N. 134 - Febbraio 2019
(CLXV)
L’Impero mongolo: una straordinaria espansione
Da
Gengis
Khan
all’invasione
dell’Europa
orientale
di
Gian
Giacomo
Bonaldi
Il
primo
passo
per
avvicinarsi
ai
mongoli
e
alla
loro
particolare
storia
è
quello
di
fare
una
veloce
panoramica
sulle
fonti
a
riguardo,
sottolineando,
come
considerazione
preliminare,
che
la
storiografia
interna
al
mondo
mongolo
risentì
di
un’evidente
mitizzazione
celebrativa.
Per
l’ascesa
del
grande
condottiero
che
avrebbe
preso
il
nome
di
Gengis
Khan,
i
testi
più
importanti
sono
la
Storia
segreta
dei
mongoli
e l'Altan
debter
(Libro
d'oro):
la
prima
viene
scritta,
in
lingua
mongola,
poco
dopo
la
morte
dello
stesso
Gengis
Khan
ed è
possibile
che
fosse
consultabile
esclusivamente
dalla
famiglia
del
khan;
il
Libro
d’oro
è
stato
tramandato,
invece,
solo
in
traduzione
cinese.
Seppure,
come
detto,
più
tendenti
al
mito
che
storicamente
affidabili,
entrambe
le
opere
mantengono
la
loro
importanza
come
fonti
sulla
prima
storia
mongola.
Per
la
storia
più
avanzata
dell’Impero
gengiskhanide,
poi,
i
contributi
di
maggiore
importanza
provengono
dagli
storici
persiani
(come
Rashidoddin
e
Joveyni),
per
quanto
anche
le
loro
compilazioni
non
possano
considerarsi
effettivamente
imparziali,
trovandosi
essi
al
servizio
dei
mongoli.
Infine,
vanno
naturalmente
considerate
le
fonti
esterne
al
mondo
mongolo,
sia
arabe
che
europee:
per
quanto
riguarda
queste
ultime,
le
più
importanti
furono
i
resoconti
dei
coraggiosi
viaggiatori
che
si
avventurarono
in
un
mondo
a
loro
sconosciuto,
se
non
per
la
nota
pericolosità
dei
suoi
eserciti.
Il
diario
di
viaggio
più
famoso
è
senza
dubbio
quello
di
Marco
Polo,
ma
egli
non
fu
l’unico
né
il
primo
a
partire.
Fatte
queste
necessarie
premesse,
è
possibile
addentrarsi
concretamente
nella
peculiare
storia
dell’Impero
mongolo:
formatosi
con
incredibile
velocità,
esso
raggiunse
dimensioni
superiori
a
qualsiasi
altra
realtà
politica
coeva,
occupando
gran
parte
dell’Asia
e
arrivando
a
lambire
i
confini
europei.
Il
nucleo
originario
dei
futuri
dominatori
dell’Oriente
va
ricercato
nelle
valli
dei
fiumi
Kerulen
e
Onon;
da
qui,
lo
straordinario
carisma
di
Temujin,
presto
celebrato
come
Gengis
Khan
(termine
che
è
stato
tradotto
in
diversi
modi,
come
“signore
oceanico”
e
“figlio
del
cielo”),
unì
le
varie
e
bellicose
tribù
mongole
in
un
solo
temibile
esercito,
che
avrebbe
sbaragliato
ogni
avversario
incontrato
sulla
propria
strada.
La
strategia
usata
era
la
classica
tecnica
dei
cavalieri
nomadi:
a
grandi
linee,
molte
finte
sfiancanti
e
una
travolgente
carica
finale.
I
primi
a
farne
le
spese
furono
i
Jin,
la
dinastia
che
aveva
tolto
ai
Song
il
controllo
della
Cina
settentrionale,
spingendoli
nel
sud
del
paese.
Con
una
veloce
guerra
i
mongoli
si
impossessarono
dei
territori
dei
Jin
tra
il
1211
e il
1215;
per
il
regno
dei
Song,
geograficamente
sfavorevole
ai
cavalieri
mongoli,
i
tempi
di
assoggettamento
sarebbero
stati
molto
più
lunghi.
Resa
stabile
la
situazione
ad
oriente,
Gengis
Khan
poteva
volgere
il
suo
ambizioso
sguardo
verso
ovest.
