contemporanea
L’ESPANSIONE
LE MANI DI STALIN SULL’EUROPA DOPO LA
FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
di Alessio Pitirra
Sei anni di guerra continua contro
l’Asse avevano forgiato i rapporti tra
alleati; alla conferenza di Potsdam
questi parevano saldi e sinceri di
fronte ai giornalisti. In realtà
duri scontri sulla logistica del
combattimento o la gestione delle
risorse avevano spesso avvelenato la
fiducia tra Stalin, Churchill e
Roosevelt. Anche la gestione del dopo
guerra portava dissapori e contese, e
queste emersero nella riunione del
Luglio del 45.
Dopo la sconfitta del Reich, i vincitori
si guardavano come cani che, con il
corpo della preda ancora caldo già
litigano per non dividerla. Questo terzo
incontro mostrava le reali intenzioni
dei vincitori. Gli Americani miravano al
primato economico mondiale mentre
l’Inghilterra sognava di riprendere il
controllo dei domini oltremare. Questi
due stati avevano sostenuto forti
perdite e volevano quindi consolidare le
proprie posizioni in Europa occidentale
e Asia. L’egemonia russa a est di
Berlino fu quindi il “do ut des”
di un accordo.
L’interesse verso i popoli dell’est
Europa da parte di tutti i partecipanti
fu minimo, la vicinanza geografica di
questi stati alla Russia fece sì che a
guerra finita questi non potessero
liberarsi dell’influenza di uno dei
maggiori vincitori. Ognuno al tavolo già
sapeva che Stalin non si sarebbe
limitato a un ruolo marginale su quest’
area, peraltro già sotto controllo
dell’armata rossa; certi di riuscire a
invadere l’economia avversaria in un
secondo momento, Inghilterra e Stati
Uniti si trovarono d’accordo alla
divisione del mondo in due sfere
d’influenza. La conseguenza fu che
l’egemonia Russa su questi popoli fu
così forte che questi “scomparvero” per
cinquant’anni, dietro una cortina di
ferro.
Il fato di queste popolazioni aveva ben
poche speranze. Dopo aver perso 20
milioni di uomini in quest’area durante
la guerra, Stalin ora ne considerava
fondamentale il controllo. L’Europa
dell’Est era soprattutto un cordone
militare di difesa contro una possibile
invasione americana specialmente, un
pericolo che dal Maggio 1945 pareva
sempre più reale.
Il ben più agguerrito Truman sedeva alla
Casa Bianca al posto del moderato
Roosevelt. «Gli Americani non hanno
dimostrato pietà nel bombardare un
Giappone già in ginocchio, ed escludere
i partiti Comunisti dai governi Nato»,
argomentava Stalin. Con queste premesse
un reale rapporto di collaborazione tra
due sistemi economico-politici
totalmente contrapposti era chiaramente
impossibile, inoltre, l’appena insediato
presidente Truman aveva maltrattato il
Ministro degli esteri Russo a Washington
e rimpiazzato il moderato Marshall con
l’ammiraglio Leahy ai vertici del
consiglio militare.
Anche senza opposizione internazionale
riconvertire così tante nazioni al
Comunismo non era facile per Stalin
perché il passaggio al nuovo sistema
politico doveva apparire volontario agli
occhi dell’opinione pubblica
internazionale. Nei piani di Stalin
nessuna nazione a ovest di Berlino
doveva essere esclusa dal controllo, una
catena di Stati doveva proteggere la
Russia da una sicura invasione della
Nato. Questa, in accordo con le attuali
ricerche, era una delle maggiori paure
di Stalin. Stati come la Cecoslovacchia,
democratici per tutto il periodo tra le
due guerre, dovevano abbracciare il
nuovo sistema politico-economico a ogni
costo.
Incuranti delle fievoli proteste degli
alleati occidentali i Russi pilotavano i
leader comunisti dei paesi dell’Est
infiltrando i governi democratici degli
stati satelliti prima di sfiduciarli.
Queste coalizioni, tramutate in
opposizioni, venivano quindi accusate di
essere traditrici della patria o
antidemocratiche, sino a che i loro
leader davano le dimissioni. Senza
un’opposizione forte, i comunisti
locali, come marionette, venivano
trasformate in icone viventi, seppur
subordinate ai loro burattinai.
