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[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 158 / FEBBRAIO 2021 (CLXXXIX)


filosofia & religione

gli enti ecclesiastici nella legislazione italiana
una ricognizione dall'unità a oggi
di Claudio Gentile

 

Il riconoscimento e l’attività degli enti ecclesiastici è da sempre un argomento centrale nei rapporti tra Stato e Chiesa. In Italia, subito dopo l’Unità, il nuovo Regno estese la normativa del Regno di Sardegna già in vigore alle province via via annesse.

 

In particolare, in materia religiosa, si ricorda innanzitutto la Legge 5 giugno 1850, n. 1037 (c.d. Legge Siccardi) che sottoponeva ad autorizzazione governativa gli acquisti degli enti morali, ecclesiastici o laicali. La ratio della legge era quella di limitare la manomorta, non solo ecclesiastica, al fine di favorire la circolazione dei beni immobili e il loro pieno utilizzo. Sottesa a questa motivazione vi era anche la volontà di controllare il potere economico della Chiesa.

 

Oltre alla Legge Siccardi vi era anche la Legge 29 maggio 1855, n. 878 (c.d. Legge Rattazzi) che soppresse le case degli ordini religiosi non aventi fini di predicazione, istruzione o assistenza agli infermi. La legge, in particolare, decretava: «cessano di esistere, quali enti morali riconosciuti dalla legge civile, le case poste nello Stato degli ordini religiosi, i quali non attendono alla predicazione, all’educazione od all’assistenza degli infermi» (art. 1), che «cessano parimenti di esistere come enti morali, a fronte della legge civile, i capitoli delle chiese collegiate, ad eccezione di quelli aventi cura d’anime, od esistenti nelle città, la cui popolazione oltrepassa 20.000 abitanti» (art. 2) e che «cessano ancora di essere riconosciuti i benefizi semplici i quali non hanno annesso alcun servizio religioso che debba compiersi personalmente dal provvisto» (art. 4).

 

Fu quindi una legge dirompente che causò la soppressione della personalità giuridica degli ordini contemplativi e ne incamerò i beni, anche se permise ai membri di questi ordini di continuare a fare vita comune negli stessi luoghi dove avevano vissuto fino a quel momento.

 

Sullo sfondo, oltre all’atteggiamento antireligioso, vi era l’idea che i beni degli ordini religiosi ritenuti “inutili” per la società acquisiti al patrimonio pubblico potessero risanare le casse dello Stato, in quel momento in grave difficoltà economica.

 

Tuttavia la legislazione italiana, anche successiva, non si sostituiva alla Chiesa nel legiferare sulla costituzione e funzionamento degli enti ecclesiastici (struttura interna), ma imponeva la legge dello Stato “solo” per quanto concerneva il loro operare sul piano dei rapporti civili, specie dal punto di vista patrimoniale.

 

Quest’ultima legge fu estesa a tutta l’Italia unita ed ampliata con la Legge 7 luglio 1866, n. 3036 (in esecuzione della Legge 28 giugno 1866, n. 2987), con la quale furono soppressi gli ordini religiosi, e la Legge 15 agosto 1867, n. 3848, che abolì la maggior parte degli enti ecclesiastici non in cura d’anime incamerandone i beni. Entrambe queste due leggi, poi conosciute come il nome di “leggi eversive”, furono poi estese anche a Roma ed al Lazio dopo la breccia di Porta Pia con la Legge 19 giugno 1873, n. 1402.

 

A differenza della Legge Siccardi del 1850 le Leggi 7 luglio 1866 e 15 agosto 1867 furono più dirompenti e soffrivano ancora di più del clima antireligioso del tempo. Infatti queste due leggi non si limitavano solo ad abolire gli ordini contemplativi ed incamerarne i beni per sovvenire alle necessità dello Stato, ma soppressero tutti gli ordini religiosi e tanti altri enti ecclesiastici con l’intento «di spezzare la forza economica della Chiesa, cancellare la vita religiosa e le sue strutture dalla società civile, incamerare i beni ecclesiastici, mantenere soltanto le strutture che abbiano cura d’anime, a cominciare da quelle beneficiali, parrocchiali e diocesane» (Cardia, p. 111).

 

Lo Stato, quindi, «con misure giuridiche che non hanno nulla di liberale e contrastano con il diritto di libertà religiosa», impose alla Chiesa le sue concezioni e le confiscò gran parte del suo patrimonio.

 

La Legge 3036/1866 si apriva con la draconiana norma «Non sono più riconosciuti nello Stato gli ordini, le corporazioni e le congregazioni religiose regolari e secolari, ed i conservatorii e ritiri, i quali importino vita comune ed abbiano carattere ecclesiastico. Le case e gli stabilimenti appartenenti agli ordini, alle corporazioni, alle congregazioni ed ai conservatori e ritiri anzidetti sono soppressi» (art. 1).

