filosofia & religione
gli enti ecclesiastici nella
legislazione italiana
una ricognizione dall'unità a oggi
di Claudio Gentile
Il riconoscimento e l’attività degli
enti ecclesiastici è da sempre un
argomento centrale nei rapporti tra
Stato e Chiesa. In Italia, subito dopo
l’Unità, il nuovo Regno estese la
normativa del Regno di Sardegna già in
vigore alle province via via annesse.
In particolare, in materia religiosa, si
ricorda innanzitutto la Legge 5 giugno
1850, n. 1037 (c.d. Legge Siccardi) che
sottoponeva ad autorizzazione
governativa gli acquisti degli enti
morali, ecclesiastici o laicali. La
ratio della legge era quella di
limitare la manomorta, non solo
ecclesiastica, al fine di favorire la
circolazione dei beni immobili e il loro
pieno utilizzo. Sottesa a questa
motivazione vi era anche la volontà di
controllare il potere economico della
Chiesa.
Oltre alla Legge Siccardi vi era anche
la Legge 29 maggio 1855, n. 878 (c.d.
Legge Rattazzi) che soppresse le case
degli ordini religiosi non aventi fini
di predicazione, istruzione o assistenza
agli infermi. La legge, in particolare,
decretava: «cessano di esistere,
quali enti morali riconosciuti dalla
legge civile, le case poste nello Stato
degli ordini religiosi, i quali non
attendono alla predicazione,
all’educazione od all’assistenza degli
infermi» (art. 1), che «cessano
parimenti di esistere come enti morali,
a fronte della legge civile, i capitoli
delle chiese collegiate, ad eccezione di
quelli aventi cura d’anime, od esistenti
nelle città, la cui popolazione
oltrepassa 20.000 abitanti» (art. 2)
e che «cessano ancora di essere
riconosciuti i benefizi semplici i quali
non hanno annesso alcun servizio
religioso che debba compiersi
personalmente dal provvisto» (art.
4).
Fu quindi una legge dirompente che causò
la soppressione della personalità
giuridica degli ordini contemplativi e
ne incamerò i beni, anche se permise ai
membri di questi ordini di continuare a
fare vita comune negli stessi luoghi
dove avevano vissuto fino a quel
momento.
Sullo sfondo, oltre all’atteggiamento
antireligioso, vi era l’idea che i beni
degli ordini religiosi ritenuti
“inutili” per la società acquisiti al
patrimonio pubblico potessero risanare
le casse dello Stato, in quel momento in
grave difficoltà economica.
Tuttavia la legislazione italiana, anche
successiva, non si sostituiva alla
Chiesa nel legiferare sulla costituzione
e funzionamento degli enti ecclesiastici
(struttura interna), ma imponeva la
legge dello Stato “solo” per quanto
concerneva il loro operare sul piano dei
rapporti civili, specie dal punto di
vista patrimoniale.
Quest’ultima legge fu estesa a tutta
l’Italia unita ed ampliata con la Legge
7 luglio 1866, n. 3036 (in esecuzione
della Legge 28 giugno 1866, n. 2987),
con la quale furono soppressi gli ordini
religiosi, e la Legge 15 agosto 1867, n.
3848, che abolì la maggior parte degli
enti ecclesiastici non in cura d’anime
incamerandone i beni. Entrambe queste
due leggi, poi conosciute come il nome
di “leggi eversive”, furono poi estese
anche a Roma ed al Lazio dopo la breccia
di Porta Pia con la Legge 19 giugno
1873, n. 1402.
A differenza della Legge Siccardi del
1850 le Leggi 7 luglio 1866 e 15 agosto
1867 furono più dirompenti e soffrivano
ancora di più del clima antireligioso
del tempo. Infatti queste due leggi non
si limitavano solo ad abolire gli ordini
contemplativi ed incamerarne i beni per
sovvenire alle necessità dello Stato, ma
soppressero tutti gli ordini religiosi e
tanti altri enti ecclesiastici con
l’intento «di spezzare la forza
economica della Chiesa, cancellare la
vita religiosa e le sue strutture dalla
società civile, incamerare i beni
ecclesiastici, mantenere soltanto le
strutture che abbiano cura d’anime, a
cominciare da quelle beneficiali,
parrocchiali e diocesane» (Cardia,
p. 111).
Lo Stato, quindi, «con misure
giuridiche che non hanno nulla di
liberale e contrastano con il diritto di
libertà religiosa», impose alla
Chiesa le sue concezioni e le confiscò
gran parte del suo patrimonio.
