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filosofia & religione


N. 44 - Agosto 2011 (LXXV)

talmud, Zohar e mostri di celluloide
Espressionismo filmico e cultura cabalistica

di Lawrence M.F. Sudbury

 

Esiste, all'interno del continuum storico della cinematografia mondiale, un momento fortemente eccettivo rispetto al continuum stesso, in cui, in un'epoca di "telefoni bianchi", filmetti erotici, fantasmagorie pionieristiche e saghe eroiche, in un'area geograficamente (la Germania post-bellica) e temporalmente (dal 1919 al 1924, ma con anticipazioni già dal 1913) circoscritta si assiste all'insorgenza di temi particolari, caratterizzati da figure psicologicamente e, in qualche caso, anche fisicamente mostruose: il cosiddetto "espressionismo tedesco".

I tentativi di spiegare questa anomalia sono stati numerosi, a partire dall'idea di Vicente Sánchez-Biosca ("Sombras de Weimar") di un riflesso della crisi sociale ed economica continuamente presente nella Repubblica di Weimar o da quella, ancor più nota, di Siegfried Kracauer ("From Caligari to Hitler") di una prefigurazione dell'ambivalenza caos-ordine che porterà all'ascesa hitleriana, ma, in realtà, nessuna teoria è mai risultata completamente convincente, tendendo tutte a sviluppare una serie di congetture unicamente riguardanti correlazioni tra clima sociale (Kracauer parla di "sentimento del tempo") e una sua confusa rappresentazione iconografica attraverso immagini e posture orrorifiche.

 

Di fatto, tutta la sociologia del cinema si fonda prettamente sull'assunto di un rispecchiamento dello status quo sulla produzione filmica e difficilmente tale assunto potrebbe essere, alla luce delle numerosissime prove in tal senso, messo in discussione. Ciò che, però, appare limitativo negli scritti di numerosi teorici e critici è la correlazione diretta tra sentire socio-politico e tematiche espressioniste.

 

La domanda che ci si pone è: perché, proprio in un momento di così forte crisi sociale, si dovrebbe assistere all'insorgenza di temi di alterità assoluta rispetto al reale quotidiano e non, per esempio, ad una indagine sulle "zone d'ombra" di tale realtà e sul malessere sociale che esse provocano? Probabilmente, una risposta più plausibile riposa unicamente in un concetto, che accomuna numerosissime correnti e tendenze artistiche e filosofiche di un periodo erede del grande massacro della I Guerra Mondiale e pieno di incertezze per il futuro: il concetto di fuga dalla realtà e, conseguentemente, di immersione nell'onirico, nel fantastico, nell'irrazionale.

 

A questo punto, però, il nodo problematico fondamentale si sposta verso un'altro quesito: se la fuga dal reale si compie verso l'irrazionale, verso quale tipologia d'irrazionale, tra le molte possibili, essa si orienta? Ed è qui che, per molti versi, tutto si fa più complesso.

 

Per rendercene conto, proviamo ad elencare brevemente le opere principali comprese nel quadro che possiamo definire pre-espressionistico ed espressionistico in senso stretto:

"Der Student von Prag" di Stellan Rye (1913), storia di uno studente che cede a un mago la propria immagine riflessa in uno specchio in cambio dell'amore di una ricca ereditiera ma, ben presto, le azioni compiute dal suo "doppio" gli faranno perdere l'amore della donna e lo condurranno al suicidio;

"Der Golem" di Paul Wegener (1914), incentrato sulla leggenda rabbinica della creazione di un mostro di argilla che si ribella al proprio padrone per assumere vita propria;

"Das Kabinett des Dr. Caligari" di Robert Wiene (1919), racconto allucinato (anche dal punto di vista scenografico, con i suoi sfondi di Warm, Rorig e Herlth in stile pittorico tipicamente espressionista) su quelle che scopriamo essere (al termine del film) le elucubrazioni di un pazzo che vede nel direttore del manicomio in cui è internato un chiromante da fiera che tramite un sonnambulo preveggente compie una serie di omicidi in una cittadina tedesca;

