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N. 43 - Luglio 2011 (LXXIV)

Enrico Berlinguer
Il più amato

di Giuseppe Formisano

 

La figura di Enrico Berlinguer è considerata ancora oggi unica e affascinante. Ricordato con rispetto anche dalla destra, osannato dai nostalgici della sinistra italiana ormai vuota e scombinata, quel suo carattere austero e poco aperto che gli valse il soprannome del “sardo-muto”.

 

Il suo parlare chiaro e senza demagogia, mancano oggi alla sinistra italiana ormai allineata alla politica dell’immagine e a un’apposizione a testa basta, fatta quasi con paura e senza passione e rigore civico e morale.

 

Comunista convinto fin da giovane, non gli mancò il coraggio di distanziarsi dal fallimentare sistema sovietico pseudo-socialista indicando la strada, anzi, una «via italiana al socialismo», per affrancarsi da Mosca e scrollarsi di dosso il peso di essere il segretario di un partito comunista cui principale alleato estero era una dittatura sul proletariato.

 

A torto o ragione, fu un attento analista nel formulare la proposta di compromesso storico, comprendendo quale sarebbe stato il prezzo da pagare nel caso il Partito Comunista Italiano, forte dei consensi elettorali che superavano il 30%, unico in Europa ad avere tale percentuale, avesse vinto le elezioni in un paese della NATO come l’Italia.

 

Fece molto parlare di sé nel luglio del 1981 quando in un’intervista rilasciata a Eugenio Scalfari sollevò la famosa “questione morale”, la cui lungimiranza mostra l’alto spirito d’osservazione del segretario sardo che quelle parole, oggi molto attuali, «i partiti sono diventati macchine di potere e clientela», sembrano poterle leggere su un quotidiano odierno.

 

Berlinguer nasce a Sassari alle 3 del mattino del 25 maggio 1922. Il padre Mario, era un brillante avvocato liberale, eletto alla Camera dei Deputati nel 1924 nella coalizione di Giovanni Amendola.

 

Suo nonno paterno, dal quale prese il nome, era un repubblicano mazziniano che a vent’anni diresse il movimento “La giovine Sardegna” e poi il giornale “La Nuova Sardegna”. Per questa testata di tradizione liberal-risorgimentale scriveva anche Ettore Berlinguer, zio paterno che per il giovane Enrico fu un modello. Fu questi, infatti, che avvicinò il giovane alle letture anarchiche di Bakunin e socialista di Marx.

 

Le prime azioni del giovane comunista furono quelle della bandiera sovietica e i moti del pane.

 

Il 18 settembre 1943, in una Sardegna semilibera, Berlinguer, che da tre anni era iscritto al partito, il quale operava ancora in uno stato di semiclandestinità, insieme ai suoi compagni ritenne giusto che dal balcone della Provincia di Sassari non sventolassero solo le bandiere di USA, Inghilterra e Francia, ma anche quella dell’URSS, fortemente impegnata nella lotta contro i nazisti. Andare in giro per la città con la bandiera falce e martello non fu facile per i giovani, dovendola difendere dai fascisti ancora in giro e dagli alleati occupanti. L'operazione bandiera sovietica, però, ebbe buon fine.

 

Nel gennaio 1944 la situazione era quasi tragica sull’isola: beni di prima necessità come il latte e pane mancavano da qualche tempo. Nella manifestazione di protesta da parte della popolazione affamata sotto il palazzo della Prefettura, Berlinguer e i compagni della sezione di via San Sisto erano in prima fila.

 

Quei moti per il pane portarono alla devastazione di negozi alimentari e a vari arresti. Circa trenta persone, immediatamente e nei giorni successivi, furono portati in prigione e tra questi c’era anche il futuro segretario. Il breve periodo di prigionia lo portò a riflettere molto, e dopo la scarcerazione, in contrasto con padre, decise di lasciare la facoltà di giurisprudenza per dedicarsi solo alla lotta di partito.

