N. 9 - Febbraio 2006
E'
FINITA L'ERA SHARON?
La situazione politica
in Israele dopo il voto palestinese, a due mesi dalle
elezioni politiche
di Leila
Tavi
“La
democrazia è una fragile scommessa”.
Queste le parole con cui Angelo Panebianco esordisce
nell’editoriale del Corriere della Sera del 28
gennaio. Nello stesso numero si trova un’interessante
intervista a Paul Barman, scrittore e giornalista
americano, membro del World Policy Institute e
filosofo neoliberale, che commenta la vittoria di
Hamas nei territori palestinesi con queste parole:
“[…] per costruire una democrazia bisogna prima
rendere democratica la gente, ossia vincere la
battaglia delle idee, idee come la libertà e i
diritti umani […] il presidente [George W.
Bush] non possiede le doti intellettuali per
comandare la battaglia delle idee. Sembra considerare
la libertà come una bacchetta magica. Inoltre
la sua condotta non è un modello di democrazia: si è
alleato a dittatori, non ha prevenuto scandali come
quello delle torture dei detenuti islamici”.
La
politica interventista dell’amministrazione Bush jr.
in Medio Oriente all’insegna del motto “freedom
for oil” non ha funzionato e il risultato
delle elezioni palestinesi ne è una chiara e ulteriore
conferma, dopo Ahmadinejad in Iran, i fratelli
musulmani in Egitto e ancor prima l’Algeria.
Nel
lungo periodo anche in Iraq la nuova dirigenza sciita,
arrivata al potere con il sostegno degli USA dopo il
rovesciamento del regime di Saddam Hussein e le
elezioni del 15 dicembre 2005, potrebbe assumere
posizioni avverse al governo statunitense e allacciare
alleanze con gli ayatollah iraniani.
Il Medio Oriente non è l’Europa orientale.
Non condividiamo la teoria di Paul Barman per cui gli
Occidentali dovrebbero abbracciare la causa della
democratizzazione del Medio Oriente così come
hanno abbracciato quella dei paesi comunisti. Gli
Americani dovrebbero una volta per tutte capire che,
nonostante negli stati islamici autoritari ci siano
correnti moderate e movimenti di emancipazione
femminile, i filo-occidentali sono pochi.
L’Occidente non sarà mai un modello culturale per gli
Arabi.
Per
i Palestinesi l’unico deprecabile modello occidentale
trapiantato nei loro territori è Israele, in passato
considerato un usurpatore. Lo stesso nome di Ariel
Sharon richiama alla memoria degli Arabi il
massacro di Sabra e Shatila, i due campi profughi
in Libano, in cui tra il 16 e il 18 settembre 1982,
sotto gli occhi dei soldati israeliani inermi, circa
2.000 palestinesi vengono massacrati e uccisi da
milizie cristiane. I Palestinesi considerano Sharon
indiretto responsabile del massacro. Una commissione
d’inchiesta in Israele, la commissione Kahane,
indaga sui fatti e Sharon è costretto a dimettersi da
Ministro della difesa.
Tra
il 1992 e il 1995, dopo la transizione dell’Olp del
1989 e con i laburisti di Rabin, si può parlare di una
possibile apertura al dialogo tra gli Israeliani e i
Palestinesi. Con l’assassinio di Yitzhak Rabin da
parte di Yigal Amir, un estremista di destra
israeliano, al governo va il partito Likud del nuovo
premier Benjamin Netanyahu fino al 1998, quando torna
al potere il partito laburista con Ehud Barak. Durante
il governo Netanyahu Sharon ricopre la carica di
Ministro degli esteri e partecipa agli accordi di
Wye. Con la debacle di Netanyahu alle elezioni del
1999 Sharon diventa capo del partito Likud a 71 anni.
Il
28 settembre 2000 Sharon visita come capo
dell’opposizione il Monte del Tempio nella
città vecchia a Gerusalemme. I Palestinesi
interpretano il gesto di Sharon come una provocazione,
ci sono degli scontri: è l’inizio della seconda
Intifada. La pace di Camp David nel luglio
2000 è l’ultimo tentativo da parte del presidente
americano Bill Clinton per la riconciliazione tra i
due popoli.
Nel
marzo 2001 Sharon è eletto come “salvatore della
nazione” e ricopre la carica di Primo Ministro.
Coloro i quali lo avevano sfiduciato come Ministro
della difesa lo acclamano come Premier.