"Der Golem" di Paul Wegener (1920), remake dell'edizione del 1914;

"Nosferatu" di Friedrich W. Murnau (1922), prima trasposizione cinematografica della figura vampiresca;

"Dr. Mabuse, der Spieler" di Fritz Lang (1923), storia (in due parti) di uno psicanalista ipnotista che utilizza le sue conoscenze per compiere furti e arricchirsi, ma che, al termine della pellicola, finisce per impazzire;

"Wachsfigurenkabinett" di Paul Leni (1924), antologia di episodi storico-orrorifici che prende spunto dalle composizioni di un poeta relative a tre figure storiche di cera e che già mostra l'esaurimento del filone espressionista.

 

Ebbene, da questa breve carrellata possiamo già desumere un elemento che accomuna praticamente tutte le opere menzionate: il tema dell'alterità, intesa sia come alterità da sé stessi e, conseguentemente, tema del doppio io ("Der Student", "Mabuse"), tema della dissociazione mentale ("Mabuse", "Caligari") e tema dell'immagine che prende vita onirica autonoma ("Der Student", "Wachsfigurenkabinett"), sia come alterità rispetto all'ambiente circostante, intesa come tema dell'estraneità (presente, in qualche forma, in tutte le pellicole) e come tema dell'alterità assoluta del mostro ("Caligari", "Der Golem", "Nosferatu" ).

 

Da dove deriva, dunque, questo tema che non risulta in alcun modo presente nella cultura tedesca precedente, ammantata di tematiche post-romantiche e, al massimo, di una forma espressionistica letteraria e pittorica che, in realtà, è esternazione di sentimenti interiori e, di conseguenza, è frutto corollariale di quello stesso sentire romantico?

 

Alcuni indizi ci possono aiutare a indirizzarci verso una risposta. Certamente, in primo luogo, risulta già quantomeno peculiare la presenza di numerosi riferimenti all'est europeo e in particolare a Praga, ma è soprattutto "Der Golem", con la sua leggenda cabalistica, a darci la cifra di lettura globale dell'intero movimento e ad indicarci una origine sostanzialmente ebraico-cabalistica dell'espressionismo filmico.

 

Il mitologema golemico rappresenta, forse, la summa estrema della rappresentazione "bassa" (nel senso di visibile e comprensibile per chiunque) della teoria cabalista del dualismo. Il rabbino Loew plasma un mostro d'argilla e gli dà vita inserendo le lettere alif, mem e thaw nel suo cuore (nella leggenda originale disegnando, sulla scorta delle indicazioni del "Sefer Yetzirah" le lettere corrispondenti alla parola "Emet -Verità" sulla sua fronte) per creare un servitore per la sua comunità minacciata, ma il "Golem" che prende vita diventa sempre più incontrollabile, provocando distruzioni fino a che il talismano che gli dà vita viene tolto dal suo enorme corpo (nell'originale, fino a che la lettere alif viene cancellata dalla sua fronte, formando così la parola "Met - Morte").

 

In realtà, la matrice chiaramente cabalistica del tema, con la rappresentazione della duplice valenza speculare di qualunque ente o azione (così tipica della radice talmudica, tale per cui qualunque esperienza, anche la più mistica, è soggetta a essere buona o cattiva agli occhi di Dio a seconda delle situazioni, della preparazione e predisposizione spirituale di chi la effettua, del tempo e del luogo) è qui solo più evidentemente espressa, ma è, come accennato, propria di tutto il filone: così lo studente che vende la sua immagine riflessa non fa che sdoppiare la sua essenza esplicitando l'ambivalenza umana, il Dottor Caligari malvagio imbonitore da fiera e, allo stesso tempo direttore del manicomio è rappresentazione simbolica dello stesso concetto e Mabuse, ipnotista manipolatore, diventa, in una sorta di frattura interiore, egli stesso vittima finale delle sue capacità manipolatorie.

