N. 86 - Febbraio 2015
(CXVII)
L’EPOPEA DI ALESSANDRO MAGNO
IL GRANDE CONDOTTIERO TRA MITO E STORIA - PARTE IV
di Paola Scollo
La
spedizione
in
Asia
segna
idealmente
l’incipit
di
un
nuovo
capitolo
della
vicenda
politico-militare
e
umana
di
Alessandro
Magno.
A
partire
dall’inverno
del
336
a.C.
il
giovane
sovrano
cominciò
infatti
a
nutrire
la
consapevolezza
dell’unicità
della
propria
storia
personale,
quindi
della
sua
discendenza
da
Zeus,
manifestando
il
desiderio
di
procedere
oltre
la
dimensione
eroica
dei
personaggi
omerici,
celebrata
dall’epos,
per
raggiungere
la
sfera
divina.
Un
primo
episodio
che
ben
evidenzia
tale
mutamento
si
svolse
a
Gordio,
antica
capitale
della
Frigia,
laddove
si
trovava
il
celebre
nodo
legato
al
timone
del
carro
del
mitico
fondatore
della
dinastia,
Gordias.
Stando
alla
leggenda,
chi
fosse
riuscito
a
sciogliere
l’elaborato
nodo
di
scorza
di
corniolo
sarebbe
divenuto
padrone
d’Asia.
Alessandro
lo
recise
con
un
solo
colpo
di
spada,
quindi
espose
il
carro
liberato
e
sacrificò
a
Zeus
Basileus,
che
manifestò
la
sua
approvazione
con
folgori.
Tale
impresa
gli
spalancò
le
porte
dell’impero
persiano.
In
Asia
l’obiettivo
prioritario
di
Alessandro
era
rappresentato
da
Dario
così
come
per
Achille
era
stato
Ettore.
Nonostante
l’esercito
del
Gran
Re
dovesse
essere
almeno
tre
volte
più
numeroso
di
quello
macedone,
Alessandro
dette
prova
di
genialità,
rendendo
normale
ciò
che
ai
più
appariva
impossibile
a
compiersi.
La
battaglia
di
Isso
fu
una
nuova
vittoria.
Dario
si
dette
alla
fuga.
In
questa
circostanza
ad
Alessandro
venne
offerta
una
cassetta,
rinvenuta
tra
gli
oggetti
preziosi
e i
bagagli
del
Gran
Re.
Dopo
aver
osservato
il
prezioso
monile,
il
giovane
dichiarò
che
vi
avrebbe
custodito
l’oggetto
di
maggior
rilievo
che
possedeva,
ovvero
l’Iliade.
Di
qui
la
riflessione
di
Plutarco:
«Ma
se
ciò
è
vero,
come
dicono
gli
Alessandrini
seguendo
Eraclide,
allora
sembra
che
Omero
gli
sia
stato
compagno,
in
quella
spedizione,
né
ozioso
né
inutile».
L’unica
città
d’Egitto
che
non
intendeva
piegarsi
alla
ferocia
di
Alessandro
era
Tiro.
Certi
dell’appoggio
cartaginese,
gli
abitanti
erano
convinti
che
nessuno
sarebbe
entrato
nella
città
al
punto
tale
da
massacrare
gli
ambasciatori
macedoni.
Infuriato,
Alessandro
raccontò
di
aver
sognato
che
Eracle
lo
avrebbe
aiutato
a
entrare
a
Tiro.
Nonostante
gli
indovini
avessero
interpretato
la
presenza
del
semidio
quale
segnale
della
fatica
della
conquista,
Alessandro
non
volle
sentire
ragioni.
Dopo
sette
mesi
di
assedio,
Tiro
venne
espugnata
e la
popolazione
massacrata.
Una
prova
del
terribile
furor
di
Alessandro,
nell’immagine
di
Curzio
Rufo:
«L’ira
del
re
diede
uno
spettacolo
orribile
agli
stessi
vincitori:
duemila
uomini,
che
il
furore
dei
nemici
aveva
risparmiato,
furono
appesi
alle
croci
ed
esposti
lungo
tutto
il
lido»
(IV
5).
Al
termine
dell’impresa
Alessandro
espletò
riti
propiziatori
in
onore
di
Eracle:
una
solenne
processione
in
cui
esercito
e
flotta
sfilarono
a
insegne
spiegate
e
una
manifestazione
atletica
con
una
fiaccolata
notturna
conclusero
le
celebrazioni.
E
tra
le
rovine
fumanti
della
città
il
re
compì
un
sacrificio,
marcatamente
ironico,
offrendo
a
Melqart
la
macchina
d’assedio
che
aveva
squarciato
le
mura
della
città
di
cui
era
protettore.
Dopo
la
conquista
di
Tiro,
Alessandro
si
diresse
verso
sud.
In
Siria
offrì
ulteriore
prova
del
suo
terribile
furor
conquistando
Gaza,
la
città
più
meridionale
governata
da
Betis.
Stando
a
Curzio
Rufo,
l’indovino
Aristandro
aveva
prospettato
la
distruzione
della
città
e il
ferimento
del
sovrano.
Pur
sopportando
a
malincuore
che
una
sola
città
gli
impedisse
l’accesso
in
Egitto,
Alessandro
obbedì
all’indovino
e
ordinò
il
ritiro
delle
truppe.
Tuttavia,
quando
gli
assediati
ripresero
coraggio,
si
affrettò
a
indossare
la
corazza
e a
schierarsi
tra
le
prime
fila,
sprezzante
del
pericolo.
Un
Arabo
al
servizio
di
Dario
tentò
un
gesto
audace,
decisamente
superiore
alle
sue
prerogative:
celata
la
spada
sotto
lo
scudo,
si
gettò
ai
piedi
di
Alessandro,
come
in
atto
di
sottomissione.