Ma è
la decisione di ritirarsi da Gaza del 2003 che fa
crescere la considerazione dei leader occidentali per
Sharon e il consenso popolare. Danny Gillerman,
l’ambasciatore dell’Onu in Israele, dichiara che per
gli Israeliani in questi ultimi anni Ariel Sharon ha
rappresentato “il padre della nazione”. Ma gli
anni di governo Sharon sono stati anche anni di dura
repressione dei gruppi underground palestinesi
e degli assassini politici dei leader di tali gruppi,
tra cui lo sceicco Yassin, leader spirituale di
Hamas, ucciso due anni fa a Gaza da un missile
israeliano.
Alle
elezioni del 25 gennaio scorso davanti ai seggi di
Gerusalemme Est (6.300 palestinesi su 200 mila
residenti) non è stata l’immagine dei candidati ad
accompagnare i votanti alle urne, ma gigantografie
dello sceicco Yassin.
Anche se Hamas sorprendentemente non è stato votato
dalla maggioranza dei Palestinesi perché ha dichiarato
guerra santa a Israele, ma per aver promesso un
cambiamento in politica interna, la lotta alla
corruzione.
Ma
le posizioni di Hamas riguardo ai rapporti con Israele
non sembrano ancora essersi ammorbidite;
Mahmoud Zahar,
il portavoce del partito estremista che, dalla morte
dei due leader uccisi dagli Israeliani Yassin e
Rantisi non ha successori ufficiali, ha ribadito alla
stampa che se mai dovesse diventare il primo ministro
si rifiuterà di trattare con Israele, se non
attraverso degli intermediari.
Hamas non romperà però la tregua solo in risposta a
eventuali attacchi di Israele. Per Zahan gli
interlocutori principali del nuovo governo palestinese
dovrebbero essere i paesi arabi, in particolar modo
Egitto e Giordania, tra i paesi occidentali l’Europa.
“Israele ci vende la benzina a 6 sheqel al litro,
gli Egiziani chiedono solo uno sheqel.”, ha
dichiarato Zahan.
L’esito delle consultazioni elettorali nei territori
palestinesi rappresenta una svolta per il futuro
assetto nella regione e condizionerà le prossime
elezioni politiche in Israele del 28 marzo dove, con
Sharon in ospedale dal 4 gennaio in coma per un ictus
celebrale, il nuovo partito Kadima (Avanti),
fondato dal primo ministro dopo la sua decisione di
uscire il 21 novembre dal partito di destra Likud, pur
essendo dato come favorito dagli exit poll,
soffre dell’assenza dalla scena politica del
settantasettenne premier in lotta tra la vita e la
morte. Sharon lascia dietro a sé un vuoto politico
nell’incertezza della strategia da seguire nei
confronti dei nuovi interlocutori palestinesi.
Ma
come ha scritto il saggista israeliano Gadi Taub,
collaboratore del quotidiano Maariv e docente
di Comunicazione all’Università ebraica di
Gerusalemme: “Un governo forte guidato da Hamas
è meglio che l’anarchia”. Taub è convinto che
anche un partito estremista come Hamas una volta al
potere dovrà abbandonare la linea dura e allinearsi su
posizioni più pragmatiche e de facto sarebbe
costretto a scendere a compromessi con Israele pur non
riconoscendone de iure lo status.
L’alternativa è il caos, la lotta civile, estremisti
di fazioni diverse allo sbaraglio. “Mentre io
ipotizzo un governo forte, capace di controllare gli
estremisti e di smantellare le organizzazioni militari
clandestine, come fece David Ben Gurion alla
fondazione dello Stato di Israele. [Quello che non
è riuscito finora ad al-Fatah] Diceva
giustamente Max Weber, il politologo, che lo
Stato detiene il monopolio dell’uso legittimo della
violenza. Se esistono eserciti privati, significa
che non c’è lo Stato. E l’obiettivo principale è che i
Palestinesi abbiano il loro Stato” ha dichiarato
Gadi Taub.
Le
lotte tra le Hamule, i clan familiari
avversari come al Masri di Bet Hanun e
al Kafarnah, sono
all’ordine del giorno nella striscia di Gaza,
abbandonata dai coloni israeliani nell’agosto del
2005. I clan si danno battaglia per il controllo del
territorio, hanno un codice d’onore come i clan
mafiosi dell’Italia meridionale e ogni capo ha imposto
ai membri del suo clan di votare per uno o per l’altro
candidato durante le elezioni di mercoledì 25 gennaio.