 

La carriera nel partito fu veloce e brillante. Il padre conosceva Palmiro Togliatti, quest’ultimo tornato nel giugno 1944 in Italia dopo l’esilio, in quanto entrambi avevano frequentato il liceo classico Azuni di Sassari, lo stesso del giovane Enrico. Accompagnato dal padre, lasciò la Sardegna e venne presentato ad “Ercoli” (con questo pseudonimo Togliatti firmava i documenti di propaganda antifascista) il quale lo mandò a “farsi le ossa” nelle federazioni giovanili di Roma prima e Milano poi, prima di essere eletto nel ’46 nel comitato centrale del partito.

 

Nel 1949 tale organo istituì la FGCI, la Federazione Giovanile Comunista Italiana, e Berlinguer divenne segretario nazionale. In quello stesso anno assunse la presidenza della Federazione Mondiale della Gioventù Democratica, organo internazionale dei giovani comunisti.

 

Sono anni di fervide discussioni con giovani di tutto il mondo e italiani, incontrandosi e confrontandosi con tantissima gente diversa, grazie al doppio incarico e nei suoi viaggi da Roma a Budapest (sede delle Federazione internazionale). Nel 1953 lasciò l’incarico di Budapest e nel ’55 quello alla FGCI. L’anno successivo sarà terribile per tutti i comunisti del mondo con l’invasione dell’URSS in Ungheria e la repressione alle richieste di democratizzazione del sistema moscovita.

 

Berlinguer è sconcertato, e iniziò a ricredersi e ad avere ripensamenti sul sistema creato ed ereditato di Stalin e l’URSS. Nel gennaio del 1957 diventò responsabile dell’Istituto di Studi Comunisti, scuola di partito più conosciuta come Frattocchie.

 

Dopo i fatti d’Ungheria anche nella scuola romana qualcosa cambiò: non era più necessario studiare la storia del partito comunista scritta da Stalin.

 

Dopo un incarico in Sardegna ritornò a Roma, dove assunse la guida dell’organizzazione del partito. Al congresso del 1962 venne eletto responsabile della segreteria, incarico forse ancora più delicato del precedente.

 

In quell’estate morì Togliatti, lasciando il posto da segretario a Luigi Longo.

 

Longo volle Berlinguer nella delegazione inviata a Mosca per tentare di non scomunicare il partito comunista cinese com’era nelle intenzioni di Mosca.

 

In quell’incontro Berlinguer mostrò la sua testardaggine pretendendo dai russi spiegazioni sulla destituzione di Chruscev che fu inviato a dimettersi da segretario del partito e tenendo testa alle loro richieste di non pubblicare il memoriale scritto da Togliatti poco prima di morire.

 

Al congresso del PCI nel 1966 ci fu realmente la possibilità di una scissione nel partito. L’ala sinistra guidata da Pietro Ingrao era ritenuta rivoluzionaria rispetto alle linee generale del partito. Berlinguer non si schierò con Ingrao, ma non condannò neanche le sue idee. Alla fine lo strappo fu ricucito, ma a Berlinguer, così come volle Longo, gli fu affidato un incarico alla periferia del partito diventando responsabile della regione Lazio.

 

Ad alcuni questo incarico sembrò una punizione, altri, invece, come un segnale da parte di Longo intenzionato a lasciargli il posto alla segreteria nazionale, e infatti, nel 1969, dopo che un ictus colpì Longo, Berlinguer fu eletto vicesegretario dunque naturale successore di Longo.

 

La nomina alla segreteria nazionale arriverà nel 1972. Eletto al XIII congresso a Milano, al primo discorso metterà subito le cose in chiaro: «Compagni, non sarò né Togliatti né Longo».

 

L’11 settembre del 1973, anche lui come milioni di antifascisti in tutto il mondo, fu svegliato nel cuore della notte da una notizia orrenda: in Cile, il governo di sinistra eletto democraticamente, fu rovesciato da un colpo di Stato fascista ad opera del generare Augusto Pinochet. Il capo del governo Salvatore Allende rimase ucciso nel tentativo di resistere all’aggressione.

 

Berlinguer capì subito che il tutto era riconducibile alla guerra fredda e alla logica dei blocchi, e nello specifico al fatto che gli USA non avrebbero mai tollerato un governo di socialisti e comunisti nel proprio “cortile di casa”, cioè il continente sudamericano, e che questo episodio doveva far riflettere sulla strategia da adottare in Italia. Ma ci fu ancora un altro evento che contribuì a un attenta analisi politica.