 

Il successivo articolo 11 disponeva l’incameramento dei beni degli ordini soppressi e la loro susseguente alienazione: «Salve le eccezioni contenute nei seguenti articoli, tutti i beni di qualunque specie appartenenti alle corporazioni soppresse dalla presente legge e dalle precedenti, o ad alcun titolare delle medesime, sono devoluti al demanio dello Stato … Con legge speciale sarà provveduto al modo di alienazione dei beni trasferiti allo Stato per effetto della presente legge». A questo articolo seguivano una serie di ulteriori norme e specificazioni che tralasciamo di indicare nel presente testo.

 

La successiva Legge 3848/1867 andò oltre e stabilì la soppressione, e dunque la privazione del riconoscimento giuridico, di altri enti ecclesiastici, come i capitoli di chiese collegiate, i canonicati e le cappellanie di patronato regio e laicale dei capitoli cattedrali, le abbazie ed i priorati, le prelature, le fondazioni ed i legati per oggetto di culto, etc.. Da tale provvedimento restarono esclusi solamente le mense vescovili, i capitoli cattedrali ed abbaziali, i seminari, i benefici parrocchiali e le coadiutorie parrocchiali, le chiese palatine, le fabbricerie e le confraternite, tutti quegli enti, cioè, che erano legati alla cura delle anime. Gli enti sopravvissuti, però, a eccezione delle parrocchie, vennero assoggettati a una elevata tassazione (30%) e, come già detto, al controllo governativo circa l’acquisto dei beni immobili di loro proprietà.

 

Con la confisca delle proprietà ecclesiastiche lo Stato ottenne in dote un ricco patrimonio che pose in vendita, incrementando così le proprie finanze. Una parte consistente degli immobili, soprattutto nel Sud Italia, inoltre, fu destinata a sedi di pubblici uffici, di scuole, di caserme, di carceri ecc., cosa che permise al nascente Stato unitario di non indebitarsi ulteriormente per edificare tali strutture. Tuttavia, avendo privato parroci e vescovi delle loro rendite o parti di esse, la normativa stabilì di erogare ai sacerdoti in cura d’anime a carico dello Stato uno “stipendio”, retributivo del servizio religioso, il cosi detto “supplemento di congrua”.

 

Annessa Roma e il Lazio, la Legge delle Guarentigie (31 maggio 1871, n. 214), all’art. 16, comma 3, confermava «le disposizioni delle leggi civili rispetto alla creazione e ai modi di esistenza degli istituti ecclesiastici ed alienazioni dei loro beni».

 

Da menzionare per gli effetti che ebbe su numerosi enti ecclesiastici è un ultimo, ma importantissimo, intervento legislativo che si ebbe con la Legge 17 luglio 1890, n. 6972 (c.d. Legge Crispi). La citata legge sostanzialmente nazionalizzò tutte le istituzioni di assistenza e beneficenza (Opere Pie e Confraternite) operanti in Italia.

Per Opere Pie la Legge intendeva tutte quelle istituzioni che svolgevano attività per le classi “meno agiate”, ivi compresi gli istituti che “abbiano oltre a ciò uno scopo ecclesiastico”. Pertanto rientravano in questa categoria, e vennero sottoposti alla disciplina dettata dalla Legge Crispi, anche tutti gli istituti a scopo promiscuo, vale a dire di origine ecclesiastica, con scopi quindi di religione o di pietà, ma perseguenti altresì fini di carità e di beneficenza. Tra questi, per esempio, troviamo le numerose confraternite dedite all’assistenza ed alla beneficenza.

 

Vigeva, infatti, all’epoca un sostanziale monopolio da parte della Chiesa del settore assistenziale e la legge voluta da Crispi puntava proprio a sottrarre al potere diretto o indiretto della Chiesa cattolica le opere di assistenza e beneficenza e ricondurle entro la sfera di influenza dell’autorità civile. Per fare ciò la Legge qualificò innanzitutto le Opere Pie come Istituzioni Pubbliche di beneficenza.

 

Per quanto concerne l’amministrazione di tali istituzioni di beneficenza, un ruolo di particolare rilievo venne assegnato alle Congregazioni di carità che, salvo eccezione, erano costituite su base comunale e i cui membri erano espressione del Consiglio comunale. Tuttavia, pur prevedendo un incisivo controllo pubblico, un ampio rilievo giuridico venne riservato alla volontà dei fondatori così come si manifestava nelle tavole di fondazione e negli statuti (p.es. il Presidente o alcune membri del Consiglio di Amministrazione erano di nomina ecclesiastica).

 

Compiti di “alta sorveglianza” sulla pubblica beneficenza e di controllo sul rispetto delle leggi in materia venne assegnata dalla Legge al Ministero dell’Interno: in ogni provincia, in particolare, su incarico del Prefetto, viene incaricato della vigilanza un Consigliere di prefettura e si ampliano le possibilità d’intervento del Governo, sino allo scioglimento delle istituzioni, in caso di non conformità reiterata alla legge o di mancato adempimento di atti obbligatori.