 

"Frattura" è una delle altre parole chiave che collegano direttamente il cinema espressionista tedesco con la cultura cabalistica: l'alterità di cui si parlava, in tutte le sue forme, risulta, fondamentalmente, da quella rottura dell'unità primaria rappresentata nel sistema cabalistico dalla teoria della "Rottura dei Vasi", dalla perdita dello stato unitario dell'Adam Kadmon e dalla scissione interna che sgretola l'unità umana e la separa dal contatto con il tutto.

 

Così l'uomo risulta scisso, dissociato persino al suo interno, nella sua perdita di contatto con il fine ultimo (o, teologicamente, il "motore primo") e, nella tradizione cabalistica, solo la meditazione sul cammino sephirotico (il cosiddetto "Cammino del Fuoco") può permettergli di tentare di reintegrare l'unità.

 

Di fatto, però, anche il percorso proposto dalle Sante Sephirot è, in fondo, sempre speculare, diviso tra una "Colonna della Severità" e una "Colonna della Pietà" e solo una superiore capacità di far sintesi può portare ad una ricomposizione psicologica (e va qui ricordato, almeno en passant, quanto debba la psicologia moderna, tramite la psicanalisi, alla cultura ebraica e a quel libro talmudico del "Berioth" che ipotizzava l'analisi del vissuto onirico secoli prima della nascita di Freud) tale da permettere almeno la conoscenza del "Piccolo Volto" dell'Eterno (giacché il "Grande Volto", nella Sua grandezza imperscrutabile, rimarrà sempre e comunque misterioso all'essere umano).

 

Ebbene, forse, con la sua continua insistenza sulla doppiezza, sullo sfaldamento interiore, proprio la negazione della possibilità di ricomposizione dell'unità è il grande apporto del cabalismo espressionista alla Tradizione a cui si rifà. Apporto contingente, certo, dettato da condizioni storiche insostenibili, ma pur sempre attualizzazione di un sistema di pensiero le cui radici affondano nella notte dei tempi.

 

D'altronde, altrettanto contingente è l'altra grande declinazione del tema dell'alterità sviluppato dalla cinematografia weimeriana, quella relativa all'estraneità. E qui leggiamo tutta la forza della presenza ebraica sul substrato culturale che genera la filmica contemporanea. Come splendidamente espresso da Stefano Della Torre in "Ebraismo e Cultura Ebraica del '900), la presenza ebrea in occidente vive di "una continua e ondivaga alternanza tra osmosi e alterità", tra senso di assorbimento da parte della realtà circostante e orgoglio identitario.

 

In un riflesso di questo sentire troviamo la radice del tema dell'estraneità che risulta presentissimo in tutta la cinematografia espressionista: lo straniero, l'"estraneo tra noi" è il nucleo attorno a cui ruota, a livello sottile, tutto "Das Kabinett des Dr. Caligari", con la sua forte statuizione di una alterità (Caligari, già dal nome, è uno straniero capitato per caso con il suo carrozzone nella fiera di un tranquillo paesino tedesco) che, in realtà, al termine del film, risulta essere, al contrario, una prossimità (come direttore del locale manicomio); in senso opposto, Mabuse è l'uomo perfettamente integrato nella sua società, capace di comprenderne e utilizzarne le leve profonde ma, in ultima analisi, esterno e dunque estraneo alla società stessa; ma, soprattutto, è con Nosferatu che l'estraneità raggiunge la sua gradazione più alta, con l'affermazione di una alterità radicale del mostro vampiresco rispetto al mondo.

