N. 90 - Giugno 2015
(CXXI)
L’EPOPEA DI ALESSANDRO MAGNO
IL GRANDE CONDOTTIERO TRA MITO E STORIA - PARTE VIII
di Paola Scollo
Nell’immaginario
dei
Greci
l’India
rappresenta
una
terra
remota
posta
agli
estremi
confini
del
mondo,
quindi
irraggiungibile
e
impenetrabile.
Il
desiderio,
pothos,
di
violare
tale
distanza
affonda
le
radici
nella
dimensione
mitica,
in
particolare
nei
racconti
delle
spedizioni
di
Eracle
e di
Dioniso
che
pur
sempre
celano
una
matrice
storica
(la
presenza
in
suolo
asiatico
di
popoli
greci
prima
del
IV
secolo).
Secondo
Diodoro
Siculo
(II
38.
3 -
6),
Dioniso
attraversa
tutta
l’India,
dopo
essere
sopraggiunto
da
occidente.
Nel
corso
del
viaggio
non
incontra
alcuna
resistenza,
data
l’assenza
di
città
degne
di
considerazione.
Alle
popolazioni
autoctone
il
dio
tramanda
la
coltivazione
dei
frutti,
la
scoperta
del
vino
e di
tutto
ciò
che
è
utile
alla
vita.
Inoltre
fonda
città
e
trasferisce
i
villaggi
verso
luoghi
più
idonei.
Infine
introduce
leggi
e
istituzioni.
Dopo
aver
affermato
la
propria
natura
divina
e
aver
imposto
il
suo
culto
in
tutto
il
mondo
conosciuto,
conduce
la
madre
lontano
dall’Ade
e
con
lei
ascende
al
cielo,
sedendo
alla
destra
di
Zeus
come
uno
dei
Dodici
Grandi.
Riceve
dunque
in
sorte
l’immortalità.
Per
Diodoro
la
spedizione
di
Dioniso
in
India
viene
realizzata
in
cinquantadue
anni.
Nelle
pagine
di
Euripide
(Ba.
420),
Strabone
(468)
e
Diodoro
Siculo
(IV
4)
Dioniso
viene
celebrato
quale
eroe
civilizzatore,
legislatore
e
promotore
della
pace.
Ma è
a un
tempo
espressione
delle
forze
della
natura.
È il
potere
straripante
e
inebriante
che
conduce
l’uomo
lontano
dagli
equilibri.
È
l’inventore
dell’agricoltura,
il
dio
dell’ebbrezza,
del
dolore
e
della
gioia.
Il
legame
con
la
vite
indica
manifestamente
che
Dioniso
è un
ispiratore
e un
ispirato,
una
divinità
che
ha
il
potere
di
rivelare
il
futuro
all’uomo
attraverso
gli
oracoli.
Alla
ricerca
della
consacrazione
divina
e
della
gloria
imperitura,
Alessandro
non
può
esimersi
dal
riproporre
ed
emulare
le
gesta
dei
suoi
avi.
Al
termine
della
spedizione
in
Asia
decide
quindi
di
lanciarsi
alla
conquista
dell’India
sia
per
espandere
il
proprio
potere
sino
ai
confini
dell’ecumene
sia
per
marcare
il
suo
legame
con
Eracle
e
Dioniso.
Ha
già
assoggettato
tutto,
ma
non
intende
porre
fine
alla
sua
impresa.
Vuole
infrangere
ogni
limite
umano.
È un
dio
e un
re.
Sul
filo
di
questo
ragionamento
l’arrivo
del
Macedone
in
Asia
può
essere
interpretato
come
terzo
elemento
di
rottura
nell’unità
culturale
indiana
dopo
il
passaggio
di
Dioniso
e di
Eracle.
Il
proverbiale
isolamento
del
mondo
indiano
è
violato
da
eroi
civilizzatori
di
origine
greca.
E
non
casualmente.
Soltanto
la
cultura
greca
detiene
requisiti
di
superiorità
tali
da
infrangere
la
chiusura
della
civiltà
indiana
e
aprirla,
sebbene
temporaneamente,
a
feconde
influenze
straniere.
Al
pari
di
Dioniso
e di
Eracle,
anche
Alessandro
è un
eroe
liberatore,
fondatore
e
civilizzatore.
Proprio
per
questa
ragione
può
aspirare
e
reclamare
la
divinizzazione.
Vinta
ogni
resistenza,
nel
suo
estremo
viaggio
è
seguito
da
centoventimila
soldati
pronti
ad
accaparrarsi
tutto
quello
che
il
suolo
asiatico
è
disposto
a
offrire.