 

La Legge Crispi, quindi, si contraddistingue per la volontà di dilatare a dismisura, ed in una maniera senza precedenti, l’ingerenza pubblica nella vita delle istituzioni caritative e per la tendenza a laicizzare anche gli enti religiosi ritenuti superflui.

 

Il Concordato del 1929 tra Santa Sede e Italia

 

La situazione cambia diametralmente con la firma del Concordato lateranense tra Santa Sede e Italia l’11 febbraio 1929. Tutta la normativa fin qui succintamente esposta approvata nei decenni precedenti dallo Stato liberale, infatti, fu sostituita superata e le norme antiecclesiastiche furono abolite. Da una situazione di disfavore si passò a una di vero e proprio privilegio.

 

«Il Concordato con la Sana Sede ha inaugurato una nuova era di rapporti tra Stato e Chiesa, poiché riconosce in questa un’alta Potestà spirituale, capace di esplicare opera provvida e socialmente utile, e fa cessare in conseguenza quella intonazione di diffidenza o di semplice tolleranza, che contrassegnava le leggi dello Stato liberale dal 1848 in poi» (Ministero della Giustizia e degli affari di culto, Ufficio I, Regolamento per l’esecuzione della legge 27 maggio 1929, n. 848, contenente disposizioni sugli Enti ecclesiastici e sulle Amministrazioni civili dei patrimoni destinati a fini di culto, Relazione a S. E. il Ministro Guardasigilli, p. 1).

 

Una delle conseguenze delle nuove norme, per esempio, è l’equiparazione, agli effetti tributari, del fine di culto e di religione degli enti ecclesiastici, coi fini di beneficenza ed istruzione, tipiche delle IPAB e l’abolizione delle speciali ed esose tasse in capo alle parrocchie ed agli altri enti ecclesiastici superstiti. Non solo, ma mentre nella legislazione eversiva le figure specifiche di enti suscettibili di riconoscimento civile erano limitatissime, ora, al contrario, il criterio risulta rovesciato, e in effetti tutti quanti gli enti ecclesiastici eretti o approvati dall’Autorità Ecclesiastica giungono al riconoscimento della personalità civile.

 

«Il nuovo sistema – è scritto nella Relazione al Ministro Guardasigilli – riconosce alla Chiesa Cattolica una maggiore ampiezza e libertà di azione, ed attribuisce dignità di persone giuridiche a molte istituzioni ecclesiastiche, alle quali si era creduto di doverla negare con le leggi eversive».

 

L’articolo del Concordato che principalmente disciplina gli enti ecclesiastici è il 29. Tale articolo, oltre a confermare la personalità giuridica agli enti ecclesiastici già riconosciuti dalla legge italiana (Santa Sede, diocesi, capitoli, seminari, parrocchie, etc.), prevede il riconoscimento alle chiese pubbliche aperte al culto (lett. a), alle associazioni religiose, con o senza voti, approvate dalla Santa Sede, alle loro province italiane ed alle singole case, oltre che alle Case Generalizie ed alle Procure delle associazioni, anche estere (lett. b), alle confraternite con scopo esclusivo o prevalente di culto (lett. c), le fondazioni di culto (lett. d).

 

Non potevano ricevere il riconoscimento, invece, quelle confraternite (o altro tipo di ente) con scopi prevalentemente di assistenza e beneficenza. Questi tipi di enti potevano essere riconosciti solo ed esclusivamente come IPAB ai sensi della Legge Crispi.

 

Norme di maggior dettaglio vennero date dalla Legge 27 maggio 1929, n. 848 e dal successivo Regolamento di esecuzione (Regio Decreto 2 dicembre 1929, n. 2262). L’art. 4 della citata Legge stabiliva che potevano essere riconosciuti agli effetti civili «gli istituti ecclesiastici di qualsiasi natura e gli enti di culto».

 

La procedura, identica sia per il riconoscimento, che per «ogni mutamento sostanziale nel fine, nella destinazione dei beni e nel modo di esistenza degli istituti e degli enti suddetti», prevedeva, dopo la presentazione della richiesta di riconoscimento, il parere del Consiglio di Stato e l’emanazione di un Regio Decreto.

 

Il riconoscimento comportava la capacità di acquistare e di possedere. L’art. 5 specificava che gli istituti ecclesiastici civilmente riconosciuti, «in quanto esercitino attività di carattere educativo, assistenziale o, comunque, di interesse sociale a favore di laici … sono sottoposti alle leggi civili concernenti tali attività». Restava, tuttavia, l’autorizzazione governativa agli acquisti.