 

Il 3 ottobre di quello stesso anno tenne una veloce visita a Sofia. Nella capitale bulgara Berlinguer incontrò i dirigenti del partito comunista e quella stessa sera era pronto per tornare il Italia. Sulla strada per l’aeroporto, nella coda del traffico, un camion proveniente dalla corsia opposta si staccò dalle altre auto e colpì violentemente la vettura su cui viaggiavano il segretario italiano e gli altri dirigenti bulgari: Berlinguer è ferito, l’interprete muore, non stanno meglio gli altri. Berlinguer decide di tornare subito a Roma e non passare la notte in ospedale come gli fu proposto.

 

La diagnosi gli impose qualche settimana di riposo a casa: ciò gli permise di riflettere sugli eventi accaduti in Cile e in Bulgaria. Il segretario sardo scrisse un articolo per “Rinascita”, un settimanale comunista, che fu pubblicato a causa della notevole lunghezza in due diversi numeri.

 

Basandosi su elementi importanti come la crisi economica dovuta all’inflazione del petrolio, i fatti del Cile e l’ordine pubblico in Italia causato dalla contrapposizione tra diverse ideologie che provocò quasi quotidianamente morti nelle strade tra i militanti, propose l’avviamento di un processo di grande dialogo tra i maggiori partiti che raccoglievano gli elettori cattolici e comunisti.

 

L’obiettivo era di arrivare a governare insieme il paese: Berlinguer formulò tale proposta parlando di compromesso storico.

 

Il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro era un ottimo interlocutore per il massimo dirigente comunista, ma non furono unanimi le reazioni né da una parte né dall’altra. La corrente di destra della Dc e la corrente di sinistra del PCI, si opposero con tenacia a una coalizione governativa con lo storico nemico.

 

Ma perché Berlinguer formulò questa proposta?

 

Di motivi se ne possono trovare più di uno. Secondo il segretario «sarebbe del tutto illusorio pensare che, anche se i partiti e le forze della sinistra riuscissero a raggiungere il 51% dei voti, questo fatto garantirebbe la sopravvivenze di un governo che fosse l’espressione di questo 51%», perciò la sua strategia non contemplava un’alternativa di sinistra, insufficiente per governare l’Italia, ma un’ «alternativa democratica», cioè «la prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari d’ispirazione comunista e socialista e con le forze popolari d’ispirazione cattolica, oltre con formazioni di altro orientamento democratico». Alla luce dei tragici fatti del Cile, della violenza per strada e della crisi economica, Berlinguer capì che solo insieme si poteva governare l’Italia, altrimenti ci sarebbe stata la seria possibilità di rivivere l’esperienza di Allende.

 

Nel ’76 iniziarono i cosiddetti governi di “solidarietà nazionale”, attraverso i quali il PCI dava l’appoggio esterno ai governi democristiani, pur se propri dirigenti non possedevano nomine di sottosegretari o ministri. Queste “prove” per il compromesso storico non ebbero sempre l’avallo degli operai e della base del partito.

 

Mentre la polemica del compromesso storico non trovava fine, nel 1975 il PCI raggiunse risultati elettorali eccezionali nelle amministrative, aumentando di ben sei punti percentuali la media nazionale rispetto al 1970. In quello stesso anno Berlinguer fece parlare di sé anche all’estero, mandando ancora dei segnali di ostilità a Mosca con la proposta dell’Eurocomunismo.

 

Questa espressione fu coniata dal giornalista Frane Barbieri nel suo articolo su “Il Giornale” del 26 giugno 1975 intitolato Le scadenze di Brezhnev.

 

Con Eurocomunismo si intende il rapporto che ebbero il Partito Comunista italiano, francese e spagnolo dal 1975 in poi con l’obiettivo di distanziarsi dal sistema sovietico e rivendicare una più sfacciata autonomia da Mosca. A questi più grandi partiti si aggiunsero anche quelli più piccoli di Belgio, Grecia e Gran Bretagna.

