N. 91 - Luglio 2015
(CXXII)
L’EPOPEA DI ALESSANDRO MAGNO
IL GRANDE CONDOTTIERO TRA MITO E STORIa - PARTE iX
di Paola Scollo
In
seguito
Alessandro
espugna
la
città-fortezza
di
Aorno,
dove
si
sono
compiute
le
gesta
di
Eracle,
capostipite
della
dinastia
degli
Argeadi
da
cui
discende
Olimpiade,
sua
madre.
Successivamente
si
dirige
verso
nord,
volgendo
verso
l’Indo.
Sulla
riva
occidentale
imbarca
i
soldati
più
provati.
Nel
corso
dell’estate
del
326
a.C.
inizia
a
maturare
la
consapevolezza
che
oltre
il
Punjab
si
estendano
altri
territori.
Il
confine
del
mondo
è
ancora
lontano.
Ad
attenderlo
ulteriori
battaglie
e i
suoi
uomini,
stremati
dai
combattimenti,
iniziano
a
manifestare
il
loro
dissenso.
Le
fonti
antiche
indicano
chiaramente
le
ragioni
per
cui
Alessandro
decide
di
non
proseguire
la
spedizione
in
India:
prima
fra
tutte,
l’opposizione
dell’esercito,
ormai
logorato
da
anni
di
guerre
e
desideroso
di
tornare
a
casa.
Il
malcontento
incomincia
ad
appesantire
gravemente
non
solo
il
morale,
ma
soprattutto
la
disciplina.
La
possibilità
sempre
più
concreta
di
un
“non
ritorno”
induce
i
soldati
a
una
vera
e
propria
forma
di
ammutinamento.
Per
l’enorme
rispetto
e
ammirazione
che
nutrono
nei
confronti
di
Alessandro
non
si
ribellano
apertamente,
ma
tentano
una
strategia
basata
su
lamentele
che,
col
trascorrere
del
tempo,
determina
forti
tensioni.
Secondo
Curzio
Rufo,
a
dominare
è un
clima
di
rassegnazione
che
altera
la
collaborazione
tra
comandante
e
soldati.
Durante
il
passaggio
dell’Ifasi,
Alessandro
tiene
un’abile
adlocutio:
«La
fama
non
corrisponde
mai
alla
pura
verità:
essa
ingrandisce
ogni
cosa
rispetto
al
vero.
Anche
la
nostra
gloria,
sebbene
abbia
un
fondamento
ben
saldo,
è
più
famosa
di
quanto
non
sia
in
realtà.
Poco
fa
chi
avrebbe
creduto
di
poter
superare
bestioni
simili
a
muraglie,
il
fiume
Idaspe
e
tutti
gli
altri
pericoli
più
gravi
a
udirsi
di
quanto
non
fossero
in
realtà?
Già
da
tempo,
per
Ercole,
saremmo
fuggiti
dall’Asia
se
ci
fossimo
lasciati
abbattere
dalle
semplici
favole.
[…]
Che
cosa
vi
spaventa?
La
grandezza
degli
elefanti
o il
numero
dei
nemici?
Per
quanto
riguarda
i
primi,
ne
abbiamo
un
esempio
recente:
essi
si
sono
scagliati
con
maggiore
violenza
contro
i
loro
padroni
che
contro
di
noi;
e i
loro
corpi
giganteschi
sono
stati
umiliati
dalle
nostre
falci
e
dalle
nostre
scuri.
Che
cosa
importa
che
essi
siano
tanti
quanto
quelli
di
Poro,
o
tremila,
quanto
basta
ferirne
uno
o
due
perché
siano
trascinati
in
fuga
tutti
gli
altri?
[…]
Da
parte
mia,
ho
sempre
tenuto
in
poco
conto
questi
animali,
tanto
che,
anche
se
ne
avessi,
non
li
impiegherei,
ben
sapendo
che
essi
sono
di
danno
più
ai
loro
che
ai
nemici.