A livello popolare la Russia aiutava
questi “leaders” a costituire e a
organizzare gruppi di sostegno sociale;
associazioni di volontari in difesa dei
lavoratori furono sponsorizzate e
dirette sino ad acquisire status
istituzionale, queste sarebbero state la
base di consenso per prendere il potere
elettorale. Questo piano fu applicato
con successo in tutte le nazioni
interessate, arrivando a contagiare
anche alcuni degli stati europei
coinvolti nel piano Marshall. Per
esempio in Italia e Francia i partiti
comunisti foraggiati, istruiti e
coordinati da Mosca raggiungevano
percentuali altissime di consenso, pur
senza arrivare al potere.
Già dal 1945 sotto le pressioni di
Stalin agli alleati i comunisti
cecoslovacchi riuscirono a infiltrarsi
nel governo Socialdemocratico di Benes,
un moderato finora in esilio a Londra.
Dopo le elezioni del 1946 questi
rafforzarono le loro posizioni,
costringendo la nazione a rifiutare il
piano Marshall; nel Febbraio 1948,
ottennero pieni poteri da un Benes
rimasto senza altri partiti nella
coalizione e impaurito di un probabile
conflitto civile. Quando Benes rassegnò
le dimissioni, lasciando agli uomini di
Stalin le redini del primo governo
comunista della Cecoslovacchia, gli
alleati non offrirono altro che una
tiepida denuncia a supporto all’ ex
presidente. Presto La nazione fu
allineata al Comecon (sistema di mercato
sovietico), dirottando gli investimenti
dall’agricoltura all’ industria, ed
entrando nel Patto di Varsavia.
Un altro paese dove Stalin non aveva
mostrato le migliori intenzioni era la
Polonia, nazione invasa dai Russi nel
1939, dove questi avevano ucciso tutti i
quadri militari dell’esercito Polacco
rimasti prigionieri. Il comportamento di
Stalin non era migliorato nel 1944
quando la Polonia era diventata un
alleato. Per non supportare la rivolta
contro i nazisti a Varsavia, voluta dal
governo polacco in esilio a Londra,
aveva ordinato l’Alt alle sue truppe e
l’aveva lasciata annegare nel sangue.
Al labile potere degli esiliati a
Londra, Stalin contrappose i polacchi
riparati a Mosca, il gruppo di Chelm.
Questi prende il suo nome dalla
cittadina da dove nell’Aprile 1945
questa fazione, protetta dall’Armata
Rossa, proclamava il primo governo
post-nazista in terra polacca. I leader
del governo esiliati a Londra non
poterono far altro che aggregarsi per
non perdere il poco potere rimastogli.
Forti del mancato appoggio da parte
inglese e americana alle forze
democratiche polacche, le truppe russe
nel paese cacciavano o arrestavano i
gruppi di partigiani non allineati. I
dirigenti del comitato di liberazione
polacco furono invitati a Pruzkow per un
accordo con Stalin in persona, invece
furono arrestati, condotti alla Lubianka
e costretti ad autoaccusarsi. I
rimanenti membri del Partito Socialista
Polacco invece vennero forzati a
fondersi con i comunisti e quindi
sparire dalla scena politica.
Dopo le elezioni del 1947 il gruppo di
Chelm divenne maggioranza definitiva,
suggellando il pieno passaggio al
comunismo e la definitiva nuova
costituzione del 1952 che affidava la
guida della Polonia al solo partito
Marxista.
L’Ungheria fu un altro esempio delle
male spartizioni territoriali tra i
vincitori. Il presidente Tildyafter
venne eletto col 57% dei voti ma, a
causa di un accordo, che prevedeva l’80
% d’influenza russa in Ungheria, egli
regalò posizioni chiave del governo,
quali il Ministero dell’Interno e la
polizia di stato ai comunisti del gruppo
di Rakosi che già dal Settembre 1944,
avevano preso il potere politico.
L’iscrizione al partito crebbe da 3.000
a 500.000 membri in meno di un anno. Il
divenuto Primo Ministro Rakosi accusò le
opposizioni di esser troppo moderate nel
rapporto con l’esercito, impadronendosi
anche della difesa.
Nonostante questo i comunisti persero le
elezioni nel 1947 e per questo fondarono
il Partito Ungherese dei Lavoratori,
costringendo i socialdemocratici a
fondersi. Il seguente passo fu la messa
in illegalità degli altri partiti usando
la tattica del salame. Rakosi inizio ad
affettare I rivali con accusa di essere
antidemocratici e reazionari. I leader
del partito dei piccoli proprietari e
Socialdemocratici, dimissionati l’anno
prima, ora venivano arrestati. Questo fu
solo l’inizio di una serie di processi
che sfocio nell’ uccisione di 350.000
persone e l’imprigionamento di altre
150.000.
