N. 40 - Aprile 2011
(LXXI)
scienza ermetica
da Ermete Trismegisto alla Rivoluzione Scientifica
di Alessandro Ortis
Sine
afflatu
divino,
nemo
vnquam
vir
magnus:
Senza
ispirazione
divina,
nessun
uomo
è
grande.
Questa
frase
latina
è
un’iscrizione
posta
nella
raffigurazione
del
laboratorio
dell’alchimista
mistico,
realizzata
dal
tedesco
Heinrich
Khunrath,
filosofo,
cabbalista
e
seguace
di
Ermete
Trismegisto,
nel
XVI
secolo.
Ancora,
durante
il
Rinascimento,
era
viva
la
pratica
dell’alchimia,
l’arte
di
trasformare
in
oro
i
metalli
vivi,
nata
nell’antico
Oriente,
intorno
al
II
sec.
a.C-
III
sec.
d.C.
Diffusasi
in
Europa
grazie
ai
testi
di
grandi
alchimisti-chimici
arabi
verso
l’anno
Mille,
viene
considerata
la
madre
della
chimica
moderna
fino
alla
Rivoluzione
Scientifica
del
Seicento,
con
le
scoperte
di
Galileo
e
Newton.
Nel
corso
dei
secoli,
tuttavia,
la
scienza
della
ricerca
alchemica,
disciplina
“trasversale”
che
ha
toccato
la
filosofia,
la
storia
e la
religione
si è
posta,
fino
circa
al
Cinquecento,
sempre
un
solo
obiettivo:
ottenere
una
sostanza,
detta
“quintessenza,
considerato
l’elemento
più
puro
tra
i
quattro
elementi
canonici-
acqua,
aria,
terra,
fuoco
-,
per
trasformare
e
manipolare
i
metalli
poveri.
La
prima
comparsa
di
questo
termine
si
ha
in
un
trattato
medievale
dello
pseudo-Lullo,
De
secretis
naturae
seu
de
quinta
essentia,
in
cui
indicava
la
parte
più
pura
di
una
cosa
ottenuta
dopo
cinque
distillazioni.
Altri
testi
alchemici
medievali,
come
la
Expositio
epistulae
Alexandris
Regis,
definiscono
così
la
quintessenza:
«La
quintessenza
è
vita
in
senso
proprio,
non
è
calda,
né
umida,
né
fredda,
né
secca,
né
mascolina,
né
femmina[…]
la
quintessenza
è lo
spirito
che
vivifica
tutte
le
cose
e le
trasforma,
che
dà
vita
a
ogni
germe,
accende
ogni
lume
e fa
fiorire
ogni
fiore».
La
più
importante
definizione
di
quintessenza,
comunque,
è
attribuibile
al
minorita
francese
Johannes
de
Rupescissa
con
il
trattato
De
considerazione
quintae
essentiae
rerum
omnium
(seconda
metà
del
XIV
secolo).
In
questo
testo
si
fa
riferimento
alla
quintessenza
attribuendone
caratteristiche
ontologiche,
quasi
divine:
infatti,
viene
descritta
come
il
cielo,
incorruttibile
e
perfetta,
come
una
miracolosa
radice
della
vita,
creata
da
Dio
per
preservare
i
corpi
dalle
corruttele.
I
n
particolare,
sarebbe
una
sostanza
che
sta
sopra
i
quattro
elementi
presenti
in
natura,
riprendendo
quanto
già
detto
nella
Expositio
sulle
caratteristiche
neutre
di
questo
“quinto
elemento”.
Per
tutto
il
Medioevo,
alla
ricerca
della
quintessenza,
di
questa
aqua
vitae
sono
state
attribuite
proprietà
mistiche
e
celesti:
sostanza
che
nutre
fa
crescere
la
vita,
madre
di
tutti
i
metalli.
È
una
materia
prima
universale,
che
si
trova
in
ogni
corpo
ed è
un
dono
che
Dio
ha
fatto
agli
uomini.