La Legge 3036/1866 si apriva con la
draconiana norma «Non sono più
riconosciuti nello Stato gli ordini, le
corporazioni e le congregazioni
religiose regolari e secolari, ed i
conservatorii e ritiri, i quali
importino vita comune ed abbiano
carattere ecclesiastico. Le case e gli
stabilimenti appartenenti agli ordini,
alle corporazioni, alle congregazioni ed
ai conservatori e ritiri anzidetti sono
soppressi» (art. 1).
Il successivo articolo 11 disponeva
l’incameramento dei beni degli ordini
soppressi e la loro susseguente
alienazione: «Salve le eccezioni
contenute nei seguenti articoli, tutti i
beni di qualunque specie appartenenti
alle corporazioni soppresse dalla
presente legge e dalle precedenti, o ad
alcun titolare delle medesime, sono
devoluti al demanio dello Stato … Con
legge speciale sarà provveduto al modo
di alienazione dei beni trasferiti allo
Stato per effetto della presente legge».
A questo articolo seguivano una serie di
ulteriori norme e specificazioni che
tralasciamo di indicare nel presente
testo.
La successiva Legge 3848/1867 andò oltre
e stabilì la soppressione, e dunque la
privazione del riconoscimento giuridico,
di altri enti ecclesiastici, come i
capitoli di chiese collegiate, i
canonicati e le cappellanie di patronato
regio e laicale dei capitoli cattedrali,
le abbazie ed i priorati, le prelature,
le fondazioni ed i legati per oggetto di
culto, etc.. Da tale provvedimento
restarono esclusi solamente le mense
vescovili, i capitoli cattedrali ed
abbaziali, i seminari, i benefici
parrocchiali e le coadiutorie
parrocchiali, le chiese palatine, le
fabbricerie e le confraternite, tutti
quegli enti, cioè, che erano legati alla
cura delle anime. Gli enti
sopravvissuti, però, a eccezione delle
parrocchie, vennero assoggettati a una
elevata tassazione (30%) e, come già
detto, al controllo governativo circa
l’acquisto dei beni immobili di loro
proprietà.
Con la confisca delle proprietà
ecclesiastiche lo Stato ottenne in dote
un ricco patrimonio che pose in vendita,
incrementando così le proprie finanze.
Una parte consistente degli immobili,
soprattutto nel Sud Italia, inoltre, fu
destinata a sedi di pubblici uffici, di
scuole, di caserme, di carceri ecc.,
cosa che permise al nascente Stato
unitario di non indebitarsi
ulteriormente per edificare tali
strutture. Tuttavia, avendo privato
parroci e vescovi delle loro rendite o
parti di esse, la normativa stabilì di
erogare ai sacerdoti in cura d’anime a
carico dello Stato uno “stipendio”,
retributivo del servizio religioso, il
cosi detto “supplemento di congrua”.
Annessa Roma e il Lazio, la Legge delle
Guarentigie (31 maggio 1871, n. 214),
all’art. 16, comma 3, confermava «le
disposizioni delle leggi civili rispetto
alla creazione e ai modi di esistenza
degli istituti ecclesiastici ed
alienazioni dei loro beni».
Da menzionare per gli effetti che ebbe
su numerosi enti ecclesiastici è un
ultimo, ma importantissimo, intervento
legislativo che si ebbe con la Legge 17
luglio 1890, n. 6972 (c.d. Legge Crispi).
La citata legge sostanzialmente
nazionalizzò tutte le istituzioni di
assistenza e beneficenza (Opere Pie e
Confraternite) operanti in Italia.
Per Opere Pie la Legge intendeva tutte
quelle istituzioni che svolgevano
attività per le classi “meno agiate”,
ivi compresi gli istituti che “abbiano
oltre a ciò uno scopo ecclesiastico”.
Pertanto rientravano in questa
categoria, e vennero sottoposti alla
disciplina dettata dalla Legge Crispi,
anche tutti gli istituti a scopo
promiscuo, vale a dire di origine
ecclesiastica, con scopi quindi di
religione o di pietà, ma perseguenti
altresì fini di carità e di beneficenza.
Tra questi, per esempio, troviamo le
numerose confraternite dedite
all’assistenza ed alla beneficenza.
Vigeva, infatti, all’epoca un
sostanziale monopolio da parte della
Chiesa del settore assistenziale e la
legge voluta da Crispi puntava proprio a
sottrarre al potere diretto o indiretto
della Chiesa cattolica le opere di
assistenza e beneficenza e ricondurle
entro la sfera di influenza
dell’autorità civile. Per fare ciò la
Legge qualificò innanzitutto le Opere
Pie come Istituzioni Pubbliche di
beneficenza.
Per quanto concerne l’amministrazione di
tali istituzioni di beneficenza, un
ruolo di particolare rilievo venne
assegnato alle Congregazioni di carità
che, salvo eccezione, erano costituite
su base comunale e i cui membri erano
espressione del Consiglio comunale.