 

Se «l’ingerenza della Potestà Civile si è venuta restringendo per lasciare libera la Chiesa nella esplicazione delle sue attività di natura più specialmente religiosa e spirituale», lo Stato non ha «rinunziato al suo alto controllo che si esplica essenzialmente per mezzo di quattro istituti fondamentali: l’intervento nelle nomine ad uffici ed a benefici ecclesiastici; il riconoscimento, agli effetti civili, degli enti di culto, l’autorizzazione per gli acquisti dei beni; la tutela governativa per gli atti eccedenti la ordinaria amministrazione» (Relazione al Guardasigilli, cit., p. 1).

 

L’art. 9, infatti, stabiliva che «gli istituti ecclesiastici e gli enti di culto di qualsiasi natura non possono acquistare beni immobili, nè accettare donazioni, eredità o legati, senza essere autorizzati». La sanzione era la nullità dell’atto. Tale autorizzazione poteva essere concessa solo dopo aver udito il parere del Consiglio di Stato nei casi in cui l’atto aveva un valore superiore alle lire trecentomila (differentemente dal passato in cui il parere era obbligatorio per tutte le tipologie di autorizzazione).

 

Non solo, ma i rappresentanti legali degli enti non potevano neanche «compiere atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, senza l’autorizzazione governativa, da concedersi, sentita l’autorità ecclesiastica» (art. 12)

 

Per straordinaria amministrazione si intendeva «oltre le alienazioni propriamente dette, le affrancazioni volontarie di censi e di canoni, i mutui, gli atterramenti di piante di alto fusto, le esazioni e gli impieghi di capitali, le locazioni ultra novennali d'immobili, le liti, sia attive che passive, attinenti alla consistenza patrimoniale degli enti» (art. 13). Vi era, pertanto, una forma di controllo governativo, oltre che canonico, degli enti che mirava a non bloccare la circolazione della ricchezza e a far mantenere i fini degli enti nell’alveo di quelli consentiti e cioè la religione e il culto.

 

Informazioni importanti ci vengono dal Regolamento attuativo.        Ai sensi dell’art. 7 la domanda doveva essere corredata «del provvedimento ecclesiastico di erezione o di approvazione e dei documenti atti a dimostrare la necessità o l’evidente utilità dell’ente e la sufficienza dei mezzi per il raggiungimento dei propri fini».

 

In pratica dovevano dimostrarsi i requisiti della necessità o della utilità dell’ente e della sufficienza dei mezzi (dotazione) per il raggiungimento dello scopo prefissato dell’ente. Requisito della utilità che deve intendersi «in rapporto cioè alla popolazione cui l’ente ecclesiastico deve servire» (Relazione al Guardasigilli, cit, p. 6).

 

I successivi articoli specificano ulteriori documenti da allegare a seconda della tipologia dell’ente (p.es. per le chiese aperte al pubblico l’istanza doveva essere corredata dei documenti atti a provare che la chiesa era stata dedicata al culto divino e che era fornita dei mezzi sufficienti per provvedere alla manutenzione e alla ufficiatura, mentre per le fondazioni di culto di qualunque specie la domanda doveva essere corredata dei documenti dai quali constava che era intervenuta l’approvazione o l’accettazione ecclesiastica, che la fondazione era dotata di un patrimonio proprio destinato a scopi di culto e che essa risponde alle esigenze religiose della popolazione e che dal suo riconoscimento non possa derivare alcun onere finanziario allo Stato).

        

Il Regolamento proseguiva dettando le norme di esecuzione relative all’autorizzazione agli acquisti di immobili, eredità, legati e donazioni.

 

Va segnalato che la nuova disciplina innovava fondamentalmente la materia. L’autorizzazione agli acquisti vigente la Legge 5 giugno 1850, n. 1037, infatti, da istituto tipico di vigilanza dello Stato sopra gli enti era diventato man mano un istituto di portata e di valore tipicamente tutori. L’indagine che veniva svolta si limitava a vagliare se fosse o meno vantaggioso per l’ente acquirente l’acquisto che si aveva in animo di fare.

 

Ora, invece, la Legge di attuazione del Concordato riportava l’autorizzazione agli acquisti al suo carattere originario e cioè mirare a stabilire se l’acquisto aumentava eccessivamente il patrimonio dell’ente in contrasto con le esigenze generali dell’economia nazionale o se veniva a costituire un pericolo sociale come incremento alla manomorta.

Per il Governo riportare il controllo sugli acquisti alle motivazioni originali, soprattutto ora che la disciplina sugli enti era estremamente favorevole, era considerato essenziale, rappresentando questo «l’unico mezzo di difesa che abbia lo Stato».

 

La revisione del Concordato del 1984

     

La normativa fin qui esposta è ormai oggetto di studi solamente da un punto di vista storico, in quanto abrogata e sostituita completamente a seguito alla revisione del Concordato avvenuta nel 1984 con la firma dei c.d. “Accordi di Villa Madama”.

 

Il nuovo Concordato, tuttora vigente, firmato tra Santa Sede e Italia il 18 febbraio 1984, infatti, ha radicalmente modificato la normativa relativa agli enti ecclesiastici.