L’alchimista,
l’uomo
illuminato
da
questa
arte,
spesso
non
era
uno
specialista
della
materia,
visto
che
molte
categorie
sociali
erano
interessate
all’argomento,
come
principi
e
monaci,
filosofi
e
scienziati.
Egli,
inoltre,
non
amava
che
i
suoi
studi
e i
suoi
esperimenti
fossero
noti
al
di
fuori
del
suo
laboratorio:
l’alchimista
è
una
persona
solitaria,
ritirata
nello
suo
studio
proprio
come
un
devoto
religioso
attento
al
suo
ufficio.
È
molto
interessante
ricordare
come,
in
alcune
iconografie
medievali,
l’alchimista
viene
raffigurato
come
un
minatore,
che
dalla
miniera,
intesa
come
corpo
oscuro,
estrae
lo
spirito
minerale,
ovvero
la
quintessenza,
la
sostanza
prima.
Nel
corso
dei
secoli,
durante
il
Medioevo
in
particolare,
era
piuttosto
diffusa
la
figura
del
ciarlatano,
colui
che
professava
una
falsa
alchimia
e
che
spacciava
i
frutti
dei
propri
esperimenti,
spesso
liquidi
realizzati
con
semplici
procedimenti
chimici,
come
importanti
elisir
o
pozioni
magiche.
Ancora
qui,
l’iconografia
medievale
raffigura
la
falsa
alchimia,
cercando
così
di
condannarla
non
solo
con
i
testi
ma
anche
con
le
immagini:
il
falso
alchimista
appariva
come
una
scimmia,
considerata
nel
Medioevo,
ma
così
fino
al
XVII
secolo,
un
falso
doppione
dell’uomo,
un’animale
che
ne
intacca
la
natura.
Un’importante
testimonianza
della
condanna
della
falsa
alchimia
viene
da
Dante,
che
dedica
un
intero
canto,
nella
Commedia,
ai
falsari
dei
metalli,
ovvero
ai
falsi
alchimisti.
Negli
anni
di
Dante,
era
molto
diffusa
l’alchimia,
tanto
che
lo
stesso
autore
toscano
frequentò
dei
corsi
di
chimica,
dove
conobbe
l’alchimista
Capocchio.
Dante
dedica
alla
materia
il
canto
XXIX
dell’Inferno,
dove
trova
due
falsificatori
di
metalli:
Griffolino
d’Arezzo
e
Capocchio.
Essi
sono
puniti,
secondo
la
regola
del
contrappasso,
con
la
malattia,
ovvero
la
corruzione
e
l’alterazione
del
loro
aspetto
fisico,
corrisposte
alla
falsificazione
dei
metalli
che
hanno
promosso
in
vita.
Anche
in
questo
canto,
ritorna
la
metafora
della
scimmia,
e
denota
come
questa
figura
fosse
assai
diffusa
in
letteratura
e
nell’immaginario
medievale:
Sì
vedrai
ch’io
son
l’ombra
di
Capocchio
/
che
falsai
i
metalli
con
l’alchìmia
/ e
te
dee
recordar,
se
ben
t’adocchio
/
com’io
fui
di
natura
buona
scimia.
Sostanzialmente,
come
la
scimmia
si
diletta
a
imitare
ciò
che
fanno
gli
uomini,
qui
Capocchio
è
punito
per
essersi
dilettato
a
imitare
ciò
che
facevano
i
veri
alchimisti.
Si
pone
il
problema,
tuttavia,
del
vero
significato
di
“alchimia”.
Per
fare
questo,
è
necessario
andare
alla
ricerca
etimologica
del
termine,
con
cui
troviamo
la
conferma
delle
caratteristiche
trascendenti
di
questa
scienza.
Varie
sono
state
le
interpretazioni
date
al
termine:
nel
lessico
bizantino
Suida,
la «chēmeia»
è la
preparazione
dell’oro
e
dell’argento;
Constantinus
Pisanus,
alchimista
del
XIII
secolo,
la
definisce
affidando
ad
ogni
lettera
della
parola
un
preciso
significato
alchimia:
A-
actio,
L-
levis,
C-
conferens,
H-
honorem,
I-
infinitum,
M-
ministrano,
I-
igne,
A-
argentum
et
aurum
et
lapides
preciosus.