Inviò
i
suoi
abili
generali,
Jebe
e
Sübetei,
a
sottomettere
il
regno
di
Güchülüg,
il
sovrano
naiman
(una
delle
popolazioni
mongoliche
sottomesse
al
momento
della
prima
espansione)
che
aveva
ricreato
un
proprio
dominio
nelle
terre
dei
qara
khitay
– i
quali,
a
loro
volta,
fuggendo
dai
mongoli
si
erano
spostati
dalla
Cina
all’odierno
Kazakistan.
Raggiunto
facilmente
questo
primo
obiettivo,
Gengis
Khan
in
persona
guidò
l’attacco
ad
un’altra
potenza
dell’Asia
Centrale,
quella
degli
shāh
del
Khwārezm.
Essi
avevano
sfruttato
la
crisi
selgiuchide
per
prendere
il
controllo
della
Persia,
senza
però
costruirvi
uno
stato
solido:
i
mongoli,
infatti,
superarono
agilmente
anche
questo
ostacolo,
mettendo
in
fuga
l’ultimo
shāh
e
suo
figlio,
Jalāloddin.
Quest’ultimo
si
salvò
miracolosamente
dalla
furia
di
Gengis
Khan,
il
quale,
seguendo
la
strategia
sempre
adottata
durante
le
sue
guerre
di
conquista,
puntava
ad
eliminare
l’élite
dei
popoli
che
voleva
sottomettere.
Jebe
e
Sübetei,
intanto,
erano
stati
inviati
all’inseguimento
del
padre
di
Jalāloddin,
proprio
per
sottolineare
la
sconfitta
degli
shāh
eliminandone
fisicamente
l’ultimo
esponente.
L’accanito
inseguimento
li
portò
fino
al
Caucaso,
dove
affrontarono
prima
i
georgiani
e
poi,
nel
primo
scontro
con
un’armata
europea,
un
esercito
composto
da
comani
e
russi:
la
battaglia,
avvenuta
sulle
rive
del
fiume
Kalka
il
31
maggio
del
1223,
segnò
l’ennesimo
trionfo
dei
mongoli.
Successivamente,
l’esercito
guidato
dai
due
generali
si
ricongiunse
a
quello
di
Gengis
Khan
in
Kazakistan,
dopodiché
i
mongoli
sparirono
dalla
scena
europea
così
come
erano
improvvisamente
apparsi.
La
gestione
delle
terre
conquistate
non
andava
oltre
la
richiesta
di
tributi
e
alcune
zone,
addirittura,
furono
completamente
abbandonate,
come
nel
caso
della
Persia.
Rientrato
in
patria
dopo
una
lenta
marcia,
Gengis
Khan
attaccò
gli
XiXia,
popolazione
dell’odierno
Gansu
rea
di
non
aver
fornito
le
truppe
richieste
al
momento
della
partenza
per
l’invasione
dell’Occidente.
Durante
l’assedio
alla
loro
capitale,
il
condottiero
mongolo,
forse
indebolito
da
una
ferita
dovuta
ad
una
caduta
da
cavallo,
morì
il
18
agosto
1227.
Seguendo
le
usanze
mongole,
che
Gengis
Khan
aveva
fatto
mettere
per
iscritto
in
un
codice
denominato
yasa,
lo
sterminato
impero
passò
ai
quattro
figli:
a
Chagatai,
Ögödei
e
Tolui
si
aggiunse
Batu,
figlio
di
Jöchi,
il
primogenito
che
era
premorto
al
padre.
Dopo
la
reggenza
di
Tolui,
il
quale
era
considerato
“guardiano
del
focolare”
in
quanto
più
giovane
(secondo
il
principio
dell’ötchigin),
il
titolo
di
Gran
Khan
passò
a
Ögödei,
forse
per
volontà
dello
stesso
Gengis
Khan.
Con
una
macchina
bellica
già
perfettamente
efficiente,
le
attenzioni
di
Ögödei
si
indirizzarono
al
piano
burocratico:
sviluppò
la
cancelleria
e il
servizio
postale
e
strutturò
una
capitale
a
Qaraqorum.
Per
queste
operazioni
si
servì,
sull’esempio
del
padre,
di
abili
funzionari
provenienti
dalle
popolazioni
sottomesse,
come
Yelü
Chucai
e
Cinqai,
rispettivamente
dei
qidan
e
dei
kerait.