Tuttavia, pur prevedendo un incisivo
controllo pubblico, un ampio rilievo
giuridico venne riservato alla volontà
dei fondatori così come si manifestava
nelle tavole di fondazione e negli
statuti (p.es. il Presidente o alcune
membri del Consiglio di Amministrazione
erano di nomina ecclesiastica).
Compiti di “alta sorveglianza” sulla
pubblica beneficenza e di controllo sul
rispetto delle leggi in materia venne
assegnata dalla Legge al Ministero
dell’Interno: in ogni provincia, in
particolare, su incarico del Prefetto,
viene incaricato della vigilanza un
Consigliere di prefettura e si ampliano
le possibilità d’intervento del Governo,
sino allo scioglimento delle
istituzioni, in caso di non conformità
reiterata alla legge o di mancato
adempimento di atti obbligatori.
La Legge Crispi, quindi, si
contraddistingue per la volontà di
dilatare a dismisura, ed in una maniera
senza precedenti, l’ingerenza pubblica
nella vita delle istituzioni caritative
e per la tendenza a laicizzare anche gli
enti religiosi ritenuti superflui.
Il Concordato del 1929 tra Santa Sede e
Italia
La situazione cambia diametralmente con
la firma del Concordato lateranense tra
Santa Sede e Italia l’11 febbraio 1929.
Tutta la normativa fin qui succintamente
esposta approvata nei decenni precedenti
dallo Stato liberale, infatti, fu
sostituita superata e le norme
antiecclesiastiche furono abolite. Da
una situazione di disfavore si passò a
una di vero e proprio privilegio.
«Il nuovo sistema – è scritto
nella Relazione al Ministro
Guardasigilli – riconosce alla Chiesa
Cattolica una maggiore ampiezza e
libertà di azione, ed attribuisce
dignità di persone giuridiche a molte
istituzioni ecclesiastiche, alle quali
si era creduto di doverla negare con le
leggi eversive».
L’articolo del Concordato che
principalmente disciplina gli enti
ecclesiastici è il 29. Tale articolo,
oltre a confermare la personalità
giuridica agli enti ecclesiastici già
riconosciuti dalla legge italiana (Santa
Sede, diocesi, capitoli, seminari,
parrocchie, etc.), prevede il
riconoscimento alle chiese pubbliche
aperte al culto (lett. a), alle
associazioni religiose, con o senza
voti, approvate dalla Santa Sede, alle
loro province italiane ed alle singole
case, oltre che alle Case Generalizie ed
alle Procure delle associazioni, anche
estere (lett. b), alle confraternite con
scopo esclusivo o prevalente di culto
(lett. c), le fondazioni di culto (lett.
d).
Non potevano ricevere il riconoscimento,
invece, quelle confraternite (o altro
tipo di ente) con scopi prevalentemente
di assistenza e beneficenza. Questi tipi
di enti potevano essere riconosciti solo
ed esclusivamente come IPAB ai sensi
della Legge Crispi.
Norme di maggior dettaglio vennero date
dalla Legge 27 maggio 1929, n. 848 e dal
successivo Regolamento di esecuzione
(Regio Decreto 2 dicembre 1929, n.
2262). L’art. 4 della citata Legge
stabiliva che potevano essere
riconosciuti agli effetti civili «gli
istituti ecclesiastici di qualsiasi
natura e gli enti di culto».
La procedura, identica sia per il
riconoscimento, che per «ogni
mutamento sostanziale nel fine, nella
destinazione dei beni e nel modo di
esistenza degli istituti e degli enti
suddetti», prevedeva, dopo la
presentazione della richiesta di
riconoscimento, il parere del Consiglio
di Stato e l’emanazione di un Regio
Decreto.
Il riconoscimento comportava la capacità
di acquistare e di possedere. L’art. 5
specificava che gli istituti
ecclesiastici civilmente riconosciuti, «in
quanto esercitino attività di carattere
educativo, assistenziale o, comunque, di
interesse sociale a favore di laici …
sono sottoposti alle leggi civili
concernenti tali attività». Restava,
tuttavia, l’autorizzazione governativa
agli acquisti.
Se «l’ingerenza della Potestà Civile
si è venuta restringendo per lasciare
libera la Chiesa nella esplicazione
delle sue attività di natura più
specialmente religiosa e spirituale»,
lo Stato non ha «rinunziato al suo
alto controllo che si esplica
essenzialmente per mezzo di quattro
istituti fondamentali: l’intervento
nelle nomine ad uffici ed a benefici
ecclesiastici; il riconoscimento, agli
effetti civili, degli enti di culto,
l’autorizzazione per gli acquisti dei
beni; la tutela governativa per gli atti
eccedenti la ordinaria amministrazione»
(Relazione al Guardasigilli,
cit., p. 1).
