secondo il rito dell’agitazione, davanti al
Signore; è cosa santa che appartiene al sacerdote,
insieme con il petto dell’offerta da agitare ritualmente
e con la spalla dell’offerta da elevare ritualmente.
Dopo, il nazireo potrà bere il vino. Questa è la legge
per chi ha fatto voto di nazireato, tale è la sua
offerta al Signore per il suo nazireato, oltre quello
che i suoi mezzi gli permetteranno di fare. Egli si
comporterà secondo il voto che avrà fatto in base alla
legge del suo nazireato».”
Il
nazireato era dunque temporaneo (anche se poteva essere
esteso a tutta la vita): era nato come sistema di
“preparazione” al ruolo di re o sacerdote, ma aveva
assunto una posizione di primo piano durante le guerre
contro i Filistei: ciò che può dar vittoria e pace agli
eredi della promessa è la forza che deriva dalla
separazione da tutto quello che appartiene all’uomo
naturale, e da un’intera consacrazione a Dio; in questo
senso il Nazireato era una potenza spirituale, o
piuttosto ciò che la caratterizzava, quando il nemico si
trova nel paese e così viene intesa, ad esempio, da
Sansone che, grazie al suo voto nazireo, guida
l’esercito ebreo alla vittoria.
E' pur
vero che, col tempo, il voto, da prettamente militare
che era, era diventato soprattutto religioso e, in
alcuni casi, veniva fatto dai genitori per i figli
nascituri. Tale usanza, ai tempi di Gesù, era ancora
vivissima e, tra l'altro, da Luca possiamo comprendere
che i genitori del Battista lo facciano, ad esempio, sul
figlio: “poiché egli sarà grande davanti al Signore;
non berrà vino né bevande inebrianti, sarà pieno di
Spirito Santo fin dal seno di sua madre”.
Come
si diceva, la pratica del Nazireato era trasversale a
tutti i numerosissimi gruppi politico-religiosi presenti
nella Palestina del I secolo, essendo un elemento di
scelta personale del singolo. Naturalmente, però, per le
sue caratteristiche, era particolarmente comune tra i
gruppi che si rifacevano all’Hassidismo (cioè alla
corrente ultra-ortodossa sorta in periodo maccabeo),
cioè Farisei e, soprattutto, Esseni e Zeloti.
Dal
momento che è comunemente accettato che almeno una
parte degli Esseni confluirono nel movimento zelota
(come provato da testi di testi esseni persino a Masada),
non possiamo ritenere che questo “nazireato” avesse
assunto nuovamente, in un periodo in cui la
sopportazione di buona parte della popolazione ebraica
verso l'occupazione romana era arrivata al limite, la
sua connotazione militare originaria? E non possiamo
pensare che il termine “nazireo” stesse ad indicare, tra
i pii “monaci” esseni, coloro che, esattamente come in
origine, essendosi caricati, tramite pratiche
astinenziali e liturgiche, di una forza divina
superiore, si opponessero alla dominazione straniera, su
una strada tangente quando non intersecante quella dello
zelotismo?
Sulla
scorta di tutti questi elementi, proviamo a tracciare
una ipotesi possibile.
Esiste
una comunità fiorente di ebrei estremamente ortodossi,
isolati dal mondo, che vivono nel deserto, praticano la
Legge in ogni minimo dettaglio e si dedicano a pratiche
simbolico-misteriche, inclusi ripetuti battesimi
rituali. Tale comunità (o meglio, tali comunità, essendo
il fenomeno piuttosto vasto) prevede un capo spirituale
o “Maestro di Giustizia” e non è improbabile che, nel
periodo di dominazione imperiale, tale “Maestro di
Giustizia” venisse scelto tra i Nozrai. Nel Vangelo
abbiamo un Nozrai famosissimo, che convertiva le folle
con ipotesi apocalittiche e ultra-ortodosse: Giovanni
Battista, che nella cultura mandea è visto come l'ultimo
e più grande dei profeti. Perché non pensare a lui come
al “Maestro di Giustizia” di una comunità essena?
Ma da
questo “Maestro di Giustizia” viene a farsi battezzare
un altro “Nozrai”, Yeshua Ben-Josephi, Gesù, il che ci
potrebbe far pensare che, come recentemente accennato
persino da fonti papali, per un certo tratto della sua
vita il Cristo avrebbe potuto vivere all'interno di un
circolo esseno, probabilmente non così distante da idee
zelote (e, senza aprire qui un nuovo capitolo, anche la
composizione del circolo degli apostoli sembrerebbe non
smentire tale possibilità).
Poi
qualcosa deve essere accaduto. Forse Gesù si stacca
progressivamente dall'ideologia estremamente legalitaria
del circolo o forse, sentendosi investito da un compito
divino (il Battesimo dello Spirito che si contrappone al
Battesimo dell'acqua), si contrappone al Maestro di
Giustizia. Non è probabilmente un caso che anche nei
Vangeli, se letti attentamente, traspaia, dopo una prima
fase corrispondente al battesimo di Gesù, una certa
ostilità, o almeno incomprensione, tra i seguaci del
Battista e quelli del Cristo. Di fatto, una buona parte
della comunità segue quest'ultimo e le cronache essene
registrano questo fatto riferendosi a lui come “Maestro
di menzogna”.
Cosa
c'entrano i Mandei con tutto questo? Sappiamo che
lasciano la Palestina nel I secolo e che, nelle loro
zone di migrazione, sono visti come un pericolo,
probabilmente a causa della loro filosofia religiosa
dualistica (altro elemento secondo molti tipicamente
esseno). Non possiamo pensare a loro, alla loro
religiosità simbolico-misterica, alla loro inossidabile
ortodossia, come l'ultima eredità, sicuramente mescolata
ad elementi estranei, sicuramente deviata dagli eventi
storici (ad esempio, il rifiuto di Abramo e Mosè
potrebbe derivare dall'aver visto infrangere l'Alleanza
con Dio al momento della distruzione del Tempio), di
quegli Esseni le cui comunità vennero rase al suolo dopo
Masada?
Si
tratta, ovviamente, di ipotesi, ma di ipotesi ben
suffragate da prove piuttosto consistenti.
Certamente, varrebbe la pena di studiare ed analizzare
più in profondità questa cultura, prima che, come appare
purtroppo molto probabile, essa scompaia assorbita da un
mondo arabo da sempre ostile e da situazioni belliche
che rendono oggi il progressivo genocidio mandeo una
realtà ancora più tragica che in precedenza. Forse,
infatti, al di là della tragedia umana di questo popolo,
dal punto di vista culturale con loro scomparirebbe
forse la sola possibilità di avere qualche risposta in
più su quel periodo che da sempre rappresenta un grande
enigma per gli storici del Cristianesimo: sugli “anni
perduti” del Cristo.
Riferimenti bibliografici:
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