 

E che il tema vampiresco sia, in fin dei conti, riconducibile ad archetipi ebraico-cabalistico-talmudici è piuttosto indubitabile. Sarebbe erroneo farsi fuorviare da visioni culturali che porterebbero a rinvenire radici del testo filmico nell'epica post-ossianica del "Dracula" stokeriana, laddove confonderemmo un anello di passaggio con la fonte ultimativa mitologemetica: come ampiamente dimostrato da Caballero, Presley e altri storici del folklore popolare, quella di Bram (Abraham!) Stoker non è, dal punto di vista tematico, che una presa in prestito di un tema fortissimamente collegato alla mitologia simbolica askenazita e già filtrato da altri trait d'union, tra i quali spicca "Il Vampiro" del segretario di Byron Polidori (in realtà l'ebreo Polidai).

 

La fonte ultima del mito, però, è ritrovabile nella figura del "Dibbuk", il "non-morto" talmudico (la cui traduzione letterale, per altro, nel romeno assunto a marca dell'estraneità mostruosa del vampiro, è esattamente "nos - feratu", "non - morto"), che così viene descritto dallo storico Samuel Avisar: "Fra le idee cabalistiche diffuse dallo chassidismo, occupa un posto importante quella della trasmigrazione delle anime. Secondo questa teoria, del tutto estranea in origine alle concezioni ebraiche, le anime, prima di conseguire l'assoluta purezza e la pace in Dio, debbono attraversare parecchie reincarnazioni. Normalmente le anime bisognose di purificazione ritornano in terra nei corpi dei neonati allo scopo di perfezionarsi durante un'altra esistenza terrena, oppure vengono condannate ad incarnarsi in animali o piante e ad attendere che un uomo pio le redima. Ma accade a volte che un uomo si macchi di una colpa così grave che non gli venga concessa la possibilità di riscattarsi per mezzo di un'altra reincarnazione: una tale anima, maledetta ed errabonda fra cielo e terra, può impossessarsi di un corpo vivente di un'altra persona e trasformarsi in un Dibbuk, un essere né vivo né morto che porta scompiglio e paura nella comunità".

 

Su questo nucleo originale, si innesta un'altra figura di origine semitico-talmudica, come quella di Lillith, un delle maggiori incarnazioni demoniache, con la prerogativa di nutrirsi del sangue umano (in particolare di bambini e puerpere), poco delineata nel Talmud ma protagonista di centinaia di leggende chassidiche: il risultato di questa fusione risulta perfettamente consono alla costruzione della figura vampiresca.

 

E, pur con il necessari debiti alla trasposizione di Stoker, maggior elemento diffusivo del mito vampiresco in occidente, il Nosferatu di Murnau ha molto più a che fare con questa originaria incarnazione ebraica del male che con il raffinato conte transilvano: se anche l'ambientazione è simile, mancano nel vampiro del 1922 il tormento romantico, la costruzione gotica della trama a più piani e l'insieme delle figure di contorno, mentre ciò che viene continuamente sottolineato, anche attraverso un sapiente gioco d'ombre (che altro non è se non un ulteriore, allusivo "gioco del doppio"), è proprio l'isolamento, il dolore quasi fisico (non a caso Nosferatu, il conte Orlok, è rappresentato con tutte le fattezze fisiche di un morto) della condanna all'eternità patita dal Dibbuk, male assoluto senza remissione.

 

Ma se, dunque, tanti indizi ci riconducono a ipotizzare una liaison tra termini come espressionismo filmico tedesco e cultura ebraico-cabalistica che, alla luce dei terribili accadimenti successivi (l'avvento di Hitler al potere data solo nove anni dopo l'ultimo film della corrente), appare piuttosto paradossale, resta da scoprire attraverso quali canali questa "intromissione" di termini altri possa aver avuto la possibilità fattuale di aver luogo all'interno di un sistema come quello della filmica germanica, fino a quel momento caratterizzato da termini ben meno profondi e più goderecci.