L’espansione
rimaneva
un
obiettivo
centrale
per
i
mongoli:
Ögödei
sottomise
definitivamente
i
Jin
nel
1234,
dopo
che
essi
avevano
rialzato
la
testa
approfittando
dell’assenza
dei
dominatori,
dopodiché
attaccò
i
Song,
ma
anche
questa
volta
le
operazioni
troppo
a
sud
dovettero
essere
abbandonate.
Anche
Ögödei,
allora,
si
volse
verso
Occidente
e la
prima
operazione
fu
quella
di
sconfiggere
definitivamente
Jalāloddin,
che
aveva
sfruttato
l’anarchia
lasciata
in
Persia
per
riformare
un
proprio
regno.
Il
generale
Chormaghun
svolse
facilmente
il
compito
(1231)
e
formò
un
regno
militare
al
comando
del
quali
gli
successe
Baiju
(1242-56):
quest’ultimo
sottometterà
il
sultano
selgiuchide
di
Rūm
nel
1243
e
incontrerà
i
primi
inviati
cristiani
nelle
terre
mongole.
I
tartari
–
così
venivano
chiamati
in
Occidente,
con
sinistri
riferimenti
infernali
–
erano
ormai
parte
integrante
del
gioco
politico
del
Vicino
Oriente;
è
esemplare
in
questo
senso
la
spontanea
sottomissione,
in
chiave
antiislamica,
di
Hethum
I
(1226-69)
della
Piccola
Armenia,
cristiano,
il
quale
confidava
nell’ampia
componente
nestoriana
tra
i
nuovi
dominatori.
L'ultimo
importante
atto
di
Ögödei,
tramite
il
quriltai
(l’assemblea
dei
capi
mongoli)
del
1235,
fu
di
riunire
150.000
uomini
sul
Volga,
al
comando
di
Batu
e di
Sübetei
–
Jebe,
l'altro
grande
generale
di
Gengis
Khan,
era
morto
–
per
muovere
nuovamente
verso
occidente.
Con
Batu
partivano
anche
gli
altri
eredi
di
Gengis,
i
figli
di
Ögödei,
Chagatai
e
Tolui.
L'invasione
iniziò
nella
primavera
del
1236
e
già
in
autunno
i
mongoli
si
abbatterono
sui
bulgari
del
Volga.
Gli
invasori
si
stanziarono
per
qualche
anno
sul
basso
Don,
con
l'esercito
ampliato
da
truppe
turche
e da
altri
popoli
sottomessi
durante
l’avanzata,
attaccando
continuamente
i
comani
che
abitavano
quelle
terre:
40.000
di
loro,
guidati
dal
principe
Köten,
migrarono
in
Ungheria,
dove
il
re
Béla
IV,
nel
1239,
si
autonominò
sovrano
anche
del
popolo
comano.
Nel
1237
il
frate
domenicano
Giuliano,
missionario
nei
territori
degli
Urali,
avvertì
il
legato
papale
d'Ungheria
che
i
mongoli
erano
intenzionati
ad
attaccare
nuovamente
l'Europa,
con
un'organizzazione
ancora
migliore,
ma
il
suo
appello
rimase
inascoltato.
Ci
si
trovò
spiazzati,
quindi,
dalla
nuova
offensiva
mongola:
entrati
nei
territori
russi,
nel
1238
i
cavalieri
di
Ögödei
saccheggiarono
Suzdal',
Vladimir
e
Mosca,
con
il
granprincipe
Yuri
II
di
Suzdal'
che
cadde
in
battaglia
nel
marzo
1238.
Sottomessi
gli
ultimi
comani
e
gli
alani
(stanziati
a
nord
del
Caucaso),
gli
invasori
si
riversano
in
Ucraina,
dove
Kiev
venne
devastata
il 6
dicembre
1240.
A
quel
punto
l'esercito,
all'interno
del
quale
sorgevano
dissidi
tra
Batu
e
gli
altri
eredi
di
Gengis,
si
divise
in
due,
come
era
successo
nella
precedente
campagna
d'invasione.
Uno
dei
due
corpi
d'armata
entrò
in
Polonia,
vincendo
un
primo
scontro
con
le
truppe
polacche
nel
febbraio
del
1241,
dopodiché
saccheggiò
Sandomierz
e
Cracovia
e si
scontrò
in
Slesia,
il 9
aprile
1241,
con
un
esercito
di
polacchi,
crociati
tedeschi
e
cavalieri
teutonici,
guidati
da
Enrico
II
di
Slesia.
