N. 147 - Marzo 2020
(CLXXVIII)
La
peste
durante
il
Secolo
di
ferro
La
terribile
epidemia
e il
grande
affresco
del
Manzoni
di
Francesco
Biscardi
Nei
difficili
giorni
odierni,
in
cui
stiamo
affrontando
una
terribile
pandemia
quale
il
COVID-19,
la
storia
può
offrirci
ponderanti
esempi
delle
martorianti
epidemie
che
l’uomo
si è
trovato
a
fronteggiare
in
passato.
Tra
le
più
famose
vi
sono
sicuramente
quelle
di
peste,
come
quella
del
1630-1631,
che
attecchì
in
particolar
modo
nel
Settentrione
d’Italia,
resa
celebre
dal
Manzoni.
A
volte,
nei
manuali
scolastici,
i
capitoli
sul
Seicento
contengono
paragrafi
intitolati
con
espressioni
come
“ritorno
della
peste”;
una
locuzione,
da
un
lato,
impropria,
dal
momento
che
la
peste,
fra
tardo
Medioevo
e
prima
Età
moderna,
non
“abbandonò”
mai
il
Vecchio
Continente,
ma,
dall’altro
lato,
efficace
per
far
capire
come
essa
conobbe
una
recrudescenza
a
partire
dalla
seconda
metà
del
Cinquecento,
per
toccare
l’apice
durante
il
Seicento,
il
“Secolo
di
ferro”,
quando
il
manifestarsi
dell’epidemia
fu
ancora
più
terrificante,
vista
anche
la
coincidenza
cronologica
con
il
costante
stato
di
bellicosità
che
si
ebbe
durante
questo
evo,
a
iniziare
dalla
Guerra
dei
Trent’anni,
per
poi
proseguire
con
le
guerre
di
Luigi
XIV
e il
grande
conflitto
che
vide
impegnati
imperiali,
polacchi,
veneziani
e
moscoviti
contro
gli
ottomani
nell’Europa
centro-orientale.
Oltre
ai
massacri
e al
grande
esodo
di
uomini
causato
dagli
scontri,
la
popolazione
europea
fu
ulteriormente
martoriata
da
inverni
fra
i
più
freddi
della
storia
del
pianeta:
siamo
nel
pieno
di
quella
che
alcuni
storici
sogliono
chiamare
“piccola
era
glaciale”,
un
lungo
arco
di
tempo
che
va
dalla
metà
del
XIV
alla
metà
del
XIX
secolo,
durante
il
quale
si
registrò
un
brusco
abbassamento
della
temperatura
media
terreste,
con
punte
particolarmente
basse
in
alcuni
periodi
come
quello
in
questione.
Un
Seicento
che
conobbe
anche
(in
larga
parte
in
conseguenza
delle
guerre,
del
freddo
e
delle
epidemie)
terribili
carestie
destinate
a
durare
almeno
fino
al
1659-1662,
anni
in
cui
la
produzione
agricola
conobbe
i
peggiori
recessi.
Tutte
queste
realtà
negative
hanno
valso
al
Secolo
di
Ferro
la
nomea
di
periodo
di
crisi
(sebbene
la
storiografia
non
sia
unanimemente
concorde
sulla
cosiddetta
“crisi
del
Seicento”,
preferendo
oggi
una
visione
complessiva
in
grado
di
tenere
in
debita
considerazione
i
progressi
in
campo
militare,
politico
e
scientifico
compiuti
in
quest’epoca).
Tornando
all’argomento
di
cui
mi
sono
proposto
di
parlare,
come
in
parte
accennato,
una
terrificante
serie
di
epidemie
di
peste
imperversò
sul
Vecchio
Continente
per
buona
parte
del
XVII
secolo,
a
cominciare
da
due
tremende:
una
nel
1625,
principalmente
sul
suolo
tedesco,
e
una
nel
1630-1631,
che
falcidiò
soprattutto
l’Italia
settentrionale,
dove
causò
la
morte
di
circa
il
40%
della
popolazione
urbana
e il
25%
di
quella
totale.
Tenendo
poi
in
considerazione
l’intero
manifestarsi
dell’epidemia
lungo
tutto
il
secolo,
fu
il
Sacro
Romano
Impero,
epicentro
della
maggior
parte
degli
scontri
della
Guerra
dei
Trent’anni
(1618-1648),
la
terra
più
provata,
con
perdite
umane
che,
secondo
le
stime
più
attendibili,
oscillarono,
nelle
regioni
più
colpite,
fra
il
50 e
l’80%.
