N. 69 - Settembre 2013
(C)
ERACLIO, IL GOLEM DI BARLETTA
storia di un Colosso
di Andrea Zito
Tutti
conosciamo
o
abbiamo
quantomeno
sentito
parlare
del
Colosso
di
Rodi,
un’enorme
statua
bronzea
alta
32
metri
e
raffigurante
il
dio
Helios,
realizzata
nel
III
sec.
a.C.
e
voluta
dagli
abitanti
di
Rodi,
la
maggiore
delle
isole
greche
del
Dodecanneso,
per
celebrare
la
vittoria
sull’esercito
di
Demetrio
I
Poliorcete
(337–283
a.C.),
che
invano
aveva
tentato
l’assalto
e la
conquista
dell’isola.
Sorgeva
in
prossimità
del
porto
ed
era
menzionata
tra
le
sette
meraviglie
del
mondo
antico,
ma
di
essa
non
ne
resta
traccia
se
non
nelle
descrizioni
contenute
all’intero
di
opere
storico
letterarie
dell’antichità.
Stessa
sorte
è
toccata,
secoli
dopo,
al
Colosso
bronzeo
che
sorgeva
a
partire
dalla
metà
del
I
sec.
d.C.
a
Roma,
nell’area
presso
cui
sarebbe
stato
eretto
nei
decenni
successivi
l’Anfiteatro
Flavio,
e
che
da
esso
assunse
poi
il
nome
“Colosseo”.
Fatta
erigere
da
Nerone
(37-68
d.C.)
con
chiaro
intento
autocelebrativo,
a
conferma
della
nota
megalomania
dell’imperatore
della
dinastia
giulio-claudia,
la
statua
andò
distrutta
nel
V
sec.
d.C.,
ma
ne
resta
la
memoria
storica.
Un
esempio
tangibile
poi,
e
stavolta
alla
portata
di
quanti
volessero
ammirarne
i
possenti
resti,
è
rappresentato
dalla
statua
colossale
di
Costantino
I il
Grande
(274-337
d.C.).
Si
tratta
di
una
raffigurazione,
probabilmente
seduta,
dell’imperatore
romano,
famoso
per
l’Editto
di
Milano
(313
d.C.)
che
riconobbe
per
la
prima
volta
libertà
di
culto
ai
cristiani
di
tutto
l’impero,
ponendo
fine
a
una
sanguinosa
epoca
di
persecuzioni.
Scolpita
attorno
al
330
d.C,
doveva
misurare
probabilmente
12
metri
d’altezza
(la
sola
testa
è
alta
2.60
metri),
fu
realizzata
in
marmo
bianco
e
sul
suo
volto
si
denotano
già
le
influenze
iconografiche
proprie
della
ritrattistica
bizantina
(volto
squadrato,
capelli
e
sopracciglia
fortemente
stilizzati
e
innaturali,
occhi
grandi
e a
mandorla,
per
un
risultato
complessivo
fortemente
idealizzato),
ben
lontana
dalla
perfezione
tipica
della
ritrattistica
classica
greco-romana,
realistica
pur
quando
celebrativa.
Tutto
ciò
che
della
statua
rimane
(una
magnifica
testa
dicevamo,
ma
anche
una
mano,
i
piedi
e
poco
altro)
può
essere
apprezzato
nel
cortile
del
Palazzo
dei
Conservatori
a
Roma
(Campidoglio),
dove
hanno
sede
i
Musei
Capitolini.
Numerosi
esempi
famosi,
antichi
o
moderni,
potremmo
ancora
tirare
in
ballo.
Eppure
qui
in
Italia
è
custodito
un
esempio
quasi
perfettamente
conservato
di
arte
plastica
colossale
non
molto
noto
ai
più:
stiamo
parlando
del
Colosso
di
Barletta,
ribattezzato
“Eraclio”
dagli
abitanti
del
luogo
(Arè
nel
dialetto
locale).
Statua
bronzea
alta
circa
4,5
metri,
era
originariamente
incorniciata
da
una
loggia
marmorea
a
sesto
acuto
detta
“Sedile
del
Popolo”,
realizzata
in
epoca
rinascimentale
ed
abbattuta
intorno
al
1925.
Oggi
si
erge
in
tutta
la
sua
imponenza
su
un
largo
piedistallo
marmoreo
accanto
alla
Chiesa
medievale
del
Santo
Sepolcro,
nel
centro
storico
della
cittadina
bardulense,
quasi
a
proteggere
e
vegliare
su
tutti
i
suoi
abitanti.