In Bulgaria il leader Sergi Dimitrov
divenne primo ministro nel 1945 dopo 22
anni di esilio. Sindacalista membro del
Comintern sin dal 1918, dopo un fallito
sciopero di estrazione Marxista, scappo
dalla Bulgaria, prima in Germania e poi
in Russia. Durante il soggiorno in
Germania fu accusato anche del famoso
incendio al Reichstag del 1933 uscendone
assolto. Quindi scappò in Russia e
riapparve dopo il 1945, insieme con
l’Armata Rossa. Dimitrov si dimostrò un
leader davvero spietato; dopo aver
governato con gli altri partiti nel
Fatherland Front, nel 1945 prese il
potere, fucilando i maggiori quadri
dell’opposizione, abolendo la monarchia
nel Settembre del 1946 e organizzando un
plebiscito che vide il Partito Comunista
vincere con il 95.6 delle preferenze.
Quote Bulgare, appunto.
La Romania fu una facile preda. Dopo la
caduta del regime di Antonescu ci fu una
contesa dei maggiori partiti contro i
Moscoviti, una generazione di Romeni
educata in Russia. Le parti si
accordarono durante un meeting a Mosca
nel Gennaio 1945. Con l’approvazione del
re, i comunisti formarono un governo con
Socialisti e liberali, ma questi ultimi
insieme col partito dei Contadini,
furono presto messi fuori gioco dai
servizi segreti ormai in mano ai
comunisti. Nel 1946, dopo aver preso
l’80% dei voti furono proprio i
comunisti a formare il primo governo
monocolore, prima di mettere a processo
i leaders del fronte democratico e
abolire la monarchia.
L’omologazione economica al Comunismo di
questi paesi fu altresì rapida. Dal
Gennaio 1949 il Consiglio per il mutuo
aiuto nelle nazioni socialiste fu
formato (Comecon) per amministrare la
pianificazione economica di tutto il
sistema sotto l’occhio attento del
Partito Bolscevico. Il nuovo trend fu la
nazionalizzazione dei mercati nazionali,
grossi business privati furono inglobati
in agenzie di stato. I grandi latifondi
furono espropriati divisi e assegnati
politicamente come era avvenuto in
Russia durante la campagna contro i
Kulaki (piccoli proprietari terrieri).
L’Est Europa doveva rifiutare gli aiuti
economici del piano Marshall, i loro
leader non potevano partecipare alla
Conferenza di Parigi, il commercio con i
paesi oltre cortina diventava illegale e
solo oggetti di produzione sovietica
venivano ammessi nelle case.
Questo non cambiò neanche dopo la morte
di Stalin, e neanche dopo le denunce di
Kruscev al ventesimo congresso del
partito. L’obiettivo russo restava
quello di formare un’economia
centralista basata su un forte,
indipendente sistema industriale.
Infatti dopo il 1945 la produzione
industriale degli stati sovietici, in
confronto agli anni prima della guerra,
crebbe del 10%, ma a discapito del
settore primario e della popolazione
rurale.
Per esempio in Ungheria la produzione
industriale crebbe del 85% contro il 15%
dell’settore primario con conseguenti
carestie e morti soprattutto nelle
campagne. In Estonia più di 1.5 milioni
di contadini fu deportata altrove per
far spazio alle coltivazioni. Proprio i
contadini furono una delle classi che
subì maggiormente le decisioni del
governo centrale. Avevano visto il loro
mercato impoverirsi a danno di
investimenti in energia e manifatture.
Beni soggettivi come le abitazioni
diventavano di proprietà dello stato e,
anche se di povera qualità, venivano
assegnate prima agli immigrati russi.
È chiaro come un sistema cosi
sbilanciato, non tenente conto delle
necessità reali della popolazione, non
poteva assicurare l’approvvigionamento
delle masse in questi paesi,
contribuendo invece a incrementare
quegli squilibri sociali che voleva
eliminare. L’unico modo per tenere calmi
i dissidenti era la paura.
Nessuno fu immune dalla paranoia
Stalinista, anche leaders devoti come
Gomulka e Patrascanu, accusati di essere
troppo nazionalisti, furono felici di
andare in pensione purché vivi.
Dopo il processo di destalinizzazione
che seguì dopo il 1956, l’opinione di
massa spinse per un miglior bilanciato
rapporto di investimenti
nell’agricoltura e nell’industria,
maggior libertà di stampa e un minimo
rapporto con l’Occidente.
Come Gomulka, anche altri leader caduti
in disgrazia perché troppo liberali
furono riabilitati, e a volte
reinsediati al potere, ma neanche dopo
una maggior libertà di stampa e la
stabilizzazione dei rapporti con la
chiesa questi furono capaci di fermare
la discesa economica dell’URRS.
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