L’ultimo
grande
“colpo
di
coda”
del
morbo
si
verificò
negli
anni
fra
il
1647
e il
1666
e
interessò
larga
parte
del
suolo
europeo.
Furono
la
Spagna
e
l’Inghilterra
a
conoscere
le
peggiori
pestilenze
della
loro
storia;
a
titolo
di
esempio
basti
pensare
che
Londra,
nel
1665,
conobbe
addirittura
la
morte
di
circa
97.000
persone
(di
cui
almeno
il
60%
causati
dalla
peste),
oltre
un
quinto
della
sua
popolazione
totale.
Dopo
di
allora
la
peste
diventerà
per
l’Europa
occidentale
solo
un
lontano
e
terrificante
ricordo,
giacché
andò
progressivamente
scomparendo,
salvo
casi
eccezionali
come
quelli
di
Marsiglia
del
1720
e di
Messina
del
1743
(non
così
nei
Balcani
e
nell’Europa
orientale,
dove
sarà
una
calamità
ancora
nei
secoli
a
venire).
Il
riacutizzarsi
delle
pestilenze
che
si
ebbe
dal
tardo
Cinquecento
non
deve
sorprendere:
la
scienza
medica
non
aveva
visto
grandi
progressi
sin
dal
Medioevo,
né
si
era
giunti
a
conclusioni
certe
sulle
origini
del
morbo,
né
si
conoscevano
rimedi
efficaci
per
curarlo
o,
quantomeno,
per
contenerlo.
Questo
è il
principale
motivo
per
cui
il
solo
manifestarsi
di
un
caso
di
peste
veniva
scongiurato
e
sconfessato
in
ogni
modo
dalle
autorità
preposte
alla
pubblica
sicurezza.
Dell’incapacità
di
affrontare
l’epidemia
ce
ne
ha
offerta
una
memorabile
trattazione
Alessandro
Manzoni
nei
capitoli
XXXI
e
XXXII
dei
Promessi
Sposi.
In
queste
celeberrime
pagine,
il
grande
scrittore
abbandonò
momentaneamente
le
vicende
dei
protagonisti
del
romanzo
e la
“finzione”
del
racconto
per
aprire
un’ampia
e
istruttiva
parentesi
sulla
peste
milanese
del
1630,
su
cui
si
era
ampiamente
documentato
e
che
ci
riporta,
nella
fattispecie,
più
in
veste
di
storico
che
di
romanziere.
Per
quanto
l’autore
lamenti
che
tutte
le
relazioni
secentesche
che
era
riuscito
a
consultare
mancassero
di
ordine,
completezza
di
notizie
e
capacità
di
osservazione
puramente
oggettiva
dei
fatti,
tutte
si
trovavano
concordi
nel
denunciare
lo
stato
di
assoluta
passività
delle
autorità
a
epidemia
scoppiata:
preoccupate
dalla
guerra
in
corso,
sia
quelle
politiche
che
quelle
sanitarie,
al
cui
vertice
vi
era
il
Tribunale
della
Sanità,
minimizzarono
il
pericolo,
negando
ogni
possibilità
che
il
morbo
fosse
giunto
a
Milano
(quando,
invece,
era
stato
portato
dai
lanzichenecchi).
Solo
un
autorevole
medico
subodorò
il
pericolo:
Ludovico
Settala,
capo
della
sanità
cittadina.
Per
tutta
risposta,
i
suoi
moniti
furono
rigettati
e,
anzi,
iniziò
a
essere
osteggiato
dalla
popolazione,
convinta
dell’inesistenza
del
male
e
preoccupata
solo
dell’approssimarsi
dell’inverno.
Tuttavia,
trascorso
l’inverno
e
sopraggiunta
la
primavera,
i
casi
di
quella
che
le
autorità
faticavano
a
riconoscere
come
peste,
in
una
progressiva
spirale
di
infezioni
e di
susseguenti
morti,
non
lasciò
spazio
a
equivoci:
la
sua
esistenza
fu
pubblicamente
ammessa.