Nonostante la volontà di Ehud Olmert, il premier
israeliano ad interim, ex Vicepremier ed ex
sindaco di Gerusalemme, di proseguire la politica
inaugurata con un atto unilaterale da Sharon del
ritiro da Gaza anche per i territori occupati in
Cisgiordania, il processo di pace in Medio Oriente
sta subendo una pericolosa involuzione.
Sempre il quotidiano liberale israeliano Maariw
ha condotto un’inchiesta in cui è emerso che il
consenso popolare di Sharon ha toccato l’apice negli
ultimi due anni grazie al connubio vincente della sua
politica che ha unito alla tradizionale fermezza
dell’uomo forte del momento una buona dose di
pragmatismo nella questione palestinese. Il Premier è
riuscito alla fine della sua carriera a conquistarsi
il rispetto del popolo israeliano rilanciando il mito
della figura paterna, quasi a voler “ripulire” quella
del macellaio di Sabra e Shatila
nell’immaginario collettivo palestinese.
Ma
cenni di insofferenza e di disubbidienza agli
strumenti tradizionali della politica del buon
padre di famiglia si sono riscontrati anche tra i
coloni israeliani in seguito al forzato ritiro di
Gaza, per i quali Sharon non è certo la figura di
riferimento.
Il
ritiro da Gaza è stato annunciato da Ariel Sharon il
18 dicembre 2003 durante la conferenza di Herzliya
ed attuato nell’agosto del 2005. All’indomani della
sesta conferenza di Herzliya (paese a pochi chilometri
da Tel Aviv), organizzata dal Centro di Studi
Strategici questo mese, l’attuale premier Olmert
ha dichiarato che verranno smantellati anche gli
insediamenti in Cisgiordania, nonostante 230.000
coloni ebrei oppongano una ferma resistenza allo
sgombero.
Nel
nord della Cisgiordania, tra Neblus, Tubas
e Jenin, gli scontri avvengono soprattutto con
i contadini palestinesi; a Hebron la situazione
è critica: i coloni proseguono gli insediamenti-blitz
nel cuore della vecchia casbah palestinese. Il
portavoce dei coloni di Hebron, David Wilder, ha
minacciato che all’arrivo dei soldati qualcuno
potrebbe chiudersi in casa con i figli e farsi saltare
in aria.
A
guardarli i ragazzini di Hebron non sembrano diversi
dai loro coetanei palestinesi: la kippà
che maschera il volto per i ragazzi, foulard in testa
e gonne lunghe per le loro compagne, mentre lanciano
sassi contro i soldati israeliani.
Gli
estremisti non hanno ottenuto consensi solo tra i
Palestinesi, ma anche tra gli avversari. I metodi dei
terroristi palestinesi si sono rivelati vincenti anche
agli occhi dei coloni israeliani che li applicano
nella crisi interna della Cisgiordania contro il
proprio esercito. Lo slogan di Gush Katif dello scorso
anno: “un ebreo non sparge sangue ebreo”
potrebbe venir dimenticato in Cisgiordania dove, tra
l’altro, hanno trovato rifugio 8.000 profughi tra i
coloni evacuati da Gaza, agguerriti e armati.
La
conditio sine qua non da parte dell’attuale
governo di Olmert per il riconoscimento dello Stato di
Palestina è la fine degli atti di terrore da parte
delle milizie armate irregolari, ma per la prima volta
nella sua storia Israele si potrebbe ritrovare di
fronte a una strategia del terrore di matrice
nazionale che potrebbe partire proprio da Hebron,
diventata il centro ideologico della destra sionistica
religiosa.
A
Gerusalemme la situazione è diversa: il 63% degli
abitanti di religione ebraica si è dichiarato
favorevole a un eventuale accordo con il governo
palestinese e a una possibile divisione della città.
Qui gli abitanti di religione musulmana sono in
qualche modo integrati: hanno un lavoro, l’assistenza
sanitaria e una carta d’identità israeliana. Forti
pressioni da parte degli USA e dell’Unione europea
hanno permesso, nonostante la ferma opposizione del
Ministro degli esteri israeliano Silvan Shalom
(Likud), l’allestimento di seggi elettorali nella
parte est della città santa in occasione delle
politiche del 25 gennaio. I militanti di Hamas si sono
presentati con la lista “Riforma e Cambiamento”,
senza il loro logo per non avere problemi con la
giustizia israeliana.
Ora
Hamas deve scegliere di abbandonare le armi e di
intraprendere la via del confronto democratico in
parlamento e in politica estera altrimenti la
diplomazia internazionale guidata dagli USA non
permetterà mai la costituzione di uno Stato
palestinese. Il “quartetto diplomatico” per la
mediazione ha dichiarato oggi 30 gennaio alla stampa
che tutti i finanziamenti stanziati per l’Autorità
palestinese verranno congelati se Hamas non
riconoscerà lo Stato di Israele e non rinuncerà
definitivamente allo strumento della lotta armata per
la formazione dello Stato palestinese.