 

In particolare, ai sensi dell’art. 7, comma 2, «ferma restando la personalità giuridica degli enti ecclesiastici che ne sono attualmente provvisti», la Repubblica italiana assicurava che avrebbe continuato a riconoscere la personalità giuridica (e ogni mutamento sostanziale degli stessi) solamente agli enti ecclesiastici con finalità di religione o di culto.

 

Agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti il successivo comma 3 garantisce, per tutte le attività di religione e di culto, gli stessi effetti tributari che la legge riconosce agli enti di beneficenza e istruzione. Le attività diverse da quelle di religione e di culto, invece, sono soggette, «nel rispetto della struttura e delle finalità di tal enti», alle leggi, comprese quelle tributarie, concernenti tali attività.

 

La vera novità posta dal nuovo Concordato sta quindi praticamente nel fatto che mentre dal 1929 potevano aspirare a essere qualificati come enti ecclesiastici tutti gli enti che originavano nell’ordinamento canonico indipendentemente dai fini perseguiti, ora, invece, per ottenere il riconoscimento è considerata decisiva la presenza di sole due finalità: religione o culto. Tutte le altre numerose finalità previste dal diritto canonico (istruzione, assistenza, beneficenza, etc.), quindi, non sono sufficienti per il riconoscimento civile.

 

Ciò non vuol dire che gli enti ecclesiastici non possono svolgere attività ulteriori da quelle di religione o di culto, ma solo che se svolgono queste tipologie di attività in via prevalente non possono ottenere il riconoscimento civile.

 

Oltre a queste indicazioni di cornice, il Concordato rinviava a una fase successiva disponendo l’istituzione di una Commissione paritetica per la formulazione delle norme, da sottoporre all’approvazione delle Parti, per la disciplina di tutta la materia degli enti e beni ecclesiastici.

 

La Commissione paritetica fu poi effettivamente costituita e predispose in breve tempo una Relazione sui principi della nuova legislazione e un articolato sottoscritto dalle Parti, sotto forma di Protocollo, il 15 novembre 1984. Il Protocollo fu ratificato con la Legge 20 maggio 1985, n. 206 e fu letteralmente trasfuso, tanto da venir chiamate “leggi gemelle”, nella legge di esecuzione di pari data n. 222.

 

Utilizzando questa tecnica legislativa il Legislatore voleva statalizzare la normativa, ma dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere questa legge formalmente statale, ma sostanzialmente pattizia e quindi una sua modifica deve essere concordata con la Santa Sede.

 

La Legge n. 222/1985 è altamente innovativa soprattutto nella parte in cui, adeguandosi all’abrogazione del sistema beneficiale previsto dal rinnovato Codice di Diritto Canonico del 1983, prevede l’erezione in ogni diocesi di un Istituto per il sostentamento per il clero con il compito di assicurare il congruo e dignitoso sostentamento del clero in servizio presso le diocesi. In tal modo tutti i beni, tranne quelli assegnati a diocesi, parrocchie, capitoli e seminari, passavano al detto Istituto e venivano meno gli assegni supplementari di congrua a carico dello Stato.

 

Tralasciando questa parte, per quanto riguarda gli enti la citata Legge si rifà ai principi previsti dal nuovo Concordato che la relazione della Commissione paritetica così sintetizzava: «L’ente ecclesiastico è regolato da una disciplina “speciale” che ne salvaguarda le caratteristiche originarie ed il collegamento con la struttura e l’ordinamento della Chiesa, ma che, in più circostanze, si uniforma al diritto comune: ciò soprattutto per quanto riguarda l’espletamento delle attività diverse da quelle di religione e di culto, i momenti salienti della amministrazione patrimoniale, la tutela dei diritti dei terzi che entrano in rapporti negoziali con l’ente».

 

Entrando nel dettaglio la Legge n. 222 del 1985 e il successivo Regolamento di esecuzione (D.P.R. 13 febbraio 1987, n. 33), hanno specificato che si considerano “di religione e di culto”, agli effetti civili, le attività dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi e all’educazione cristiana (art. 16, lett. a).

 

L’esistenza delle suddette finalità devono essere accertate di volta in volta e devono considerarsi costitutive ed essenziali all’ente richiedente il riconoscimento (art. 2, comma 3). Sono esenti dall’accertamento e riconosciuti ex lege solamente gli enti che fanno parte della costituzione gerarchica della Chiesa (diocesi, parrocchie, etc.), gli istituti religiosi e i seminari (art. 2).

 

Ogni altra attività da quelle sopra indicate, quali ad esempio quelle di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura e, in ogni caso, le attività commerciali a scopo di lucro, sono da considerarsi “attività diverse” (art. 16, lett. b) e come tali soggette alle normali leggi dello Stato.