Immediatamente
la
psicosi
del
male
si
diffuse
assai
più
rapidamente
della
pestilenza
stessa,
mentre
il
potere
politico,
anziché
ammettere
le
proprie
responsabilità
e
attuare
misure
di
reclusione
idonee
a
limitare
i
casi
di
contagio,
contribuì
indirettamente
a
favorire
proprio
ciò
che
avrebbe
dovuto
ostacolare,
i
contatti
fisici,
scaricando
la
colpa
su
dei
presunti
responsabili:
dei
fantomatici
“untori”
che
si
sarebbero
attivamente
prodigati
per
la
diffusione
dell’iniquo
morbo.
Tutti
i
forestieri
dovettero
pertanto
iniziare
a
temere
l’ira
forsennata
del
popolo:
ogni
minimo
gesto
poteva
essere
male
interpretato,
con
conseguente
aspra
vendetta,
come
accadde,
riporta
Manzoni
nel
XXXII
capitolo,
a un
vecchio
che
“dopo
aver
pregato
alquanto
inginocchioni,
volle
mettersi
a
sedere;
e
prima,
con
la
cappa,
spolverò
la
panca.
–
Quel
vecchio
unge
le
panche!
–
gridarono
a
una
voce
alcune
donne
che
vider
l’atto.
La
gente
che
si
trova
in
chiesa
(in
chiesa!),
fu
addosso
al
vecchio;
lo
prendon
per
i
capelli,
bianchi
com’erano;
lo
carican
di
pugni
e di
calci;
parte
lo
tirano,
parte
lo
spingon
fuori
[…]
per
istrascinarlo,
così
semivivo,
alla
prigione,
ai
giudici,
alle
torture”.
La
splendida
descrizione
dello
scoppio
della
peste
a
Milano
e
del
processo
agli
untori
fatta
dal
Manzoni
nei
Promessi
Sposi
(temi
ripresi
nella
Storia
della
colonna
infame)
ci
offre
l’opportunità
di
riflettere
su
una
realtà:
a
circa
due
secoli
dalla
scrittura
del
romanzo
e a
quattro
di
distanza
dagli
eventi
narrati,
ancora
molto
dobbiamo
imparare
sulla
gestione
delle
calamità,
in
primis
delle
epidemie.
Ancora
le
autorità
pubbliche
tendono
a
minimizzare
il
pericolo
finché
non
sono
costrette
ad
ammettere
l’eccezionale
situazione
di
pericolo,
finché
il
numero
dei
morti
non
induce
a
drastiche
misure,
senza
mai
fare
realmente
mea
culpa
su
come
non
si
sia
agito
prontamente
e su
quanto
scriteriato
sia
stato
il
sostegno
riservato
al
sistema
sanitario.
Egualmente
il
comportamento
della
popolazione
odierna
non
sembra
discostarsi
eccessivamente
da
quello
del
volgo
delle
pagini
del
Manzoni,
similarmente
preda
con
facilità
di
isteria
e
propensa
ad
agire
più
seguendo
l’istinto
che
il
raziocinio,
all’uopo
pronta
ad
addossare
le
colpe
su
dei
presunti
responsabili.
La
pandemia
COVID-19
odierna
raffrontata
con
l’epidemia
pestilenziale
manzoniana
è un
chiaro
esempio
di
come
l’uomo
abbia
ancora
molto
da
imparare
dai
propri
sbagli
e di
come
i
sentimenti
e i
comportamenti
istintuali
fatichino
a
cambiare
anche
a
secoli
di
distanza.
Tuttavia,
la
drammatica
situazione
che
stiamo
vivendo
non
deve
gettarci
necessariamente
nello
sconforto
più
totale,
un
barlume
di
speranza
c’è:
è
accaduto
spesso
nella
storia
che
dopo
momenti
tragici,
quali
guerre
o
epidemie
(comprese
quelle
di
peste
secentesche),
le
società
interessate
siano
rifiorite,
avviandosi
verso
un
progresso
prima
difficile
da
auspicare.
Chissà
che
questo
non
accada
anche
oggi.
Riferimenti
bibliografici:
Braudel
F.,
Cultura,
materiale,
economica
e
capitalismo
(secoli
XV-XVIII).,
I,
Le
strutture
del
quotidiano,
Einaudi,
Torino
1982.
Manzoni
A.,
I
Promessi
Sposi,
a
cura
di
Brasioli
A.,
Carenzi
D.,
Acerbi
C.,
Camisasca
F.,
Atlas,
Bergamo
2004.
Muto
G.,
La
crisi
del
Seicento,
in
Storia
moderna,
AA.VV.,
Donzelli,
Roma
2014,
pp.
249-72.