Ci
furono
gravi
perdite
per
entrambi
gli
schieramenti,
ma
ancora
una
volta
la
vittoria
fu
della
compagine
mongola,
con
quasi
tutti
i
soldati
europei
che
rimasero
sul
campo.
Il
distaccamento,
devastando
al
passaggio
anche
la
Moravia,
si
riunì
allora
al
resto
dell'esercito
in
Ungheria,
non
è
chiaro
se a
causa
delle
perdite
subite
o
come
piano
prestabilito.
L’altra
parte
dell'esercito,
guidata
da
Batu
e
Sübetei,
aveva
affrontato
Béla
IV
d'Ungheria,
sconfiggendolo
a
Mohi
l'11
aprile
del
1241,
con
una
manovra
che
Luciano
Petech
ha
paragonato
a
quella
celebre
di
Annibale
(Storia
dei
mongoli,
a
cura
di
E.
Menestò,
p.28).
Successivamente,
gli
invasori
avevano
saccheggiato
Pest
e
inseguito
il
re
ungherese
fino
in
Austria
e in
Friuli,
scendendo
poi
in
Dalmazia;
re
Béla
riuscì
a
fuggire
via
nave
e i
mongoli
attaccarono
allora
anche
Spalato
e
Cattaro,
per
poi
fermarsi
nella
puszta
ungherese.
L'11
dicembre
avvenne
la
svolta
cruciale
per
tutto
l'Occidente:
il
khan
Ögödei
morì
in
patria
e i
capi
mongoli
ripresero
la
via
della
Mongolia,
attraversando
la
Bulgaria
e la
Romania,
per
partecipare
al
nuovo
quriltai
elettivo.
In
Europa
il
motivo
dell'arresto
dell'invasione
si
verrà
a
sapere
solo
molto
tempo
dopo,
perciò
inizialmente
si
pensò
ad
un
vero
miracolo.
Batu
rientrò
nei
suoi
accampamenti
sul
basso
Volga
ai
primi
del
1243:
egli
fu
colui
che
più
guadagnò
da
queste
campagne,
formando
la
sua
Orda
d'Oro
abbastanza
lontana
dai
domini
diretti
del
Gran
Khan
per
essere
quasi
del
tutto
autonoma
e
padrona
di
tutta
l'Europa
orientale.
Möngke,
alla
guida
dei
mongoli
dal
1251
al
1259,
riconosceva
apertamente
come
il
potere
di
Batu
fosse
equivalente
al
suo:
“Nella
testa
ci
sono
due
occhi,
e
anche
se
essi
sono
due
la
vista
è
una
sola:
dove
un
occhio
getta
lo
sguardo,
lì
lo
getta
anche
l’altro.
Tu
sei
venuto
qui
passando
da
Batu,
ed è
dunque
necessario
che
tu
anche
ritorni
passando
da
lui.”
– le
parole
di
Möngke
vengono
riportate
da
Guglielmo
di
Rubruk,
un
frate
francescano
che
era
giunto
fino
alla
sua
corte
(Guglielmo
di
Rubruk,
Viaggio
in
Mongolia,
p.
261).
L'invasione
mongola
non
aveva
solo
devastato
l'Europa
Orientale
e
l'Asia
Centrale,
ma
ne
aveva
anche
modificato
gli
assetti,
provocando
ad
esempio
le
migrazioni
dei
comani
e
dei
corasmi
(il
popolo
degli
shāh
del
Khwārezm).
Nonostante
la
paura
crescente
e le
inquietanti
e
disperate
relazioni
di
chi
era
venuto
a
contatto
con
i
tartari,
l’imperatore
germanico
e il
papa
continuavano
imperterriti
a
scontrarsi
tra
loro
senza
intervenire,
anzi
ne
approfittarono
per
addossarsi
a
vicenda
la
responsabilità
dell’invasione
mongola
e
dell’inadeguata
difesa.
Federico
II
si
era
limitato
a
incaricare
suo
figlio
Corrado
di
raccogliere
uomini
per
la
difesa,
cosa
che
avverrà
con
eccessiva
lentezza;
la
dieta
di
Merseburg,
nell'aprile
del
1241,
aveva
abbozzato
deboli
provvedimenti,
mentre
l'arcivescovo
di
Colonia
invitava
alla
crociata
contro
gli
aggressori.
Per
quanto
riguarda
la
Chiesa
romana,
solo
a
partire
dal
1243,
con
Innocenzo
IV,
ci
saranno
i
primi
effettivi
gesti
di
attenzione
verso
la
minaccia
dei
tartari.