 

Una volta ricevuto il riconoscimento, a garanzia dei terzi, gli enti ecclesiastici sono tenuti a iscriversi nel registro delle persone giuridiche. In tale registro, come per qualsiasi altro ente giuridico, ai fini della conoscibilità e opponibilità, devono risultare «le norme sul funzionamento e i poteri degli organi di rappresentanza dell’ente» (art. 5). Da non dimenticare che il Concordato “civilizza” e quindi rende cogenti anche i vari controlli previsti per gli enti dal diritto canonico. Pertanto possono essere opposte a terzi, che sono tenuti a conoscerle, anche le violazioni dei controlli e delle autorizzazioni canoniche.

 

Nell’attuazione della legge vi sono stati problemi con la giurisprudenza del Consiglio di Stato, investito dell’onere del previo parere obbligatorio per il riconoscimento degli enti ecclesiastici.

 

I supremi giudici amministrativi, infatti, snaturando la ratio degli accordi, chiedevano il rispetto, oltre che della normativa pattizia, anche delle norme del codice civile in materia di costituzione di persone giuridiche. In particolare si soffermavano sulla valutazione di conformità dei documenti presentati alla disciplina ordinaria di costituzione delle persone giuridiche nell’ordinamento civile. Tale analisi introduceva elementi di discrezionalità che il Concordato non prevedeva in quanto l’ente doveva rispettare solo le norme dell’ordinamento canonico.

 

Questa giurisprudenza ha innescato nel 1995 la richiesta, da parte della Santa Sede, di ricorrere all’art 14 dell’accordo di revisione, che prevede la ricerca di un’amichevole soluzione, in caso di difficoltà di interpretazione o applicazione, da parte di una apposita Commissione paritetica.

 

La Commissione ha concluso i suoi lavori riaffermando che la disciplina degli enti ecclesiastici ha carattere di specialità rispetto a quella del codice civile in materia di persone giuridiche. In particolare, per esempio, non si può richiedere la costituzione per atto pubblico, cosa che comporterebbe una “rifondazione” dell’ente nell’ordinamento italiano, di un ente già legittimamente fondato secondo le regole dell’ordinamento canonico.

 

L’unico accertamento possibile, a volte non facile, è quello sulla sussistenza, come costitutiva ed essenziale (ma non necessariamente prevalente) del fine di religione o di culto, oltre che della presenza di tutta la documentazione richiesta a seconda dei casi.

 

Legislazione unilaterale statale e degli ultimi tempi

 

Seppur dal 1929 gli enti ecclesiastici sono oggetto di speciale normativa bilaterale, tuttavia è necessario dare uno sguardo anche alla normativa unilaterale statale, soprattutto degli ultimi anni. Tale normativa, infatti, volontariamente o involontariamente, ha avuto e continuerà ad avere un notevole influsso sulla nascita, la vita e la cessazione degli enti ecclesiastici in Italia.

 

Per esempio, l’art. 17 della Legge n. 222 del 1985 stabilisce un rinvio alle disposizioni della legge civile per ciò che concerne gli acquisti degli enti ecclesiastici. Ebbene l’art 13 della Legge 15 maggio 1997, n. 127 (c.d. Legge Bassanini), sostituito dall’art. 1 della Legge 22 giugno 2000, n. 192, ha abrogato tutte le disposizioni, risalenti al 1850, che prescrivevano la necessità di ricevere l’autorizzazione governativa per l’acquisto di immobili o per accettare donazioni, eredità e legati.

 

Tale “semplice” abrogazione è risultata di portata storica e ha segnato una vera e propria rivoluzione i cui effetti ancora oggi devono essere del tutto compresi.

 

La stessa Legge, all’art. 17, n. 26, eliminando il parere obbligatorio del Consiglio di Stato su una serie di atti ha cassato anche quello per il riconoscimento degli enti che tanto aveva tenuto occupato giuristi, diplomatici, burocrati, operatori del diritto, etc. Essendo stata un’iniziativa unilaterale, la Santa Sede è intervenuta nel ricordare che le norme pattizie possono modificarsi solo previo accordo tra le Parti.

 

Tuttavia, riconoscendo la bontà dell’innovazione, ha comunque poi acconsentito alla riduzione del parere del Consiglio di Stato da obbligatorio a facoltativo, limitatamente quindi ai soli casi necessari in caso di dubbio per l’oggettiva complessità o delicatezza della pratica (Cfr. Scambio di Note Verbali 11 luglio-27 ottobre 1997 in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1999, 538 ss. Con lo stesso scambio di Note la Santa Sede ha accordato che il riconoscimento degli enti ecclesiastici avvenga con Decreto del Ministro dell’Interno anziché con Decreto del Presidente della Repubblica (cfr. art. 1 L. 222/1985) così come unilateralmente stabilito dalla Legge 12 gennaio 1991, n. 13).