 

In questo senso, giova ricordare che influenze ebraiche sussistevano nel pensiero occidentale fin dal rinascimento (si pensi a Pico della Mirandola, senza contare le discusse tesi riguardanti influenze pre-ghematriache addirittura su Pitagora), che le sette cabalistiche si erano diffuse in tutta Europa da centinaia di anni e che una delle aree di maggior concentrazione di tale diffusione era stata quella mitteleuropea, che proprio intorno agli anni venti si verifica in Germania, ad opera dello scrittore Martin Buber, la grande rinascenza di una delle scuole ebraiche più importanti, quella chassidica e che, come appare evidente dalla presenza di nomi quali Freud, Marx, Einstein, Chagall o Mendelssohn (ciascuno dei quali indubitabilmente debitore, nel suo campo, verso influenze ebraico-cabalistiche), l'intellighentia germanofona del periodo a cavallo tra fine XIX e inizio XX secolo era fortemente permeata da elementi semiti.

 

Tutto ciò, però, poco varrebbe (potremmo, al più, parlare di prove indiziarie), se non trovassimo elementi di penetrazione diretta proprio nella cinematografia weimariana.

 

Ebbene, tali elementi esistono e sono rinvenibili in una presenza addirittura abnorme di ebrei (più o meno osservanti, poco importa stante la cultura di riferimento in cui laicità e religiosità si fondono senza un confine preciso) negli "studios" berlinesi dell'U.F.A. (la casa produttrice praticamente monopolistica in Germania) nel periodo in esame: ebreo era il direttore generale Erich Pommer, ebreo era Ernst Mayer, forse il massimo teorico dell'espressionismo filmico, nonché soggettista e sceneggiatore di tutti i copioni più importanti della corrente, ebrei erano Walter Rohrig, colui che portò l'espressionismo pittorico nel cinema con i fondali onirici di "Caligari", e Fritz Arno Wagner, direttore della fotografia di quasi tutti i film precedentemente annoverati, ebrei erano, infine, uno stuolo di attori a libro paga della casa di produzione. Insomma, almeno metà della cinematografia targata U.F.A. aveva legami con la cultura ebraica e, se ciò non bastasse, anche "non-ebrei" come i registi Wiene, Murnau e Wegener e gli "attori culto" Krauss, Veidt e Lupu-Pick si erano formati alla scuola di Max Reinhardt, il grandissimo attore-autore-regista teatrale berlinese che, in realtà, si chiamava Max Goldman e che basava la sua arte, come dimostrato da Artioli ("Il Ritmo e la Voce") sulla spiritualità di Jacob Boheme, senza dubbio tra i maggiori studiosi occidentali di cabala e tra i pensatori più influenzati dal sistema mistico ebraico.

 

Ecco, dunque, che l'ipotesi di una influenza cabalistica diretta, contro le tesi ufficiali più conclamate, ma in fin dei conti più riduttive e vaghe, di una semplice "influenza del pessimismo sociale imperante", sembra assumere uno spessore maggiore, aprendo, con la sua pista religiosa, uno scenario nuovo ma, soprattutto, un campo d'indagine vergine che sembra passibile di sviluppi anche imprevedibili e persino scioccanti, sulla base della notoria influenza cinematografica sulla teoria sociale nazista, per lo studio del panorama culturale europeo interbellico.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

AA.VV., Ebraismo e cultura ebraica del '900, La Giuntina, 1990;

U. Artioli, Il ritmo e la voce, Laterza 2005;

S. Avisar, Teatro ebraico, Einaudi 1958;

U. Barbaro, Storia del cinema tedesco, Ed. Riuniti, 1973;

A. Cohen, Il Talmud, Laterza 1989;

L. Eisner, Lo schermo demoniaco, Ed. Riuniti, 1983;

M. Ferro, Cinéma et histoire, Denoel-Gonthier, 1977;

G. Huaco, The sociology of film, Basic 1965;

S. Kracauer, From Caligari to Hitler, Princeton U.P. 1947;

V. Sánchez-Biosca, Sombras de Weimar, Verdoux 1990;

G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi, 1980;

Solmi, Cinema specchio del tempo, La Scuola 1965;

P.G. Tone, Strutture e forme del cinema tedesco degli anni '20, Mursia 1978.



 

 

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