Hamas è in realtà già entrato in una fase di
transizione simile a quella dell’Olp dal 1974 al 1988,
ossia dal congresso di Beirut a quello di Algeri.
L’Organizzazione per la liberazione della Palestina
abbandona in questi anni la corrente massimalista
della lotta a oltranza contro Israele per il dialogo
in nome del compromesso territoriale.
Per
l’attuale scenario 14 anni sarebbero troppi, i membri
di Hamas devono decidere prima della prossima
bancarotta di febbraio di scegliere a loro volta la
via del compromesso, per non perdere gli aiuti
finanziari dall’Occidente; ma è come chiedere a un
lupo di diventare agnello.
L’Occidente, e soprattutto gli Stati Uniti, da sempre
sostenitori di Israele, vogliono cambiare le carte in
tavola da quando il confronto democratico nei
territori palestinesi ha avuto un esito a loro non
gradito e inaspettato.
Ora
gli Israeliani e l’Occidente vogliono detronizzare
un’organizzazione che è stata creata dalla politica
dell’occupazione dei precedenti governi
israeliani; se Israele fosse stata pronta al
compromesso con l’Autorità palestinese negli anni
Novanta del 20. secolo, Hamas non avrebbe avuto adesso
così tanti consensi. “Wir Israelis waren die
Erfinder der Hamas” [Noi Israeliani siamo
stati gli artefici di Hamas] ha dichiarato lo storico
Moshe Zimmermann, direttore del Centro per la storia
tedesca dell’Università di Gerusalemme, durante un
intervista per lo Stuttgarter Zeitung. “Diese
Suppe haben wir uns selbst eingebrockt” [Ci
siamo cucinati da soli questa zuppa], ha commentato lo
storico.
Nel
frattempo in Israele si pensa al successore di Sharon;
Tzipi Livni
(Kadima) è una tra i papabili che potrebbero essere
eletti alla guida del paese: quattro anni al servizio
del Mossad, i servizi segreti israeliani, figlia di
Eitan Livni, ex comandante dell’Irgun,
l’organizzazione militare per la nascita dello Stato
di Israele, ha ricoperto il ruolo di Ministro della
giustizia durante il governo Sharon, attuale Ministro
degli esteri, soprannominata Mrs. Clean per la
sua integerrima condotta durante i 7 anni di mandato
parlamentare al Knesset e sostenitrice del
ritiro da Gaza. La quarantasettenne, avvocato di
professione, ha dichiarato che: “Il trionfo
elettorale [di Hamas] non costituisce una
riabilitazione, né uno sdoganamento. Le
elezioni non sono la lavanderia di un gruppo
terrorista.”
D’altro avviso un altro dei possibili successori, l’ex
premier laburista Shimon Peres, ora anch’egli
candidato per Kadima, che si è dichiarato disposto al
dialogo se Hamas prenderà la via della pace. Il 48%
degli Israeliani intervistati dal quotidiano
Yedioth Ahronoth si è detto favorevole a un
dialogo con il nuovo governo palestinese, con o senza
Hamas. Ad Angela Merkel spetterà il delicato
compito della mediazione europea.
In caso di vittoria
della destra di Netanjahus ci sarebbe una
coalizione nazionalista e senza dubbio l’abbandono
della strategia del ritiro dai territori occupati.
Un’ipotesi di confronto tra la destra nazionalista
israeliana e i ribelli di Hamas aprirebbe degli
scenari inquietanti per il futuro del Medio Oriente.
Anzi si potrebbe ipotizzare che l’estrema destra in
Israele abbia desiderato la vittoria di Hamas; se
l’avversario è un radicale non ci sono interlocutori e
la politica del braccio di ferro incontra il favore
del popolo.
La “Road
Map” è stata portata a termine ad
acta dall’amministrazione Sharon, senza un vero e
proprio piano di cooperazione nella istituzione di uno
Stato palestinese, senza la volontà politica. Adesso
anche se una “colomba” come Amir Peretz, ex
leader della federazione sindacale israeliana
Histadrut, a capo del partito laburista, vincesse le
elezioni il dialogo sarebbe comunque difficile.