 

Gli enti ecclesiastici, invece, per rispettare il principio pattizio, non hanno usufruito della semplificazione normativa prevista dal D.P.R. 10 febbraio 2001, n. 361 sui procedimenti di riconoscimento delle persone giuridiche, già regolati dal codice civile. Di conseguenza il riconoscimento degli enti ecclesiastici avviene secondo il procedimento previsto dalla Legge 222 e non attraverso quello, semplificato, relativo alle altre persone giuridiche private. L’unica differenza rispetto al passato che ha riguardato anche gli enti ecclesiastici alla luce del DPR 361/2000 è che il registro delle persone giuridiche non è più tenuto presso le cancellerie dei Tribunali, ma presso le Prefetture. Questa innovazione è stata possibile anche per gli enti ecclesiastici in quanto la Legge 222/1985 non disciplinava questa materia, ma parlava genericamente di “registro delle persone fisiche” senza specificare altro.

 

Tralasciando la fondamentale sentenza della Corte Costituzionale (7 aprile 1988, n. 396) che ha rivoluzionato il mondo delle Opere Pie, “de-pubblicizzandole”, e che ha dato un notevole impulso all’iniziativa privata nel campo del sociale e del no profit, rilevantissima anche per gli enti ecclesiastici, è stata la normativa che ha “creato” e disciplinato, anche se soprattutto ai fini fiscali, le ONLUS (Organizzazioni Non Lucrative di Utilità Sociale) (Decreto Legislativo 4 dicembre 1997, n. 460).

 

Secondo tale normativa «gli enti ecclesiastici delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese … sono da considerarsi ONLUS limitatamente all’esercizio delle attività elencate» (assistenza sociale e socio-sanitaria, assistenza sanitaria, beneficenza, istruzione, formazione, sport dilettantistico, tutela, promozione e valorizzazione delle cose d’interesse artistico e storico, etc.).

 

Essendo queste attività essenzialmente da annoverarsi tra le “attività diverse” degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, la legge permetteva che la parte di ente che svolgeva una o più delle attività indicate dal D.Lgs n. 460/1997 poteva vedersi riconosciuto la qualifica di ONLUS. Tale riconoscimento permetteva di godere di importanti privilegi tributari e semplificazioni.

 

Come già indicato, infatti, il fine di religione e di culto non preclude lo svolgimento di altre attività, ma le assoggetta alla legge civile comune. In questo caso la legge permette di richiedere il riconoscimento della qualifica di ONLUS a tutta una serie soggetti che esercitano le attività indicate dalla legge stessa e di usufruire delle particolari norme favorevoli. Di conseguenza anche l’ente ecclesiastico che svolge dette attività, stante il principio costituzionale di divieto di discriminazione per gli enti ecclesiastici (art. 20), poteva richiedere tale riconoscimento.

 

Questa normativa è ora in gran parte stata abrogata con l’entrata in vigore del Codice del Terzo Settore (Decreto Legislativo 3 luglio 2017, n. 117), che, regolando tutti quegli enti che perseguono il bene comune, detta, sempre unilateralmente, specifiche norme anche per gli enti ecclesiastici (sempre limitatamente alle loro “attività diverse”) (In pari data è stato emanato anche il Decreto Legislativo n. 112 (Revisione della disciplina in materia di impresa sociale, a norma dell’articolo 2, comma 2, lettera c) della legge 6 giugno 2016, n. 106), che, abrogando il precedente Decreto Legislativo 24 marzo 2006, n. 155 (Disciplina dell’impresa sociale, a norma della legge 13 giugno 2005, n. 118) conferma (cfr. art. 1, comma 3) la possibilità per gli enti ecclesiastici, e a particolari condizioni, di poter svolgere la propria attività sociale in forma di impresa).

 

Per esempio il comma 3 dell’art. 4 stabilisce che gli enti religiosi civilmente riconosciuti possono “usufruire” delle norme del Codice, «limitatamente allo svolgimento delle attività di cui all’articolo 5 (e cioè quelle già previste per le ONLUS più un nutrito elenco di altre attività), a condizione che per tali attività adottino un regolamento, in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata, che, ove non diversamente previsto ed in ogni caso nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, recepisca le norme del presente Codice e sia depositato nel Registro unico nazionale del Terzo settore». Inoltre, «per lo svolgimento di tali attività deve essere costituito un patrimonio destinato e devono essere tenute separatamente le scritture contabili».

 

Il Codice, quindi, consente – e non potrebbe essere diversamente – agli enti ecclesiastici di poter gestire le “attività diverse”, usufruendo dei benefici ivi previsti, ma a condizione che separino formalmente, destinando anche un patrimonio vincolato, le varie attività da quelle di religione e di culto.

 

Ovviamente uno dei requisiti fondamentali per potersi indicare come ETS (Ente del Terzo Settore) e iscriversi nell’apposito Registro nazionale, è la esclusione, così come avveniva nella legislazione sulle ONLUS, di attività commerciali con scopo di lucro e la distribuzione, anche indiretta, degli utili.

