N. 84 - Dicembre 2014
(CXV)
L’EPOPEA DELL’ENDURANCE
ESPLORATORI E NAUFRAGHI AL POLO
di Filippo Petrocelli
Nell’era
del
trionfo
dello
smartphone,
del
GPS
che
localizza
e di
Google
maps
che
indica
perfettamente
il
cammino,
non
è
facile
immaginare
le
peripezie
dell’età
delle
esplorazioni,
quando
a
cavallo
fra
Ottocento
e
Novecento,
si
raggiungevano
i
poli,
si
risalivano
fiumi
misteriosi
in
giungle
impenetrabili
e a
guidare
chi
era
in
viaggio
c’erano
stelle,
mappe
imprecise
e
bussole
malfunzionanti.
Il
vero
“timone”
diventava
l’istinto
–
spesso
unico
contraltare
al
caso
– in
una
battaglia
impari
per
natura,
una
sfida
contro
se
stessi,
in
un’avventura
difficile
anche
solo
da
immaginare.
Eppure
personaggi
come
Sir
Ernest
Henry
Shackleton
si
sono
spinti
verso
l’ignoto
e
sono
rimasti
nella
storia
nonostante
la
mancanza
di
tutte
queste
“diavolerie
moderne”.
Famoso
esploratore
polare
Henry
Shackleton
si
guadagna
il
titolo
di
“baronetto”
in
seguito
alla
spedizione
Nimrod
(1907-1909),
quando
scopre
il
Polo
Sud
magnetico.
A
consegnarlo
alla
fama
eterna
però
è la
Imperial
Trans-Antarctic
Expedition
(1914–1916)
la
sua
seconda
spedizione
in
direzione
estremo
Sud,
con
obiettivo
la
traversata
dell’Antartide.
Agli
inizi
del
Novecento
infatti
si
apre
una
“caccia”
al
Polo
Sud:
l’obiettivo
è la
gloria
e la
conquista
del
punto
più
meridionale
del
mondo;
mentre
i
protagonisti
di
questa
“battaglia”
sono
un
norvegese,
Amunsen
e
due
britannici,
Scott
e
Shackleton.
A
differenza
degli
altri
esploratori
Shackleton
non
ha
formazione
militare:
si è
invece
formato
nella
marina
mercantile
e a
causa
di
questa
sua
“minore”
qualifica
viene
osteggiato
non
solo
dai
colleghi
ma
anche
da
molti
finanziatori
dell’epoca.
A
vincere
la
sfida
è
Amunsen,
mentre
Scott
perde
la
vita
durante
il
tentativo
di
raggiungere
l’Antartide,
ma è
Shekelton
a
compiere
l’impresa
più
rilevante.
Infatti
poco
dopo
la
partenza
avvenuta
il 6
agosto
1914
da
Buenos
Aires,
la
nave
Endurance
–
dove
viaggiano
Shekelton,
compagni
e
tutti
i
protagonisti
della
Imperial
Trans-Antarctic
Expedition
–
resta
imprigionata
nel
pack,
ovvero
nell’enorme
distesa
di
ghiaccio
fluttuante
sull’Oceano,
bloccandosi
definitivamente
il
28
gennaio
1915
in
mezzo
al
nulla.
A
questo
punto,
dopo
diversi
tentativi
di
liberare
l’Endurance,
il
comandante
decide
di
abbandonare
la
barca
e
inizia
la
traversata
del
continente
con
delle
slitte,
anticipando
in
un
certo
senso
le
tappe
del
suo
viaggio,
anche
perché
lo
scioglimento
del
pack
porta
a
uno
schiacciamento
continuo
della
chiglia
della
nave.
Così
il
26
ottobre
inizia
l’evacuazione
del
natante,
ma
la
situazione
è
più
difficile
del
previsto:
non
è
possibile
trasportare
diversi
materiali
a
causa
del
terreno
molto
scosceso
(al
punto
da
permettere
solo
pochi
chilometri
di
avanzamento
al
giorno)
e la
traversata
a
piedi,
senza
zavorre,
sembra
l’unica
possibilità.
Inoltre
la
stagione
peggiore
è
alle
porte
e la
possibilità
di
sopravvivere
in
quell’oceano
di
ghiaccio,
senza
riparo,
sono
molto
ridotte.
Ma
Sir
Henry
non
si
rassegna:
organizza
un
campo
base,
salva
le
provviste
dalla
nave
che
sta
affondando
e si
ingegna
in
una
sapiente
opera
di
riciclo
dei
molti
materiali
presenti
sulla
Endurance.
Non
contento
“parcheggia”
i
suoi
uomini
nei
pressi
dell’Isola
di
Elephant
(il
pack
si
muove
ed è
importante
raggiungere,
fin
da
subito,
un
punto
sulla
terraferma),
promettendo
a
tutti
il
ritorno
con
i
soccorsi.
Recluta
pochi
volontari
e
decide
di
andare
in
cerca
di
aiuto,
partendo
il
24
aprile
1916.
Dopo
800
miglia
di
navigazione
in
condizione
estreme
e 36
ore
di
marcia
per
coprire
oltre
30
miglia
di
scalata
di
montagne
e
ghiacciai
arriva
finalmente
a
Stromness
intorno
al
20
maggio.
Lo
stesso
giorno,
dopo
essersi
lavato
e
rifocillato,
riparte
alla
volta
dei
suoi
compagni:
prima
passa
a
salvare
il
gruppo
più
vicino
a
lui
per
poi
arrivare
il
29
agosto,
nel
campo
base,
dai
superstiti
sull’isola
di
Elephant.
Il 3
settembre
1916
tutto
l’equipaggio
arriva
a
Punta
Arenas:
nessuno
è
morto
nella
traversata
e
Sir
Henry,
ha
recuperato,
come
promesso,
tutti
i
superstiti.
Preziose
istantanee
di
questa
odissea,
sono
conservati
in
vari
musei:
al
seguito
della
spedizione
c’era
Frank
Hurley,
fotografo
professionista
che
ha
documentato
tutte
le
vicissitudini
della
spedizione
nell’Antartide,
dalla
partenza
fino
al
naufragio,
passando
per
il
recupero
dei
dispersi.
Nelle
numerose
interviste
seguite
all’impresa,
la
figura
di
Shackleton
viene
esaltata
da
tutti
i
suoi
uomini:
raramente
dei
marinai
hanno
avuto
per
il
loro
capitano
una
tale
ammirazione.
Sicuramente
Shackleton
ha
dimostrato
il
suo
valore,
riuscendo
a
non
perdere
neanche
un
uomo
nella
spedizione,
dimostrando
quanto
avesse
rispetto
per
la
vita
umana
dei
suoi
sottoposti.
La
grandezza
di
questa
impresa
fu
oscurata
solo
da
quell’apocalisse
della
modernità
che
è
stata
la
prima
guerra
mondiale,
che
ha
contribuito
a
far
crescere
l’oblio
intorno
a
quella
spedizione,
altrimenti
consegnata
agli
allori
della
storia.