La
storia
mongola
successiva
è
caratterizzata
da
una
sempre
più
marcata
divisione
politica
–
già
abbastanza
netta,
nel
concreto,
dalla
morte
di
Gengis
Khan
– e
vede
le
diverse
realtà
formatesi
perdere
gradualmente
la
propria
identità,
fino
ad
essere
inglobate
da
altre
forze:
ad
esempio,
l’ilkhanato
di
Persia
(così
chiamato
dal
1256)
entrò
presto
nell’orbita
islamica.
Lo
stesso
Gran
Khan
Qubilai
–
colui
che
accolse
alla
sua
corte
la
famiglia
Polo
–
aveva
sancito
la
“sinizzazione”
del
suo
regno
spostando
la
capitale
imperiale
nell’odierna
Pechino.
La
data
chiave
della
caduta
mongola,
ad
ogni
modo,
è il
1368,
anno
in
cui
la
dinastia
Ming
recuperò
il
controllo
della
Cina.
Finiva
dunque
l’epopea
dell’Impero
fondato
da
Gengis
Khan:
in
mezzo
secolo
aveva
terrorizzato
il
mondo
conosciuto,
le
sue
orde
erano
arrivate
per
due
volte
ai
confini
dell’Europa
senza
che
nessun
esercito
riuscisse
a
fermarle.
La
forza
delle
popolazioni
mongole
risiedeva
nella
loro
straordinaria
attitudine
alla
guerra,
che
necessitava
solo
di
una
grande
personalità
che
sapesse
gestirla
e
convogliarla
verso
un
nemico
comune:
quando
Temujin,
Gengis
Khan,
riuscì
in
questo
intento,
si
scatenò
sull’Asia
una
tempesta
inarrestabile.
Solo
la
graduale
sedentarizzazione
e la
conseguente
uniformazione
con
le
popolazioni
sottomesse
riuscì
a
far
scemare
l’impeto
dei
mongoli,
il
cui
impero,
comunque,
durò
per
più
di
un
secolo
e
mezzo.
La
brevità
di
questa
esperienza
non
ne
ridimensiona
l’importanza,
anzi,
l’enormità
delle
conquiste
di
Gengis
Khan
e
dei
suoi
successori
è
resa
ancora
più
straordinaria
dalla
velocità
con
la
quale
esse
vennero
eseguite.
Tra
i
possibili
segreti
di
questa
rapidità
di
conquista,
quello
più
curioso
si
lega
alla
sfera
religiosa:
stando
alle
parole
di
Giovanni
da
Pian
del
Carpine
– un
altro
viaggiatore
che
raggiunse
la
corte
del
Gran
Khan
– i
mongoli
credevano
in
una
profezia
secondo
la
quale
avrebbero
combattuto
per
sessanta
anni
vincendo
ogni
avversario,
fino
a
che
non
sarebbe
arrivato
un
popolo
superiore
a
sconfiggerli
(Storia
dei
mongoli,
a
cura
di
E.
Menestò,
p.
357).
In
attesa
di
quel
momento,
il
loro
obiettivo
era
di
avanzare
e
sconfiggere
ogni
nemico,
curandosi
poco
–
almeno
nella
prima
fase
della
loro
espansione
–
della
gestione
dei
territori
sottomessi.
Anche
questo
aspetto,
decisamente
lontano
dal
modo
occidentale
di
concepire
la
conquista,
rende
la
storia
mongola
così
particolare
e
affascinante.
Riferimenti
bibliografici:
Michele
Bernardini,
Donatella
Guida,
I
mongoli.
Espansione,
imperi,
eredità,
Einaudi
editore,
Torino
2012.
Giovanni
da
Pian
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Carpine,
Storia
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a
cura
di
P.
Daffinà,
C.
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M.C.
Lungarotti,
E.
Menestò,
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Petech,
Fondazione
Centro
italiano
di
studi
sull’Alto
Medioevo
di
Spoleto,
1989
(ristampa
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Marco
Polo,
Il
Milione,
a
cura
di
Valeria
Bertolucci
Pizzorusso,
Adelphi
edizioni,
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Guglielmo
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Viaggio
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Mongolia,
a
cura
di
Paolo
Chiesa,
Fondazione
Lorenzo
Valla
/
Arnoldo
Mondadori
editore,
III
edizione,
marzo
2014.