Questi
lo
invitò
a
rialzarsi
per
riprendere
posto
tra
i
suoi.
Il
barbaro
allora
sfoderò
la
spada
e
sferrò
un
colpo
alla
testa
del
giovane.
Alessandro
riuscì
a
schivarlo,
piegandosi
leggermente.
Pensò
così
di
aver
evitato
il
pericolo
presagito
per
quel
giorno.
Ma -
come
sentenzia
Curzio
Rufo
-
inevitabile
est
fatum
(IV
6).
Mentre
combatteva
con
singolare
impeto,
venne
colpito
da
un
dardo
che
trapassò
scudo,
corazza
e
spalla
sinistra.
Con
ogni
probabilità
fu
proprio
la
corazza,
che
il
sovrano
indossava
casualmente
quel
giorno,
a
salvargli
la
vita.
Quell’assedio
non
divenne
famoso
per
l’importanza
della
città,
ma
per
il
doppio
pericolo
corso
da
Alessandro.
L’atteggiamento
di
Alessandro
nei
confronti
di
Betis,
difensore
della
città
di
Gaza,
evoca
ricordi
epici.
Dopo
aver
combattuto
valorosamente,
il
governatore
siriano
venne
abbandonato
dai
suoi.
Pur
con
le
armi
già
intrise
del
suo
sangue
e di
quello
dei
nemici,
continuò
a
combattere
con
lo
stesso
ardore.
Alla
fine,
assalito
da
ogni
parte,
cadde
vivo
nelle
mani
dei
nemici.
Condotto
davanti
ad
Alessandro,
Betis
non
replicò
alle
minacce,
mantenendo
sempre
un
aspetto
sprezzante
e
ricco
di
sdegno.
L’ira
di
Alessandro
divenne
quindi
rabbia
e
furore,
ira
deinde
vertit
in
rabiem.
Dal
momento
che
la
nuova
sorte
aveva
già
imbarbarito
i
suoi
costumi,
fece
infilzare
strisce
di
cuoio
nei
talloni
di
Betis
ancora
vivo
e,
legatolo
a un
cocchio,
lo
fece
girare
per
mezzo
di
cavalli
attorno
alla
città,
vantandosi
di
avere
imitato
in
tale
supplizio,
poena,
quell’Achille
da
cui
diceva
di
essere
disceso
(IV
6.
29).
Il
richiamo
è al
XXII
canto
dell’Iliade,
laddove
Omero
narra
lo
scempio
del
cadavere
di
Ettore
a
opera
di
Achille.
Il
Pelide
forò
i
tendini
dei
piedi
del
nemico,
vi
introdusse
una
cinghia
di
cuoio
e lo
legò
al
cocchio,
lasciando
che
il
capo
strisciasse
tra
la
polvere.
Montato
sul
carro,
lanciò
i
cavalli
in
una
sfrenata
corsa,
trascinando
il
corpo
di
Ettore,
orribilmente
dilaniato.
Di
fronte
all’atroce
spettacolo,
si
levarono
le
grida
strazianti
di
Ecuba
e il
pianto
disperato
di
Priamo.
Lamenti
che
dalla
torre
raggiunsero
presto
le
case
troiane,
compresa
quella
in
cui
la
moglie
Andromaca,
ignara
dell’accaduto,
attendeva
Ettore
tessendo
un
mantello
di
porpora.
Come
Achille
aveva
trascinato
per
tre
volte
attorno
alle
mura
di
Troia
il
corpo
privo
di
vita
di
Ettore,
allo
stesso
modo
Alessandro
trascinò
quello
di
Betis.
Ma,
a
differenza
del
Pelide,
aveva
lasciato
volutamente
in
vita
il
nemico.
Crudele,
spietato
e
irremovibile
Alessandro
quando
si
trattava
di
onore
e di
vendetta!
Occorre
tuttavia
ricordare
che
il
Macedone
disponeva
anche
di
una
notevole
grandezza
d’animo.
Una
conferma
in
tal
senso
giunse
in
seguito
alla
battaglia
di
Gaugamela
e
all’ingresso
a
Babilonia.
Qui,
appresa
la
notizia
della
morte
di
Dario,
Alessandro
si
recò
presso
il
cadavere
e lo
coprì
con
il
suo
mantello,
tra
le
lacrime
per
la
indegna
fine
del
grande
monarca.
Infine,
ornatolo
con
magnificenza
regale,
lo
inviò
alla
madre
Sisigambi
affinché
provvedesse
a
una
degna
sepoltura
secondo
il
costume
persiano.
La
pietas
di
Alessandro
in
tale
circostanza
evoca
quella
di
Achille
nel
XXIV
libro
dell’Iliade,
laddove
l’eroe
omerico
aveva
reso
il
corpo
di
Ettore
al
padre
Priamo.
Alla
luce
di
questo
episodio
emerge
in
maniera
evidente
la
duplice
natura,
physis,
di
Alessandro:
da
una
parte
spietato
contro
il
nemico,
rapido
e
feroce
nel
dare
vendetta,
dall’altra
sempre
preoccupato
per
gli
altri
in
battaglia
e
consapevole
della
brevità
dell’esistenza.
Un
animo
capace
di
forti
sentimenti,
desideroso
di
non
farsi
assalire
dalla
vita
ma
di
esserne
assoluto
protagonista
sia
in
positivo
sia
in
negativo.
Una
natura
scissa
tra
due
anime
e
percorsa
da
un
senso
tragico
dell’esistenza.
Una
natura
profonda
e
complessa
come
quella
dei
personaggi
che
hanno
impresso
il
sigillo
della
loro
personalità
attraverso
i
secoli,
divenendo
eterni.