Non solo, ma i rappresentanti legali
degli enti non potevano neanche «compiere
atti eccedenti l’ordinaria
amministrazione, senza l’autorizzazione
governativa, da concedersi, sentita
l’autorità ecclesiastica» (art. 12)
Per straordinaria amministrazione si
intendeva «oltre le alienazioni
propriamente dette, le affrancazioni
volontarie di censi e di canoni, i
mutui, gli atterramenti di piante di
alto fusto, le esazioni e gli impieghi
di capitali, le locazioni ultra
novennali d'immobili, le liti, sia
attive che passive, attinenti alla
consistenza patrimoniale degli enti»
(art. 13). Vi era, pertanto, una forma
di controllo governativo, oltre che
canonico, degli enti che mirava a non
bloccare la circolazione della ricchezza
e a far mantenere i fini degli enti
nell’alveo di quelli consentiti e cioè
la religione e il culto.
Informazioni importanti ci vengono dal
Regolamento attuativo. Ai sensi
dell’art. 7 la domanda doveva essere
corredata «del provvedimento
ecclesiastico di erezione o di
approvazione e dei documenti atti a
dimostrare la necessità o l’evidente
utilità dell’ente e la sufficienza dei
mezzi per il raggiungimento dei propri
fini».
In pratica dovevano dimostrarsi i
requisiti della necessità o della
utilità dell’ente e della sufficienza
dei mezzi (dotazione) per il
raggiungimento dello scopo prefissato
dell’ente. Requisito della utilità che
deve intendersi «in rapporto cioè
alla popolazione cui l’ente
ecclesiastico deve servire»
(Relazione al Guardasigilli, cit, p. 6).
I successivi articoli specificano
ulteriori documenti da allegare a
seconda della tipologia dell’ente (p.es.
per le chiese aperte al pubblico
l’istanza doveva essere corredata dei
documenti atti a provare che la chiesa
era stata dedicata al culto divino e che
era fornita dei mezzi sufficienti per
provvedere alla manutenzione e alla
ufficiatura, mentre per le fondazioni di
culto di qualunque specie la domanda
doveva essere corredata dei documenti
dai quali constava che era intervenuta
l’approvazione o l’accettazione
ecclesiastica, che la fondazione era
dotata di un patrimonio proprio
destinato a scopi di culto e che essa
risponde alle esigenze religiose della
popolazione e che dal suo riconoscimento
non possa derivare alcun onere
finanziario allo Stato).
Il Regolamento proseguiva dettando le
norme di esecuzione relative
all’autorizzazione agli acquisti di
immobili, eredità, legati e donazioni.
Va segnalato che la nuova disciplina
innovava fondamentalmente la materia.
L’autorizzazione agli acquisti vigente
la Legge 5 giugno 1850, n. 1037,
infatti, da istituto tipico di vigilanza
dello Stato sopra gli enti era diventato
man mano un istituto di portata e di
valore tipicamente tutori. L’indagine
che veniva svolta si limitava a vagliare
se fosse o meno vantaggioso per l’ente
acquirente l’acquisto che si aveva in
animo di fare.
Ora, invece, la Legge di attuazione del
Concordato riportava l’autorizzazione
agli acquisti al suo carattere
originario e cioè mirare a stabilire se
l’acquisto aumentava eccessivamente il
patrimonio dell’ente in contrasto con le
esigenze generali dell’economia
nazionale o se veniva a costituire un
pericolo sociale come incremento alla
manomorta.
Per il Governo riportare il controllo
sugli acquisti alle motivazioni
originali, soprattutto ora che la
disciplina sugli enti era estremamente
favorevole, era considerato essenziale,
rappresentando questo «l’unico mezzo
di difesa che abbia lo Stato».
La revisione del Concordato del 1984
La normativa fin qui esposta è ormai
oggetto di studi solamente da un punto
di vista storico, in quanto abrogata e
sostituita completamente a seguito alla
revisione del Concordato avvenuta nel
1984 con la firma dei c.d. “Accordi di
Villa Madama”.
Il nuovo Concordato, tuttora vigente,
firmato tra Santa Sede e Italia il 18
febbraio 1984, infatti, ha radicalmente
modificato la normativa relativa agli
enti ecclesiastici.
In particolare, ai sensi dell’art. 7,
comma 2, «ferma restando la
personalità giuridica degli enti
ecclesiastici che ne sono attualmente
provvisti», la Repubblica italiana
assicurava che avrebbe continuato a
riconoscere la personalità giuridica (e
ogni mutamento sostanziale degli stessi)
solamente agli enti ecclesiastici con
finalità di religione o di culto.