[…]
Vi
spaventa,
invece,
la
moltitudine
di
fanti
e di
cavalieri?
[…]
Il
numero
dei
nemici
non
può
avere
la
meglio
sull’invitto
valore
dei
Macedoni:
ne
sono
una
testimonianza
il
fiume
Granico,
la
Cilicia,
inondata
di
sangue
persiano,
Arbela,
i
cui
campi
sono
seminati
delle
ossa
di
coloro
che
noi
abbiamo
debellato.
Avete
cominciato
troppo
tardi
a
contare
le
legioni
nemiche,
cioè
dopo
che
con
le
vostre
vittorie
avete
fatto
dell’Asia
un
deserto».
Di
qui
le
conclusioni:
«Finché
vi
avrò
al
mio
fianco
sul
campo
di
battaglia,
non
conterò
né i
miei
soldati
né
quelli
dei
nemici:
mostratemi
solo
un
animo
ardente
e
fiducioso.
Noi
non
siamo
più
all’inizio
delle
nostre
imprese
e
delle
nostre
fatiche,
ma
alla
fine.
Ormai
siamo
giunti
fin
dove
si
leva
il
sole,
fino
all’Oceano:
se
non
vi
mancherà
il
coraggio,
dopo
aver
conquistato
il
confine
del
mondo,
ritorneremo
vittoriosi
in
patria.
Non
fate
come
i
contadini
indolenti:
non
lasciatevi
sfuggire
dalle
mani,
per
ignavia,
i
frutti
maturi.
I
premi
sono
maggiori
dei
pericoli:
la
regione
è
nello
stesso
tempo
ricca
e
imbelle.
Perciò
io
vi
conduco
non
tanto
alla
gloria
quanto
al
bottino.
Voi
siete
degni
di
portare
in
patria
i
tesori
che
quel
mare
deposita
sul
lido;
voi
siete
degni
di
non
lasciare
nulla
di
intentato,
di
non
tralasciare
nulla
per
timore.
Per
voi,
dunque,
per
la
vostra
gloria,
che
vi
innalza
sopra
tutti
gli
uomini,
peri
benefici
che
io e
voi
ci
siamo
resi
reciprocamente,
senza
mai
lasciarci
superare
uno
dall’altro,
io
vi
prego
e vi
supplico
che,
al
momento
di
toccare
i
confini
del
mondo,
non
vogliate
abbandonare
non
dico
il
vostro
re,
ma
il
vostro
allievo,
alumnus,
e
commilitone,
commilito».
La
prospettiva
dell’ennesimo
trionfo
culmina
nel
ricordo
degli
avi
del
mito:
«[…]
Non
spezzate
nelle
mie
mani
una
palma
con
la
quale,
se
l’invidia
degli
dei
non
si
opporrà,
eguaglierò
Ercole
e
Dioniso».
Alessandro
chiede
ai
soldati
di
infrangere
l’ostinato
silenzio
per
lasciare
spazio
all’antico
ardore.
Il
giovane
re
non
riconosce
più
i
suoi
uomini,
né
gli
sembra
di
essere
riconosciuto
da
loro:
«Già
da
tempo
mi
rivolgo
a
orecchie
sorde
e mi
sforzo
di
eccitare
animi
ostili
e
abbattuti».
Il
silenzio
corrode
ancor
più
delle
parole
e
logora:
«Mi
sembra
di
essere
completamente
solo:
nessuno
mi
risponde,
nessuno
mi
contraddice.
A
chi
mi
rivolgo?
Che
cosa
domando?
La
vostra
gloria
e la
vostra
grandezza:
ecco
ciò
che
rivendico».
Alessandro
si
sente
solo,
abbandonato,
tradito,
consegnato
al
nemico.
L’unica
prospettiva
sembra
essere
quella
di
cercare
altrove
uomini
disposti
a
seguirlo,
perché
«è
meglio
morire
che
avere
un
potere
precario».
Che
se
ne
vadano
pure
e
facciano
ritorno
a
casa.