Essa
ritrae
un
fiero
e
robusto
personaggio
di
rango
imperiale,
ammantato
di
sontuose
vesti
militari
d’alto
rango,
con
la
mano
sinistra
reggente
una
sfera
(simbolo
di
autorità
imperiale)
e la
destra
alzata
in
atto
di
stringere
una
croce,
ergendosi
a
paladino
della
cristianità.
Completano
il
tutto
un
diadema
con
pendenti
che
adorna
il
capo
(singolarmente
privo
della
calotta
cranica),
un’acconciatura
pesante
ma
accurata
e un
volto
dai
tratti
severi,
marcati,
innegabilmente
bizantini.
I
piedi
originariamente
pare
calzassero
“campagi”,
calzature
bizantine
aperte
anteriormente,
simili
a
babbucce
di
seta,
poi
rimpiazzati
da
semplici
stivali
morbidi.
Il
primo
documento
storico
ufficiale
relativo
al
Colosso
risale
al
1309,
quando
un
editto
di
Carlo
d’Angiò
(1226-1285),
re
di
Napoli
e
Sicilia
nonché
annientatore
della
dinastia
sveva
(sotto
la
sua
spada
nel
1266
cadde
infatti
Manfredi,
figlio
naturale
ed
erede
di
Federico
II,
nonché
due
anni
dopo
il
giovane
Corradino,
nipote
dello
“stupor
mundi”
ed
ultimo
rappresentante
degli
Svevi)
autorizzava
i
frati
domenicani
di
Manfredonia
a
fondere
la
statua
per
realizzarne
campane
di
bronzo,
a
servizio
di
una
chiesa
in
costruzione
presso
la
frazione
di
Siponto.
Cosa
che
avvenne
solo
in
parte,
limitatamente
agli
arti
inferiori,
parte
dei
superiori
e,
si
suppone,
alla
calotta
cranica,
visto
che
un
restauro
dei
primi
anni
’80
del
secolo
scorso
ha
appurato
che
la
testa
e il
busto
facevano
parte
di
un’unica
fusione,
risalente
addirittura
alla
prima
metà
del
V
sec.
d.C,
mentre
braccia
e
gambe
furono
aggiunte
nel
XIV
sec..
Qui
si
ferma
la
documentazione
storica
più
antica.
Ma
ad
essa
possono
aggiungersi
molteplici
ipotesi,
talora
verisimili
talaltra
fantasiose,
che
trovano
velate
conferme
in
diverse
fonti
storico-letterarie.
Attorno
al
1600
il
gesuita
Giovan
Paolo
Grimaldi,
tradendo
un
certo
gusto
per
la
leggenda
a
scapito
del
dato
storico,
narrava
di
come
la
statua
raffigurante
l’imperatore
bizantino
Eraclio
fosse
stata
predata
dai
Veneziani,
a
seguito
del
sacco
di
Costantinopoli
del
1204,
e
abbandonata
in
mare
presso
i
lidi
barlettani
durante
il
tempestoso
viaggio
di
ritorno,
a
causa
della
sua
pesantezza.
La
statua
però
non
recherebbe
alcun
segno
di
permanenza
“marina”.
Così
come
è da
escludere,
a
dispetto
del
nome
popolare
con
cui
è
annoverato
il
Colosso,
l’identificazione
con
Eraclio
I
(610-641
d.C.),
sulla
base
di
analisi
stilistiche
piuttosto
dettagliate,
di
cui
parleremo
più
avanti.
Un’altra
tradizione,
risalente
ad
un
resoconto
del
frate
minorita
Tommaso
da
Pavia
datato
1279,
collegherebbe
la
statua
direttamente
a
Federico
II
(1194-1250).
Tommaso
infatti
racconta
che
nel
1231
l’imperatore,
appassionato
di
antichità
romane
e
profondo
assertore
della
“renovatio
imperii”,
ossia
l’idea
di
far
rivivere
la
grandezza
politico-culturale
della
Roma
imperiale,
illuminata
però
dalla
luce
cristiana,
condusse
una
serie
di
scavi
a
Ravenna,
terra
di
alleati
imperiali
(il
casato
dei
Trevisari),
presso
un
mausoleo
di
epoca
tardo-romana
(V
sec.
d.C.),
all’epoca
erroneamente
identificato
con
quello,
assai
simile
ma
diverso,
di
Galla
Placidia.
Sotto
una
grande
finestra
laterale,
alta
5
metri,
sarebbero
stati
rivenuti
degli
speroni
(calcaria)
arrugginiti
e
parzialmente
dorati,
atti
a
fissare
stabilmente
una
statua
altrettanto
imponente.