Agli enti ecclesiastici civilmente
riconosciuti il successivo comma 3
garantisce, per tutte le attività di
religione e di culto, gli stessi effetti
tributari che la legge riconosce agli
enti di beneficenza e istruzione. Le
attività diverse da quelle di religione
e di culto, invece, sono soggette, «nel
rispetto della struttura e delle
finalità di tal enti», alle leggi,
comprese quelle tributarie, concernenti
tali attività.
La vera novità posta dal nuovo
Concordato sta quindi praticamente nel
fatto che mentre dal 1929 potevano
aspirare a essere qualificati come enti
ecclesiastici tutti gli enti che
originavano nell’ordinamento canonico
indipendentemente dai fini perseguiti,
ora, invece, per ottenere il
riconoscimento è considerata decisiva la
presenza di sole due finalità: religione
o culto. Tutte le altre numerose
finalità previste dal diritto canonico
(istruzione, assistenza, beneficenza,
etc.), quindi, non sono sufficienti per
il riconoscimento civile.
Ciò non vuol dire che gli enti
ecclesiastici non possono svolgere
attività ulteriori da quelle di
religione o di culto, ma solo che se
svolgono queste tipologie di attività in
via prevalente non possono ottenere il
riconoscimento civile.
Oltre a queste indicazioni di cornice,
il Concordato rinviava a una fase
successiva disponendo l’istituzione di
una Commissione paritetica per la
formulazione delle norme, da sottoporre
all’approvazione delle Parti, per la
disciplina di tutta la materia degli
enti e beni ecclesiastici.
La Commissione paritetica fu poi
effettivamente costituita e predispose
in breve tempo una Relazione sui
principi della nuova legislazione e
un articolato sottoscritto dalle Parti,
sotto forma di Protocollo, il 15
novembre 1984. Il Protocollo fu
ratificato con la Legge 20 maggio 1985,
n. 206 e fu letteralmente trasfuso,
tanto da venir chiamate “leggi gemelle”,
nella legge di esecuzione di pari data
n. 222.
Utilizzando questa tecnica legislativa
il Legislatore voleva statalizzare la
normativa, ma dottrina e giurisprudenza
concordano nel ritenere questa legge
formalmente statale, ma sostanzialmente
pattizia e quindi una sua modifica deve
essere concordata con la Santa Sede.
La Legge n. 222/1985 è altamente
innovativa soprattutto nella parte in
cui, adeguandosi all’abrogazione del
sistema beneficiale previsto dal
rinnovato Codice di Diritto Canonico del
1983, prevede l’erezione in ogni diocesi
di un Istituto per il sostentamento per
il clero con il compito di assicurare il
congruo e dignitoso sostentamento del
clero in servizio presso le diocesi. In
tal modo tutti i beni, tranne quelli
assegnati a diocesi, parrocchie,
capitoli e seminari, passavano al detto
Istituto e venivano meno gli assegni
supplementari di congrua a carico dello
Stato.
Tralasciando questa parte, per quanto
riguarda gli enti la citata Legge si
rifà ai principi previsti dal nuovo
Concordato che la relazione della
Commissione paritetica così
sintetizzava: «L’ente ecclesiastico è
regolato da una disciplina “speciale”
che ne salvaguarda le caratteristiche
originarie ed il collegamento con la
struttura e l’ordinamento della Chiesa,
ma che, in più circostanze, si uniforma
al diritto comune: ciò soprattutto per
quanto riguarda l’espletamento delle
attività diverse da quelle di religione
e di culto, i momenti salienti della
amministrazione patrimoniale, la tutela
dei diritti dei terzi che entrano in
rapporti negoziali con l’ente».
L’esistenza delle suddette finalità
devono essere accertate di volta in
volta e devono considerarsi costitutive
ed essenziali all’ente richiedente il
riconoscimento (art. 2, comma 3). Sono
esenti dall’accertamento e riconosciuti
ex lege solamente gli enti che
fanno parte della costituzione
gerarchica della Chiesa (diocesi,
parrocchie, etc.), gli istituti
religiosi e i seminari (art. 2).
Ogni altra attività da quelle sopra
indicate, quali ad esempio quelle di
assistenza e beneficenza, istruzione,
educazione e cultura e, in ogni caso, le
attività commerciali a scopo di lucro,
sono da considerarsi “attività diverse”
(art. 16, lett. b) e come tali soggette
alle normali leggi dello Stato.
Una volta ricevuto il riconoscimento, a
garanzia dei terzi, gli enti
ecclesiastici sono tenuti a iscriversi
nel registro delle persone giuridiche.
In tale registro, come per qualsiasi
altro ente giuridico, ai fini della
conoscibilità e opponibilità, devono
risultare «le norme sul funzionamento
e i poteri degli organi di
rappresentanza dell’ente» (art. 5).