Che
se
ne
vadano,
trionfanti,
dopo
aver
abbandonato
il
loro
re.
Alessandro
si
dice
certo
di
trovare
una
via
per
conseguire
la
vittoria
oppure
per
morire
gloriosamente.
Ma
neppure
dopo
tale
discorso
riesce
ad
abbattere
la
cortina
di
incomunicabilità
che
lo
separa
dai
suoi
uomini:
attoniti
per
la
paura,
gli
ufficiali
tengono
lo
sguardo
fisso
a
terra.
Il
carisma
di
Alessandro
ha
perso
vigore
persuasivo.
Come
spiega
Curzio
Rufo,
i
soldati
vorrebbero
assecondare
la
volontà
del
re,
ma
non
hanno
più
forza:
sono
stremati
dalle
ferite
e
dalle
continue
fatiche
militari.
La
collera
di
Alessandro,
di
fronte
alle
lacrime
dei
suoi
uomini,
diviene
compassione.
Non
riesce
a
trattenere
le
lacrime.
L’assemblea
è in
preda
al
pianto.
Prende
la
parola
Ceno,
che
elogia
il
progetto
del
sovrano
in
quanto
degno
del
suo
grande
animo,
ma
decisamente
ambizioso
e
alto
per
i
soldati:
«Infatti
il
tuo
valore
è
sempre
in
aumento,
ma
la
nostra
energia
è
già
al
tramonto».
Le
parole
di
Ceno
riflettono
lo
spirito
dell’assemblea
che
tra
grida,
pianti
e
voci
confuse
acclama
Alessandro
rex,
pater,
dominus.
Alessandro
è
incerto
sul
da
farsi:
non
può
né
punire
la
loro
ostinazione
né
frenare
la
propria
ira.
Per
queste
ragioni,
scioglie
il
consiglio
e si
chiude
nella
tenda
per
tre
giorni,
divenendo
inaccessibile
anche
agli
amici
più
intimi.
Il
quarto
giorno
si
rifugia
nella
pietas:
esce
dalla
tenda
e
chiede
agli
dèi,
mediante
un
sacrificio,
la
strada
da
intraprendere.
I
presagi
danno
un
responso
negativo
riguardo
alla
conclusione
dell’impresa.
Alessandro
si
prostra
di
fronte
alla
volontà
divina.
Ordina
di
realizzare
dodici
altari
in
pietra
in
segno
di
ringraziamento
all’intero
Pantheon
che
lo
ha
protetto.
Infine
proclama
la
conclusione
della
spedizione
e
l’inizio
del
rientro
in
patria.
L’esercito
è in
preda
a
manifestazioni
incontrollate
di
gioia.
Vengono
istituiti
giochi,
agoni
musicali
e
atletici
e
celebrati
sacrifici
agli
dèi.
Viene
compiuto
un
sacrificio
propiziatorio.
Con
ogni
probabilità,
nell’immagine
di
Alessandro
si
tratta
soltanto
di
una
resa
temporanea,
ma
la
morte
improvvisa
nega
ogni
possibilità.
In
punto
di
morte,
il
pensiero
è
ancora
una
volta
rivolto
a
Zeus.
Fa
avvicinare
gli
amici,
sfila
l’anello
dal
dito
e lo
consegna
a
Perdicca,
raccomandandogli
di
far
trasportare
il
suo
corpo
al
tempio
di
Giove
Ammone.
Desidera
donare
l’anello
al
migliore
dei
suoi
uomini.
Perdicca
chiede
quando
avrebbero
dovuto
tributargli
onori
divini
e
Alessandro
risponde:
«Quando
sarete
felici».
Queste
sono
le
sue
ultime
parole.
Morendo,
Alessandro
trascina
via
con
sé
ogni
progetto.
Eppure
il
suo
sogno
non
muore
con
lui.
È
dentro
di
noi.
Ed è
straordinario
e
perfetto.
Come
straordinario
e
perfetto
è
tutto
ciò
che
appartiene
alla
storia.