Il
frate
non
parla
esplicitamente
del
rinvenimento
della
statua
in
se’,
ma
si
ipotizza
che
quei
“calcaria”
non
fossero
altro
che
i
sostegni
del
Colosso
barlettano,
caduto
dal
sito
originario
a
causa
di
un
terremoto
o
del
semplice
abbandono
e
rinvenuto,
si
presume,
proprio
sotto
la
finestra
stessa.
A
seguito
della
riconquista
federiciana
di
Ravenna
del
1240,
la
statua
sarebbe
stata
trasportata
per
ordine
imperiale
fino
in
Puglia,
nell’ambito
di
quella
vasta
opera
di
edificazione
e
“abbellimento
urbanistico”
che
soprattutto
al
sud
contraddistinse
l’età
di
Federico
II.
Foggia,
Lucera,
Melfi:
il
viaggio
del
Colosso
potrebbe
aver
conosciuto
diverse
tappe
nei
successivi
69
anni
prima
dell’ubicazione
attuale
attestata,
come
si è
visto,
fin
dal
1309.
Ma
chi
è
l’autorevole
personaggio
di
cui
la
statua
reca
le
sembianze?
Di
certo,
dicevamo,
è da
escludere
Eraclio
I:
la
pettinatura
infatti
tradisce
una
moda
definitivamente
tramontata
alla
fine
del
V
sec.
d.C..
Diversi
studiosi
hanno
proposto
l’identificazione
con
Valentiniano
III
(419-455
d.C.),
per
via
della
somiglianza
con
una
testa
marmorea
che
ritrae
il
medesimo,
custodita
al
Louvre,
nonché
per
la
presenza
dei
pendenti
con
perle
che
adornano
il
diadema,
riscontrabili
anche
in
alcune
immagini
di
Licinia
Eudossia,
sua
moglie.
Altri
ancora,
collocando
la
realizzazione
dell’opera
nel
primo
quarto
del
V
sec.
e
tirando
in
ballo
questioni
anagrafiche,
lo
identificano
con
Onorio
(395-423
d.C.).
Ma
l’ipotesi
più
recente,
e
accreditata
ai
più,
vuole
riprodotte
nella
statua
le
fattezze
di
Teodosio
II
(401-450
d.C)
all’età
di
circa
trentotto
anni:
sarebbe
stata
commissionata
dal
genero
Valentiniano
III
(che
ne
sposò
la
figlia
Licinia)
per
celebrare
il
suocero,
imperatore
d’Oriente,
il
quale
aveva
posto
sul
trono
d’Occidente
il
genero
sostituendolo
all’usurpatore
Giovanni
Primicerio.
Ciò
sarebbe
confermato
anche
dal
gioiello
di
arte
gota
incastonato
sul
diadema
del
Colosso,
riconducibile
ad
Elia
Eudossia,
donna
di
origine
franca
e
madre
dello
stesso
Teodosio.
Ipotesi
che
si
intrecciano
con
la
realtà
storica,
ed è
forse
questa
indeterminatezza
riguardo
le
sue
origini
che
accresce
il
fascino
misterioso
del
Bronzo
di
Barduli,
corroborato
da
una
vecchia
leggenda
che
gli
anziani
del
luogo
ricordano
ancora.
Si
racconta
che
Eraclio,
avendo
intravisto
grazie
alla
sua
statura
navi
saracene
in
arrivo
sulle
coste
barlettane,
su
invito
degli
abitanti
si
fosse
indirizzato
verso
il
porto
per
scacciare
il
nemico.
Sedutosi
sui
frangiflutti,
attese
lo
sbarco.
Vedendolo
piangente
e
disperato,
gli
invasori
gli
avrebbero
chiesto
cosa
fosse
successo,
e
lui
avrebbe
risposto
che
i
suoi
concittadini
non
avevano
voluto
arruolarlo
nell’esercito
e lo
avevano
espulso
poiché
era
l’uomo
più
basso
e
più
debole
di
tutti.
Un
astuto
stratagemma
che
generò
il
terrore
nell’animo
dei
Saraceni,
i
quali
credettero
che
Barletta
fosse
una
città
abitata
da
tremendi
giganti.
Ciò
bastò
a
farli
tornare
in
fretta
sulle
navi,
ed a
salvare
gli
abitanti
della
città.
Un
“golem”
benevolo,
che
da
secoli
continua
a
vegliare
sulle
sorti
dei
locali
e ad
affascinare
tutti
coloro
che
vi
si
imbattono.
Riferimenti
bibliografici:
G.
Purpura, Il
"Colosso"
di
Barletta
ed
il
Codice
di
Teodosio
II,
Atti
del
IX
Convegno
Internaz.
Accad.
Costantiniana
di
Perugia,
2 -
6
ottobre
1989,
Perugia,
1993,
pp.
457-480.