Da non dimenticare che il Concordato
“civilizza” e quindi rende cogenti anche
i vari controlli previsti per gli enti
dal diritto canonico. Pertanto possono
essere opposte a terzi, che sono tenuti
a conoscerle, anche le violazioni dei
controlli e delle autorizzazioni
canoniche.
Nell’attuazione della legge vi sono
stati problemi con la giurisprudenza del
Consiglio di Stato, investito dell’onere
del previo parere obbligatorio per il
riconoscimento degli enti ecclesiastici.
I supremi giudici amministrativi,
infatti, snaturando la ratio
degli accordi, chiedevano il rispetto,
oltre che della normativa pattizia,
anche delle norme del codice civile in
materia di costituzione di persone
giuridiche. In particolare si
soffermavano sulla valutazione di
conformità dei documenti presentati alla
disciplina ordinaria di costituzione
delle persone giuridiche
nell’ordinamento civile. Tale analisi
introduceva elementi di discrezionalità
che il Concordato non prevedeva in
quanto l’ente doveva rispettare solo le
norme dell’ordinamento canonico.
Questa giurisprudenza ha innescato nel
1995 la richiesta, da parte della Santa
Sede, di ricorrere all’art 14
dell’accordo di revisione, che prevede
la ricerca di un’amichevole soluzione,
in caso di difficoltà di interpretazione
o applicazione, da parte di una apposita
Commissione paritetica.
La Commissione ha concluso i suoi lavori
riaffermando che la disciplina degli
enti ecclesiastici ha carattere di
specialità rispetto a quella del codice
civile in materia di persone giuridiche.
In particolare, per esempio, non si può
richiedere la costituzione per atto
pubblico, cosa che comporterebbe una
“rifondazione” dell’ente
nell’ordinamento italiano, di un ente
già legittimamente fondato secondo le
regole dell’ordinamento canonico.
L’unico accertamento possibile, a volte
non facile, è quello sulla sussistenza,
come costitutiva ed essenziale (ma non
necessariamente prevalente) del fine di
religione o di culto, oltre che della
presenza di tutta la documentazione
richiesta a seconda dei casi.
Legislazione unilaterale statale e degli
ultimi tempi
Seppur dal 1929 gli enti ecclesiastici
sono oggetto di speciale normativa
bilaterale, tuttavia è necessario dare
uno sguardo anche alla normativa
unilaterale statale, soprattutto degli
ultimi anni. Tale normativa, infatti,
volontariamente o involontariamente, ha
avuto e continuerà ad avere un notevole
influsso sulla nascita, la vita e la
cessazione degli enti ecclesiastici in
Italia.
Per esempio, l’art. 17 della Legge n.
222 del 1985 stabilisce un rinvio alle
disposizioni della legge civile per ciò
che concerne gli acquisti degli enti
ecclesiastici. Ebbene l’art 13 della
Legge 15 maggio 1997, n. 127 (c.d. Legge
Bassanini), sostituito dall’art. 1 della
Legge 22 giugno 2000, n. 192, ha
abrogato tutte le disposizioni,
risalenti al 1850, che prescrivevano la
necessità di ricevere l’autorizzazione
governativa per l’acquisto di immobili o
per accettare donazioni, eredità e
legati.
Tale “semplice” abrogazione è risultata
di portata storica e ha segnato una vera
e propria rivoluzione i cui effetti
ancora oggi devono essere del tutto
compresi.
La stessa Legge, all’art. 17, n. 26,
eliminando il parere obbligatorio del
Consiglio di Stato su una serie di atti
ha cassato anche quello per il
riconoscimento degli enti che tanto
aveva tenuto occupato giuristi,
diplomatici, burocrati, operatori del
diritto, etc. Essendo stata
un’iniziativa unilaterale, la Santa Sede
è intervenuta nel ricordare che le norme
pattizie possono modificarsi solo previo
accordo tra le Parti.
Tuttavia, riconoscendo la bontà
dell’innovazione, ha comunque poi
acconsentito alla riduzione del parere
del Consiglio di Stato da obbligatorio a
facoltativo, limitatamente quindi ai
soli casi necessari in caso di dubbio
per l’oggettiva complessità o
delicatezza della pratica (Cfr. Scambio
di Note Verbali 11 luglio-27 ottobre
1997 in Quaderni di diritto e
politica ecclesiastica, 1999, 538
ss. Con lo stesso scambio di Note la
Santa Sede ha accordato che il
riconoscimento degli enti ecclesiastici
avvenga con Decreto del Ministro
dell’Interno anziché con Decreto del
Presidente della Repubblica (cfr. art. 1
L. 222/1985) così come unilateralmente
stabilito dalla Legge 12 gennaio 1991,
n. 13).