Inoltre anche nell’ipotesi di un governo tollerante e
di sinistra Israele dovrà fare i conti con il
presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, con le sue
dichiarazioni di voler cancellare Israele dalla carte
geografiche, la questione del nucleare e gli ottimi
rapporti tra il governo dei mullah iraniani e Hamas.
E’
arrivato per Israele il momento di giocare a carte
scoperte riguardo agli arsenali nucleari in suo
possesso, perché la strategia del deterrente
nucleare sta diventando un’arma a doppio taglio e
di nuovo una minaccia per l’umanità.
Riferimenti bibliografici:
Ennio Carretto, <<Prima
esportiamo le idee, poi la democrazia>>. Paul
Barman: <<Un modello da rivedere, l’Europa prenda
l’iniziativa>>, in “Il Corriere della Sera”,
sabato 28 gennaio 2006, p. 8
Lorenzo Cremonesi, Il
leader di Hamas: <<Legittimi i kamikaze>>. Il
movimento guarda al voto: vinceremo e continueremo la
nostra lotta, in “Il Corriere della Sera”, sabato
14 gennaio 2006, p. 17
Lorenzo Cremonesi,
Linea dura di Olmert con i coloni di Hebron. Il
premier ordina ai soldati di sloggiare otto famiglie.
Gli oltranzisti: <<Non si ripeterà Gaza,
combatteremo>>, in “Il Corriere della Sera”,
martedì 17 gennaio 2006, p. 15
Lorenzo Cremonesi, A
Gaza. Il peso delle faide tra clan. <<Ordinano
per chi votare>>, in “Il Corriere della Sera”,
mercoledì 25 gennaio 2006, p. 16
Karim el-Gawhary,
Araber weinen ihm keine Träne nach. Hardliner über das
Ende der Ära Scharon. Doch Palästinenser fragen sich
besorgt: Wie soll es ohne den israelischen Premier
weitergehen?, in „Die Presse“, sabato 7 gennaio
2006, p. 3
Der Historiker Moshe
Zimmermann bezeichnet die Israelis als <<Erfinder der
Hamas>>,
in „Stuttgarten Zeitung“, venerdì 27 gennaio 2006
url:
http://www.presseportal.de/story.htx?nr=7788778841&ressort=4,
consultata il 30 gennaio 2006
Susanne Knaul, Wieland
Schneider, Christian Ultsch, Nach Scharon: stürzt
Nahost ins Chaos?, in „Die Presse“, sabato 7
gennaio 2006, prima pagina
Susanne Knaul,
Emotionales Ende der Ära Scharon. Das ganze Land
betete für den schwer kranken Premier. Doch keiner
glaubte mehr, dass Scharon nach seiner Gehirnoperation
je wieder in sein Amt zurückkehren werde, in „Die
Presse“, sabato 7 gennaio 2006, p. 2
Angelo Panebianco, Le
maschere del fanatismo. Che farà Hamas? Due scenari
pieni di pericolo, in “Il Corriere della Sera”,
sabato 28 gennaio 2006, editoriale
Elisabetta Rosaspina,
Arriva l’ora di Tzipi Livni allieva prediletta di <<Arik>>,
in “Il Corriere della Sera”, sabato 14 gennaio 2006,
p. 17
Elisabetta Rosaspina,
<<Ma un forte governo islamico per Israele è meglio
del caos>>. Intervista a Gadi Taub, in “Il
Corriere della Sera”, martedì 24 gennaio 2006, p. 15
Elisabetta Rosaspina,
Olmert: confini certi tra Israele e palestinesi. Alla
vigilia delle elezioni nei Territori, il premier
prospetta il ritiro da una parte della Cisgiordania,
in “Il Corriere della Sera”, mercoledì 25 gennaio
2006, p. 16
Elisabetta Rosaspina,
Tifo da stadio e poster dello sceicco Yassin. <<Bello
andare ai seggi senza posti di blocco>>, in “Il
Corriere della Sera, giovedì 26 gennaio 2006, p. 2
Elisabetta Rosaspina,
Gli USA: <<Se regna Hamas basta soldi ai
palestinesi>>. Washington: <<Non finanzieremo mai i
terroristi>>. Domani missione della cancelliera
tedesca Merkel, in “Il Corriere della Sera”,
sabato 28 gennaio 2006, p. 9
Ben Segenreich, Der
Mann der Widersprüche, in „Der Standard“,
sabato/domenica 7/8 gennaio 2006, p.2
Franco Venturini, Il
kalashnikov nelle urne. Le elezioni palestinesi e la
minaccia di Hamas, in “Il Corriere della Sera”,
martedì 24 gennaio 2006, editoriale |