La
traduzione
della
frase
che
si
ottiene
unendo
questi
termine
intenderebbe
l’alchimia
come
«l’opera
lieve
che
conferisce
onore
infinito
governando
con
il
fuoco,
l’argento,
l’oro
e le
pietre
preziose».
In
realtà,
il
vocabolo
alchimia
deriverebbe
dal
sostantivo
arabo
«al-
kīmijā»,
giunto
in
Europa
con
i
primi
testi
arabi
sull’argomento
a
partire
dal
XII
secolo,
attraverso
la
presenza
araba
in
Spagna
con
i
Mori
e la
diffusione
della
materia
in
Sicilia
alla
corte
di
Federico
II,
presso
cui
Michele
Scoto
effettuava
i
suoi
esperimenti
alchimistici.
Il
termine
deriverebbe
da
diverse
forme
di
derivazione
greca
come
«χημεία»
(chēmeia),
«χημία»
(chēmia),
«χυμεία»
(chumeia),
«χυμία»
(chumia),
tutte
varianti
tra
loro
per
fenomeni
fonetici
particolari.
Inoltre,
ci
sarebbe
una
derivazione
dal
verbo
greco
χέω
(chēo)
che
significa
versare,
colare,
fondere
a
sua
volta
collegato
a
diversi
termini
del
sanscrito
e
l’iranico.
Questa
diffusa
influenza
tra
i
termini
e
vocaboli
di
lingua
diverse,
mostra
come
questa
arte
dell’alchimia
fosse
diffusa
non
solo
in
Arabia,
ma
in
tutte
le
culture
del
Mediterraneo
e di
alcune
zone
dell’Asia.
Tuttavia,
una
facile
ricognizione
sul
significato
del
termine
non
si
accompagna
ad
una
facile
ricostruzione
sulle
origini
di
questa
scienza:
gli
studiosi
hanno
trovato
tracce
dell’alchimia
nell’India
vedica,
in
Assiria
e
Babilonia,
nei
secoli
VII
e
VIII
a.C.,
in
Cina
nel
IV
secolo
a.C
e in
Egitto
(qui
con
importanti
estratti
della
letteratura
egizio-ellenistica.
Ed è
proprio
dalla
cultura
egiziana
che
prende
forma
la
figura
di
Ermete
Trismegisto,
da
molti
riconosciuto
come
il
padre
dell’alchimia.
Tanto
che
spesso
si
usa
il
termine
“ermetico”
come
sinonimo
per
alchimia.
Perché,
però,
si
parla
dell’importanza
di
Ermete
Trismegisto?
Questo
personaggio
leggendario,
la
cui
credenza
risale
all’epoca
ellenistica,veniva
venerato
come
maestro
di
sapienza
e
ritenuto
il
fondatore
dell’ermetismo.
Ermete,
inoltre,
è
considerato
l’autore
di
una
serie
di
opere
che
vanno
sotto
il
nome
di
Corpus
Ermeticum,
che
per
tutto
il
Medioevo
ha
influenzato
gli
alchimisti
per
il
suo
contenuto
filosofico
e
mistico.
Chi
era,
allora,
Ermete?
È
fortemente
radicata
nella
cultura
greca
l’idea
che
la
terra
d’Egitto
fosse
l’unica
depositaria
della
tradizione
scientifica,
misterica
e
che
fosse
la
protettrice
del
sapere
del
loro
tempo.
Questa
cultura
sarebbe
stata
trasmessa
agli
egizi
dal
dio
Thot,
che
concesse
loro
anche
l’arte
della
lavorazione
dei
metalli.
I
greci
identificarono,
successivamente,
il
dio
Thot
con
Hermes,
a
sua
volta
interpretato
dai
latini
con
il
nome
Mercurio.