 

A queste norme, ovviamente, devono aggiungersi le innumerevoli e settoriali leggi che devono essere osservate dagli enti ecclesiastici nell’esercizio delle loro attività quotidiane (oltre alle norme tributarie e giuslavoristiche, si pensi alle normative sulla gestione e l’accreditamento di scuole, ospizi, strutture ospedaliere e assistenziali, ostelli e case per ferie, etc.), in special modo per quelle diverse dalla religione e culto, e che in un certo qual modo limitano o comunque orientano le scelte degli amministratori. Tra queste vorrei segnalare, in particolare, i Decreti Legislativi n. 231 del 2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti dipendenti da reato e n. 81 del 2008 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.

 

In poco più di un secolo la legislazione italiana sugli enti ecclesiastici è passata da norme spiccatamente antireligiose e quindi dannose per la nascita, la crescita e la vita degli enti a norme di estremo favore. Ovviamente questo radicale cambiamento si deve, come ogni avvenimento della storia d’Italia, al mutare delle sensibilità e delle contingenze.

 

Le leggi eversive di fine Ottocento risentivano del clima liberale e dei contrasti del nascente Stato italiano con la Chiesa Cattolica. Non solo, ma, come abbiamo visto, l’incameramento dei beni non serviva solo a ridimensionare la Chiesa, ma soprattutto a sfruttare le proprietà possedute dai vari ordini religiosi per pagare le ingenti spese che il Regno d’Italia stava sostenendo per le guerre di indipendenza prima e per dotare l’apparato amministrativo di adeguati immobili su tutto il territorio nazionale poi. Senza l’appropriazione dei conventi e il loro riadattamento, per esempio, lo Stato non avrebbe avuto la forza economica per costruire, e in poco tempo, su tutto il territorio nazionale municipi, carceri, caserme, scuole.

 

Una nuova via si apre nei rapporti tra Stato e Chiesa con la firma dei Patti Lateranensi, che chiusero la “questione romana” e diedero la possibilità alla Chiesa di riappropriarsi compiutamente di quel primario ruolo che aveva sempre avuto nella società italiana. Certamente il Fascismo sfruttò la situazione a proprio vantaggio, ma non si poteva escludere a lungo dalla vita pubblica della nazione una così grossa fetta della popolazione.

Importante è segnalare che, nel legiferare, lo Stato, sia liberale che fascista, ha sempre avuto come paradigma di ente ecclesiastico quello cattolico. Ciò per varie ragioni il primo dei quali era la loro numerosità e l’importanza che questi avevano nella società.

 

Oggi le cose stanno ulteriormente modificandosi. La società si sta secolarizzando, le attività una volta monopolio della Chiesa vengono svolte anche da altri soggetti e il Legislatore man mano, unilateralmente come nel periodo liberale, detta nuove norme che marginalizzano sempre più, anche involontariamente, gli enti ecclesiastici. Lo Stato, infatti, attuando sempre più e meglio, soprattutto dopo la sentenza costituzionale sulle Opere Pie, il principio costituzionale di sussidiarietà, che impone di limitare l’azione dei pubblici poteri quando l’iniziativa dei privati, singoli oppure organizzati in strutture associative, possa rivelarsi più efficiente, approva sempre nuove normative a vantaggio di attività non profit, consapevole che il c.d. “terzo settore” e tutti gli organismi che lo affollano contribuiscono a realizzare un migliore circuito di solidarietà.

 

In questo rinnovato quadro gli enti ecclesiastici, anche per via delle normative comunitarie più orientate sull’esperienza degli enti ecclesiastici luterani, stanno man mano perdendo la loro specificità e vengono sempre più inquadrati nel diritto comune.

 

Cosa ci prospetterà il futuro non lo sappiamo. Molto probabilmente verrà sempre più seguita la via unilaterale e gli interventi legislativi non pattizi saranno sempre più performanti.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

F. Campobello, Gli enti ecclesiastici nell’Italia liberale: strategie politiche e normative tra “escalation” e tentativi di “riconciliazione”, in Stato, Chiese e pluralismo religioso, n. 15/2015, 4 maggio 2015.

C. Cardia, Risorgimento e religione, Giappichelli, Torino 2011.

S. Ferrari, La disciplina degli acquisti dei corpi morali nella legge 5 giugno 1850, n. 1037: il contesto normativo e la funzione delle autorizzazioni, in G. Feliciani (a cura di), L’autorizzazione agli acquisti degli enti ecclesiastici e degli altri enti senza fine di lucro, Milano 1993.

F. Margiotta Broglio, Riforma della legislazione concordataria sugli enti e sul patrimonio ecclesiastico: i principi della Commissione paritetica Italia-Santa Sede, in Foro italiano, 1984, V, 368.

A. Roccella, Gli enti ecclesiastici a vent’anni dall’accordo di modificazione del Concordato, in www.olir.it, 10.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]