Gli enti ecclesiastici, invece, per
rispettare il principio pattizio, non
hanno usufruito della semplificazione
normativa prevista dal D.P.R. 10
febbraio 2001, n. 361 sui procedimenti
di riconoscimento delle persone
giuridiche, già regolati dal codice
civile. Di conseguenza il riconoscimento
degli enti ecclesiastici avviene secondo
il procedimento previsto dalla Legge 222
e non attraverso quello, semplificato,
relativo alle altre persone giuridiche
private. L’unica differenza rispetto al
passato che ha riguardato anche gli enti
ecclesiastici alla luce del DPR 361/2000
è che il registro delle persone
giuridiche non è più tenuto presso le
cancellerie dei Tribunali, ma presso le
Prefetture. Questa innovazione è stata
possibile anche per gli enti
ecclesiastici in quanto la Legge
222/1985 non disciplinava questa
materia, ma parlava genericamente di
“registro delle persone fisiche” senza
specificare altro.
Secondo tale normativa «gli enti
ecclesiastici delle confessioni
religiose con le quali lo Stato ha
stipulato patti, accordi o intese … sono
da considerarsi ONLUS limitatamente
all’esercizio delle attività elencate»
(assistenza sociale e socio-sanitaria,
assistenza sanitaria, beneficenza,
istruzione, formazione, sport
dilettantistico, tutela, promozione e
valorizzazione delle cose d’interesse
artistico e storico, etc.).
Essendo queste attività essenzialmente
da annoverarsi tra le “attività diverse”
degli enti ecclesiastici civilmente
riconosciuti, la legge permetteva che la
parte di ente che svolgeva una o più
delle attività indicate dal D.Lgs n.
460/1997 poteva vedersi riconosciuto la
qualifica di ONLUS. Tale riconoscimento
permetteva di godere di importanti
privilegi tributari e semplificazioni.
Come già indicato, infatti, il fine di
religione e di culto non preclude lo
svolgimento di altre attività, ma le
assoggetta alla legge civile comune. In
questo caso la legge permette di
richiedere il riconoscimento della
qualifica di ONLUS a tutta una serie
soggetti che esercitano le attività
indicate dalla legge stessa e di
usufruire delle particolari norme
favorevoli. Di conseguenza anche l’ente
ecclesiastico che svolge dette attività,
stante il principio costituzionale di
divieto di discriminazione per gli enti
ecclesiastici (art. 20), poteva
richiedere tale riconoscimento.
Questa normativa è ora in gran parte
stata abrogata con l’entrata in vigore
del Codice del Terzo Settore (Decreto
Legislativo 3 luglio 2017, n. 117), che,
regolando tutti quegli enti che
perseguono il bene comune, detta, sempre
unilateralmente, specifiche norme anche
per gli enti ecclesiastici (sempre
limitatamente alle loro “attività
diverse”) (In pari data è stato emanato
anche il Decreto Legislativo n. 112 (Revisione
della disciplina in materia di impresa
sociale, a norma dell’articolo 2, comma
2, lettera c) della legge 6 giugno 2016,
n. 106), che, abrogando il
precedente Decreto Legislativo 24 marzo
2006, n. 155 (Disciplina dell’impresa
sociale, a norma della legge 13 giugno
2005, n. 118) conferma (cfr. art. 1,
comma 3) la possibilità per gli enti
ecclesiastici, e a particolari
condizioni, di poter svolgere la propria
attività sociale in forma di impresa).
Per esempio il comma 3 dell’art. 4
stabilisce che
gli
enti religiosi civilmente riconosciuti
possono “usufruire” delle norme del
Codice,
«limitatamente
allo svolgimento delle attività di cui
all’articolo 5
(e
cioè
quelle già previste per le ONLUS più un
nutrito elenco di altre attività),
a condizione che per tali attività
adottino un regolamento, in forma di
atto pubblico o scrittura privata
autenticata, che, ove non diversamente
previsto ed in ogni caso nel rispetto
della struttura e della finalità di tali
enti, recepisca le norme del presente
Codice e sia depositato nel Registro
unico nazionale del Terzo settore».
Inoltre, «per lo svolgimento di tali
attività deve essere costituito un
patrimonio destinato e devono essere
tenute separatamente le scritture
contabili».
Il Codice, quindi, consente – e non
potrebbe essere diversamente – agli enti
ecclesiastici di poter gestire le
“attività diverse”, usufruendo dei
benefici ivi previsti, ma a condizione
che separino formalmente, destinando
anche un patrimonio vincolato, le varie
attività da quelle di religione e di
culto.