Non
solo:
la
patristica
ha,
in
seguito,
identificato
Ermete
con
Mosè,
ritenuto
quest’ultimo
un
contemporaneo
del
primo.
Per
spiegare
questa
sovrapposizione
tra
le
due
figure,
è
molto
utile
analizzare
la
raffigurazione
di
Ermete
Trismegisto
nel
pavimento
del
Duomo
di
Siena.
Realizzata
su
tarsia
marmorea,
attribuita
a
Giovanni
di
Maestro
Stefano
nel
1488,
l’immagine
senese
è
una
delle
più
celebri
di
Ermete,
soprattutto
perché
collocata
in
un
luogo
di
fede
cristiana.
Essa
si
trova
all’ingresso
della
cattedrale,
e si
vedono
raffigurate
tre
figure:
al
centro
Ermete,
con
la
mano
sinistra
appoggiata
sopra
un
riquadro
con
un’iscrizione
latina,
e
alla
sua
destra
due
personaggi
ai
quali
tende
un
libro
aperto,
anch’esso
contenente
delle
frasi
in
latino.
Ai
piedi
di
Ermete,
due
righe
che
ne
attribuiscono
la
contemporaneità
con
il
Mosè
cristiano.
Quest’ultima,
recitando
«Hermes
Mercurius
Trismegistus
Contemporaneus
Moysi»,
accoglierebbe
l’idea
che
Ermete
fosse
realmente
esistito
al
tempo
di
Mosè.
Due
padri
della
Chiesa,
come
Agostino
ed
Eusebio,
sono
i
primi
che
operarono
questo
accostamento:
il
primo,
nel
suo
De
civitate
Dei,
scrisse
che
«quando
in
Egitto
nacque
Mosè[…]
in
quei
tempi
esistesse
anche
Mercurio,
famoso
in
quanto
esperto
in
molte
arti
che
insegnò
agli
uomini».
Eusebio,
invece,
nella
Praeparatio
evangelica,
dichiarò
che
Mosè
fu
maestro
di
Orfeo,
scoprì
la
filosofia,
interpretò
i
sacri
testi
egizi
e
per
questo
fu
onorato
dagli
Egizi
come
un
dio
e
chiamato
Ermete.
Un
successivo
accostamento
tra
i
personaggi
è
dichiarato
da
Clemente
Alessandrino,
teologo
e
filosofo
greco
del
II
secolo
d.C,
che,
citando
gli
Atti
7,
22
evidenziò
come
Mosè
fosse
stato
istruito
dagli
egiziani
e
che
fu
lui
il
primo
a
trasmettere
agli
Ebrei
l’arte
di
scrivere;
questo
merito,
tuttavia,
la
patristica
lo
attribuisce
a
Ermete
nei
confronti
degli
egiziani
stessi.
Con
questa
ricostruzione,
è
facile
intuire
il
senso
dell’iscrizione
contenuta
nel
libro
che
Ermete,
nell’immagine,
pone
alle
due
figure
alla
sua
destra:«Suscipite
O
Licteras
Et
Leges
Egyptii»,
tradotta
con
«Prendete
le
lettere
e le
leggi,
o
Egiziani».
Da
ricordare
la
fonte
di
queste
righe:
un’opera
dell’autore
latino
Lattanzio,
il
quale
scrisse
che
Mercurio
«aveva
trasmesso
agli
egiziani
i
principi
delle
leggi
e
delle
lettere,
[…]
e in
quanto
eruditissimo
in
ogni
sorta
di
dottrina,
dottissimo
nella
conoscenza
di
arti
e
scienze,
venne
perciò
soprannominato
Trismegisto».
L’aggettivo
appena
citato,
significherebbe
“tre
volte
grande”,
e
sarebbe
comparso
verso
la
metà
del
II
sec.
d.C,
mentre
prima
si
usava
l’aggettivo
“grandissimo”
per
parlare
di
Ermete.
Pertanto,
i
due
uomini
presenti
nella
raffigurazione
sarebbero
necessariamente
egiziani,
anche
tenendo
in
considerazione
l’abbigliamento
e
l’aspetto
fisico.
