N. 67 - Luglio 2013
(XCVIII)
UN'EREDITÀ AVVELENATA - PARTE Iii
Dal Lago di Vico alla Valle del Sacco
di Laura Ballerini
Nel
corso
degli
anni
trenta,
Mussolini
mise
in
atto
un
programma
di
riarmo
bellico
che
prevedeva
uno
dei
suoi
punti
nevralgici
nell’area
intorno
il
Lago
di
Vico
(Vt).
Questo
lago
vulcanico
vantava
infatti
una
posizione
strategica,
trovandosi
in
prossimità
del
Servizio
Chimico
Militare
di
Roma,
degli
impianti
di
Cesano,
del
Poligono
di
Tiro
di
Civitavecchia,
coperto
dal
segreto
dei
boschi
cimini.
L’area
intorno
il
Lago
di
Vico
era
dunque
perfetta
per
il
progetto
fascista
della
“Città
della
Chimica”,
ovvero
un
centro
segreto
di
ricerca
e
produzione
di
armi
chimiche,
contenenti
per
lo
più
fosgene,
iprite
e
altri
gas
asfissianti.
Venne
costruita
dunque
una
base
occupante
circa
20
ettari,
con
bunker
per
gli
esperimenti,
magazzini
sotterranei,
caserme,
uffici
e
alloggi,
dove
risiedevano
le
centinaia
di
scienziati
e
tecnici
convocati
per
il
progetto.
Nel
corso
della
seconda
guerra
mondiale
questa
base,
benché
non
fosse
stato
completato
il
progetto
originario,
era
in
grado
di
rifornire
i
reparti
speciali
dell’Esercito
fascista
di
centinaia
di
tonnellate
di
armi
chimiche.
Nonostante
l’attenzione
alla
massima
segretezza,
tutto
ciò
venne
poi
scoperto
e
monitorato
dall’intelligence
britannica,
che
redasse
numerosi
rapporti
sulla
“Chemical
City”,
i
quali,
poi
resi
pubblici,
hanno
costituito
un
importante
fonte
per
la
ricostruzione
della
storia
del
lago.
Concluso
il
conflitto
mondiale,
si
concluse
anche
la
produzione
di
armi
e il
centro
sopravvisse
fino
agli
anni
`70
producendo
candele
nebbiogene
e
fumogeni
per
sedare
le
rivolte
il
piazza.
Questo
luogo
rimase
nel
segreto
anche
nel
1982,
quando
la
Valle
di
Vico
divenne
la
prima
Riserva
Naturale
del
Lazio
e
alcune
aree
a
poche
centinaia
di
metri
dal
reticolato
militare
furono
dichiarate
Zona
di
Protezione
Speciale
e
Sito
di
Interesse
Comunitario.
La
situazione
cambiò
nel
1996:
in
quell’anno,
infatti,
una
prima
bonifica,
svolta
in
assoluta
segretezza,
portò
alla
luce
60
cisterne
di
fosgene,
larghe
4
metri,
in
pessime
condizioni
(tra
lesioni
e
ruggine),
trovate
a
pochi
metri
di
profondità.
Si
procedette
dunque
a
trasferire
il
liquido
in
nuovi
bidoni,
con
destinazione
il
centro
nazionale
di
bonifica
e
stoccaggio
di
Civitavecchia;
durante
questo
delicato
e
segreto
procedimento,
però,
una
nube
di
fosgene
si
levò
sulle
rive
del
lago,
asfissiando
alla
morte
un
malcapitato
ciclista.
Questa
tragedia
rivelò
ai
cittadini
e
agli
Enti
Locali
le
reali
condizioni
del
loro
territorio.
La
bonifica
avviata
in
segreto
si
concluse
pubblicamente
nel
2000,
e da
quel
momento
il
problema
sembrò
risolto.
Tutto
sembrava
tranquillo
finché
nel
novembre
del
2009
il
lago
si
colorò
del
rosso
delle
imponenti
fioriture
di
un
alga
tossica
(Plankhotrix
rubescens);
ciò
allarmò
l’Arpa
Lazio
che
iniziò
le
indagini
sulla
salute
ambientale
del
sito.
In
un
campione
di
sedimento
prelevato
a 40
metri
di
profondità,
si
riscontrarono
valori
di
Cadmio
Nichel
e
Arsenico
superiori
alla
CSC,
Concentrazione
Soglia
di
Contaminazione
(Febbraio
2010).
Nel
giugno
del
2010,
l’Arpa
Lazio
continuò
le
sue
indagini
su
sei
campioni,
che
evidenziarono
preoccupanti
livelli
di
Arsenico,
Cadmio
e
Piombo
nelle
acque
del
lago.
A
quel
punto
la
Provincia
di
Viterbo
chiese
l’intervento
del
Ministero
della
Difesa,
il
quale
commissionò
l’indagine
geofisica
del
sito
al
Centro
Tecnico
Logistico
Interforze
N.B.C.,
che
rilevò
la
presenza
di
“anomale
masse
interrate
presso
il
Magazzino”.
La
corrosione
di
questi
ordigni
aveva
diffuso
nel
territorio
limitrofo
eccessive
quantità
di
arsenico
e
pertanto
il
Centro
consigliava
la
rimozione
di
questi
ultimi
e la
bonifica
del
sito.
Dopo
proroghe
e
lungaggini
burocratiche
i
lavori
di
bonifica
sono
finalmente
iniziati
il
novembre
scorso,
svolgendosi,
a
differenza
del
`96,
nella
totale
trasparenza.
A
Maggio
le
operazioni
si
concluderanno
e i
cittadini
potranno
tornare
a
vivere
il
Lago
di
Vico.