Ovviamente uno dei requisiti
fondamentali per potersi indicare come
ETS (Ente del Terzo Settore) e
iscriversi nell’apposito Registro
nazionale, è la esclusione, così come
avveniva nella legislazione sulle ONLUS,
di attività commerciali con scopo di
lucro e la distribuzione, anche
indiretta, degli utili.
A queste norme, ovviamente, devono
aggiungersi le innumerevoli e settoriali
leggi che devono essere osservate dagli
enti ecclesiastici nell’esercizio delle
loro attività quotidiane (oltre
alle norme tributarie e giuslavoristiche,
si pensi alle normative sulla gestione e
l’accreditamento di scuole, ospizi,
strutture ospedaliere e assistenziali,
ostelli e case per ferie, etc.),
in special modo per quelle diverse dalla
religione e culto, e che in un certo
qual modo limitano o comunque orientano
le scelte degli amministratori. Tra
queste vorrei segnalare, in particolare,
i Decreti Legislativi n. 231 del 2001
sulla responsabilità amministrativa
degli enti dipendenti da reato e n. 81
del 2008 sulla sicurezza nei luoghi di
lavoro.
In poco più di un secolo la legislazione
italiana sugli enti ecclesiastici è
passata da norme spiccatamente
antireligiose e quindi dannose per la
nascita, la crescita e la vita degli
enti a norme di estremo favore.
Ovviamente questo radicale cambiamento
si deve, come ogni avvenimento della
storia d’Italia, al mutare delle
sensibilità e delle contingenze.
Le leggi eversive di fine Ottocento
risentivano del clima liberale e dei
contrasti del nascente Stato italiano
con la Chiesa Cattolica. Non solo, ma,
come abbiamo visto, l’incameramento dei
beni non serviva solo a ridimensionare
la Chiesa, ma soprattutto a sfruttare le
proprietà possedute dai vari ordini
religiosi per pagare le ingenti spese
che il Regno d’Italia stava sostenendo
per le guerre di indipendenza prima e
per dotare l’apparato amministrativo di
adeguati immobili su tutto il territorio
nazionale poi. Senza l’appropriazione
dei conventi e il loro riadattamento,
per esempio, lo Stato non avrebbe avuto
la forza economica per costruire, e in
poco tempo, su tutto il territorio
nazionale municipi, carceri, caserme,
scuole.
Una nuova via si apre nei rapporti tra
Stato e Chiesa con la firma dei Patti
Lateranensi, che chiusero la “questione
romana” e diedero la possibilità alla
Chiesa di riappropriarsi compiutamente
di quel primario ruolo che aveva sempre
avuto nella società italiana. Certamente
il Fascismo sfruttò la situazione a
proprio vantaggio, ma non si poteva
escludere a lungo dalla vita pubblica
della nazione una così grossa fetta
della popolazione.
Importante è segnalare che, nel
legiferare, lo Stato, sia liberale che
fascista, ha sempre avuto come paradigma
di ente ecclesiastico quello cattolico.
Ciò per varie ragioni il primo dei quali
era la loro numerosità e l’importanza
che questi avevano nella società.
Oggi le cose stanno ulteriormente
modificandosi. La società si sta
secolarizzando, le attività una volta
monopolio della Chiesa vengono svolte
anche da altri soggetti e il Legislatore
man mano, unilateralmente come nel
periodo liberale, detta nuove norme che
marginalizzano sempre più, anche
involontariamente, gli enti
ecclesiastici. Lo Stato, infatti,
attuando sempre più e meglio,
soprattutto dopo la sentenza
costituzionale sulle Opere Pie, il
principio costituzionale di
sussidiarietà, che impone di limitare
l’azione dei pubblici poteri quando
l’iniziativa dei privati, singoli oppure
organizzati in strutture associative,
possa rivelarsi più efficiente, approva
sempre nuove normative a vantaggio di
attività non profit, consapevole che il
c.d. “terzo settore” e tutti gli
organismi che lo affollano
contribuiscono a realizzare un migliore
circuito di solidarietà.
In questo rinnovato quadro gli enti
ecclesiastici, anche per via delle
normative comunitarie più orientate
sull’esperienza degli enti ecclesiastici
luterani, stanno man mano perdendo la
loro specificità e vengono sempre più
inquadrati nel diritto comune.
Cosa ci prospetterà il futuro non lo
sappiamo. Molto probabilmente verrà
sempre più seguita la via unilaterale e
gli interventi legislativi non pattizi
saranno sempre più performanti.
Riferimenti bibliografici:
F. Margiotta Broglio, Riforma della
legislazione concordataria sugli enti e
sul patrimonio ecclesiastico: i principi
della Commissione paritetica
Italia-Santa Sede, in Foro
italiano, 1984, V, 368.
|