Il
personaggio
più
distante
da
Ermete,
glabro
e
senza
barba,
a
differenza
dell’altro,
ha
una
lunga
tunica
bianca
e la
parte
della
veste
sulla
testa
mostra
una
perfetta
aderenza
al
cranio,
il
che
fa
pensare
che
quest’uomo
sia
calvo.
Queste
caratteristiche
concordano
con
quelle
degli
antichi
sacerdoti
egizi,
i
quali
indossavano
una
veste
di
lino
e
avevano
il
cranio
completamente
rasato.
Il
secondo
personaggio,
colui
che
riceve
da
Ermete
il
libro
con
l’iscrizione,
ha
un
turbante
sul
capo,
una
veste
colorata
con
una
sciarpa
al
collo,
le
scarpe
bordate
con
la
fibbia
e
una
lunga
barba.
L’iconografia
quattrocentesca
rappresentava
così
i
dotti
orientali,
e si
può
pensare
che
egli
sia
Mosè.
Considerando
la
posizione
dell’immagine
nel
Duomo
di
Siena,
situata
tra
la
tarsia
della
Sibille
dell’annuncio
del
Principio
e
quella
della
Fine,
Ermete
Trismegisto
sarebbe
il
profeta
pagano
che
il
latino
Lattanzio
descriveva
come
«maestà
di
un
unico
e
sommo
Dio».
Egli
seppe
annunciare
la
venuta
del
Figlio
di
Dio
agli
uomini,
e
pertanto
sarebbe
dotato
di
somma
sapienza
al
pari
del
Mosè
cristiano.
Gli
alchimisti
medievali
credevano
che
il
maestro
Ermete
fosse
realmente
esistito
nell’antico
Egitto,
ed
andavano
alla
ricerca
di
notizie
e
conoscenze
sull’arte
nel
Corpus
Ermeticum,
soprattutto
nel
Basso
Medioevo.
È in
quest’epoca,
infatti,
che
l’alchimia
vive
il
suo
periodo
di
maggiore
splendore,
con
personaggi
come
Alberto
Magno,
Ruggero
Bacone
e
Raimondo
Lullo.
Quest’ultimo,
in
particolare,
missionario
catalano
al
servizio
del
re
d’Aragona
Giacomo
I il
Conquistatore
e
inventore
dell’ars
combinatoria,
fu
definito
“uomo
dai
poteri
magici.
A
lui,
infatti
sono
ascrivibili
molte
opere
alchemiche,
tra
le
quali
la
più
importante
è il
De
secretis
naturae
seu
de
quinta
essentia,
citato
in
precedenza.
A
causa,
probabilmente,
del
proliferare
delle
opere
di
Lullo
sull’alchimia
e
sulla
sua
pratica,
papa
Giovanni
XXII
(1249-1334)
emanò
una
bolla
con
cui
si
vietava
la
pratica
alchemica,
parificandola
alla
magia,
alla
stregoneria
e
alla
negromanzia,
definendo
gli
alchimisti
rei
«de
crimine
falsi».
In
questo
modo,
l’alchimia
medievale
esauriva
la
sua
forza
e
veniva
riposta
negli
angoli
nascosti
della
conoscenza
e
della
scienza,
trasformandosi
nei
secoli
XIV
e XV
in
pratica
farmacopea
e
medica,
il
cui
massimo
esponente
fu
lo
svizzero
Paracelso.
Successivamente,
con
l’avvento
del
metodo
scientifico
nel
Seicento,
l’alchimia
veniva
accostandosi
alle
dottrine
esoteriche
e
sapienziali
della
cabbala,
abbandonando
le
ricerche
chimiche
dei
secoli
precedenti.
Così,
l’arte
alchemica
venne
relegata
fuori
dalla
scienza
moderna,
spostandosi
su
caratteri
para-scientifici
ed
immaginari
che
non
potevano
più
fornire
una
visione
della
natura
accettabile
secondo
i
parametri
della
scienza.