Qui
le
attese
e le
proteste
hanno
dato
i
loro
frutti,
mandando
un
messaggio
di
fiducia
e
speranza
agli
altri
siti
italiani
afflitti
da
analoghi
veleni.
Nel
1912,
per
non
rimanere
indietro
rispetto
alle
altre
grandi
potenze
europee,
e in
vista
della
conquista
della
Libia,
il
governo
italiano
decise
di
dotarsi
anch’esso
di
una
vera
industria
bellica.
Per
l’edificazione
delle
fabbriche
venne
scelta
la
Valle
del
Sacco
(dall’omonimo
fiume),
una
porzione
del
territorio
del
Lazio
meridionale,
nota
ai
più
come
Ciociaria.
In
particolare,
il
sito
dove
sorgerà
il
futuro
comune
di
Colleferro
(RM)
venne
considerato
l’ideale
per
la
sua
protezione
dal
mare,
possibilità
di
scarico
industriale
nel
fiume
Sacco,
vicinanza
ai
nodi
ferroviari
e a
Roma.
Prese
così
vita
la
produzione
militare,
che
continuò
incessante,
arricchendosi
anche
di
un
settore
chimico.
Negli
anni
`70
e
`80
le
industrie
condussero
un’attività
particolarmente
frenetica,
i
cui
scarti
di
produzione
vennero
interrati
compromettendo
terribilmente
la
salute
del
territorio
circostante.
Un
inchiesta
condotta
dal
giornalista
Gianluca
Di
Feo,
pubblicata
nel
2009
in
Veleni
di
Stato,
collega
quest’imponente
produzione
alla
collaborazione
con
il
dittatore
iracheno
Saddam
Hussein,
che
proprio
in
quegli
anni
stava
ricostruendo
il
suo
arsenale
in
chiave
chimica;
tuttora
le
industrie
belliche
colleferrine
vendono
tecnologie
per
la
modifica
di
armi
convenzionali
in
armi
chimiche,
anche
se
non
è
noto
a
quali
paesi
e in
quali
quantità.
Le
ripercussioni
di
questa
intensa
attività
industriale
sull’ambiente
circostante
iniziarono
a
rendersi
note
all’inizio
degli
anni
`90,
con
la
sentenza
del
Tribunale
di
Velletri
per
il
ritrovamento
di
fusti
tossici
contenenti
scarti
di
produzione.
In
seguito,
nel
1998,
la
Commissione
Bicamerale
per
il
traffico
illecito
di
rifiuti
ribadiva
la
contaminazione
del
territorio
data
l’anomala
presenza
di
pesticidi.
Successivamente,
nel
2005,
in
campioni
di
latte
crudo
di
un’azienda
agricola,
vennero
trovati
alti
livelli
di
beta-esaclorocicloesano
(Beta-HCH),
una
sostanza
proveniente
da
pesticidi
tossici
che,
nel
2008,
uno
studio
condotto
dal
Dipartimento
di
epidemiologia
della
ASL
Roma
riscontrò
nel
sangue
degli
abitanti
dell’area.
Prima
di
arrivare
all’uomo
la
contaminazione
aveva
toccato
le
acque,
conseguentemente
le
colture
e
gli
animali
di
allevamento;
numerose
ordinanze
impedirono
il
consumo
di
frutta
e
verdure
coltivate
nelle
zone
a
rischio,
e
più
di
6000
capi
di
bestiame
vennero
abbattuti.
Lo
studio
sopracitato
collegava
l’aumento
di
disturbi
addotti
dalla
popolazione
del
luogo,
come
le
malattie
cardiovascolari
e
tumori
allo
stomaco
e
alla
pleura,
all’assunzione
di
sostanze
tossiche,
frutto
dell’attività
industriale.
Questi
accadimenti
hanno
mosso
sempre
di
più
la
popolazione
della
Valle,
tanto
che
alcuni
cittadini,
nel
2008,
hanno
fondato
la
Rete
per
la
Tutela
della
Valle
del
Sacco
(ReTuVaSa),
Onlus
dal
2010,
che
ha
preso
parte
ai
processi
inerenti
il
territorio,
per
proporne
un
diverso
sviluppo.
Tra
questi
ultimi,
il
processo
inerente
gli
illeciti
nella
gestione
degli
inceneritori
di
Colleferro.
Nel
marzo
del
2009
infatti
si
rilevarono
procedure
criminose
nella
gestione
dei
rifiuti:
smaltimento
illecito,
modifica
dei
valori
limite
delle
emissioni
in
atmosfera
e
falsificazioni
di
certificati
di
conferimento.
Il
10
gennaio
scorso
un
motivo
di
grande
soddisfazione
per
ReTuVaSa
è
stata
l’ordinanza
di
rinvio
a
giudizio
emessa
da
Tribunale
di
Velletri
per
i 26
indagati
nel
processo
sopracitato.
Retuvasa
è
stata
ammessa
come
parte
civile
in
questo
processo,
come
in
quello
dell’inquinamento
della
Valle
del
Sacco
e in
un
altro
che
unisce
Malagrotta
a
Colleferro,
sempre
per
la
gestione
illecita
dei
rifiuti.
La
nuova
questione
che
in
questo
momento
interessa
i
sostenitori
per
la
tutela
della
valle,
è il
declassamento
da
Sito
di
Bonifica
di
Interesse
Nazionale
(SIN)
della
Valle
del
Sacco
in
Sito
di
Interesse
Regionale
(SIR)
e
quanto
questo
possa
giovare
o
meno
al
risanamento
dall’area,
dopo
cento
anni
di
veleni.