I
Macedoni
sono
pronti
a
soffrire
per
l’ennesima
volta
insieme
al
loro
basileus,
anche
per
una
forma
di
invidia
nei
confronti
delle
imprese
di
Dioniso.
La
spedizione
in
India
è
colma
di
significati
e
gravida
di
conseguenze
per
il
futuro.
Non
si
tratta
semplicemente
di
una
conquista,
ma
di
una
vera
e
propria
esplorazione.
La
presenza
di
geografi,
filosofi
e
mercanti
è
una
evidente
conferma
in
tal
senso.
Il
desiderio
di
Alessandro
di
essere
assimilato
a
Dioniso
trova
per
noi
una
chiara
testimonianza
nelle
pagine
di
Curzio
Rufo,
da
cui
emerge
la
volontà
del
sovrano
di
emulare
Dioniso
sia
nella
gloria
conseguente
alle
vittorie
sui
popoli
asiatici
sia
nella
fama
legata
al
suo
nome.
L’orgoglio
lo
eleva
oltre
il
culmine
della
grandezza
umana.
Al
termine
della
primavera
del
327
a.C.
il
basileus
è
pronto
per
fare
il
suo
ingresso
in
India.
Dopo
una
marcia
di
dieci
giorni
lungo
l’attuale
Hindukush,
raggiunge
Nicea.
Percorso
il
fiume
Chopen
e
superato
il
passo
Khyber,
Alessandro
giunge
ad
Alessandria
del
Caucaso,
dove
stanzia
una
guarnigione
guidata
da
Nicanore.
Divise
le
truppe,
si
dirige
verso
le
pianure
dell’Indo.
A
partire
da
questo
momento
ha
inizio
l’invasione.
Ambhi,
il
rajah
di
Taxila,
è il
primo
a
fare
atto
di
sottomissione
con
un
dono
di
venticinque
elefanti.
A
novembre,
dopo
aver
diviso
nuovamente
le
truppe,
Alessandro
è
alla
guida
di
sette
battaglioni
della
falange.
Si
lancia
verso
l’area
di
Bajaur.
Nella
regione
dello
Swat
deve
far
fronte
a
numerose
resistenze,
per
cui
ricorre
a
una
strategia
maggiormente
aggressiva.
Tra
il
Coe
e la
valle
del
Kunar
riceve
l’ambasceria
di
un
villaggio
che
manifesta
l’intenzione
di
sottomettersi.
Si
tratta
di
una
città
consacrata
a
Dioniso
che,
data
la
vicinanza
al
monte
Meros
e la
presenza
dell’alloro
e
dell’edera,
viene
denominata
Nysa,
dal
nome
della
nutrice
del
dio.
L’arrivo
a
Nysa
riveste
un
significato
notevole.
Alessandro
qui
stabilisce
di
imitare
il
“trionfo”
di
Dioniso:
dapprima
ordina
che
i
villaggi
attraversati
vengano
cosparsi
di
fiori
e di
ghirlande,
in
seguito
fa
collocare
sull’uscio
delle
abitazioni
tazze
piene
di
vino
e
vasi
di
mirabile
grandezza.
Esorta
poi
ad
addobbare
con
tende
bianche
e
drappi
pregiati
numerosi
carri,
coperti
con
tavole
per
ospitare
i
soldati.
Gli
amici
e le
guardie
del
re,
ornati
di
fiori
e di
corone,
si
pongono
all’inizio
del
corteo,
seguiti
da
soldati
in
festa
su
carri
decorati
con
armature
preziose.
Il
re e
i
suoi
convitati
sfilano
su
un
carro
colmo
di
vasi
e di
coppe
d’oro.
L’esercito,
così
disposto,
procede
per
sette
giorni
abbandonandosi
all’orgia
bacchica,
bacchabundum
agmen.
«Mille
uomini,
per
Ercole,
-
commenta
con
tono
polemico
Curzio
Rufo
- ma
uomini
veri
e
non
ubriachi
avrebbero
potuto
sopraffare
in
mezzo
alla
loro
orgia
i
vincitori
infiacchiti
dalla
gozzoviglia
di
sette
giorni.
Ma
la
fortuna,
che
dona
fama
e
valore
alle
cose,
volse
in
gloria
anche
questa
turpitudine
dei
soldati.
I
contemporanei
e
poi
i
posteri
si
meravigliarono
che
quegli
uomini
avessero
potuto
avanzare
in
stato
di
ubriachezza
in
mezzo
a
popolazioni
non
ancora
ben
sottomesse.
Ma i
barbari
scambiavano
per
sicurezza
quella
che
era
solo
temerità»
(IX
10).