 

In seguito, sulle posizioni di questi partiti europei si trovò anche il Partito Comunista giapponese, contribuendo a rendere inappropriata l’espressione “euro” comunismo. Nel corso dell’anno il PCI incontrò prima a Livorno il PCE, il Partito Comunista spagnolo, poi a novembre quello francese. Il sogno di coniugare democrazia e socialismo, però fallì.

 

Carrello, segretario spagnolo, era alle prese con lo stato di semiclandestinità in cui ancora giaceva il proprio partito, mentre il segretario francese Marchais non ebbe fondamentalmente mai la volontà di rompere con Mosca. I tre partiti non riuscirono a trovare una linea comune neanche nell’incontro tenuto a Madrid nel marzo nel 1977.

 

Alle elezioni del 20 giugno 1976, il PCI ottenne suo massimo storico: 34,4 % dei voti, ma ci fu anche un’altra sorpresa, il recupero della DC che tornò al 38%.

 

Quattro giorni prima delle elezioni Berlinguer rilasciò un’importante intervista a Giampaolo Pansa del “Corriere della Sera”.

 

Alla domanda se temesse che Mosca gli avrebbe fatto fare la stessa fine di Dubcek, il leader della Primavera di Praga, il segretario rispose: «No, siamo in un’altra area del mondo». «Insomma – insistette Pansa – il Patto atlantico può anche essere uno scudo utile per costruire il socialismo nella libertà?», Berlinguer diede una risposta che provocò sgomento e meraviglia, soprattutto nella sinistra, «Io voglio che l’Italia non esca dal Patto atlantico“ anche per questo e non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe l’equilibrio internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua, sotto l’ombrello della NATO, ma vedo che anche di qua ci sono seri tentativi di limitare la nostra autonomia». Appunto, l’equilibrio internazionale.

 

Proprio tale concetto fu chiaro al segretario sardo, e per questo fece la proposta di governare insieme alla DC, e sempre la delicata questione dell’equilibrio internazionale post seconda guerra mondiale, tanto cara agli USA, fu la causa del tragico epilogo di Aldo Moro, stando alle rivelazioni di Steve Pieczénik, psichiatra americano membro di uno dei comitati di crisi istituiti dal ministro dell’Interno Francesco Cossiga nel 1978 durante il sequestro del presidente DC.

 

Berlinguer nel corso degli anni successivi fece ancora parlare di sé, come in occasione del rilancio della politica dei sacrifici economici e dell’austerità nel 1977, oggetto di contestazione del giovani dei movimenti del ’77, o come in occasione della già citata storica intervista a “la Repubblica” del 28 luglio 1981, nella quale sollevò la questione morale sintetizzando la situazione dei partiti politici con queste parole: «Macchine di potere e clientela: scarso mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passioni civili, zero».

 

Gli ultimi anni alla segreteria del partito, che furono anche gli ultimi della sua vita, Berlinguer lì dedicò occupandosi dei paesi del Terzo mondo, dello squilibrio tra i paesi industrializzati e quelli poveri, anzi, impoveriti dai potenti.

 

Nel 1984 si tennero le elezioni per il Parlamento europeo. La campagna elettorale fu ricca d'incontri per il segretario. Il 7 giugno, a Padova, mentre teneva un appassionato intervento dal palco in Piazza della Frutta, poco dopo aver pronunciato «Compagni, proseguite il vostro lavoro casa per casa, strada per strada», venne colpito da un ictus e crollò sul palco.

 

Dal maxischermo allestito per l’occasione la folla vide in diretta il volto stremato dal dolore. Fu trasferito prima in albergo poi in ospedale, ma i soccorsi furono inutili.

 

Alle 12.45 circa dell’11 giugno 1984, Berlinguer morì. Due giorni dopo si tennero in Piazza San Giovanni a Roma i funerali del “più amato”, così come fu soprannominato.

 

I suoi funerali fecero ricordare tanto quelli di Togliatti (che invece era ricordato come “il migliore”) per l’immensa partecipazione. L’emozione suscitata dalla sua scomparsa contribuì al successo elettorale del PCI, che a sorpresa ed in quell’unica occasione divenne il primo partito italiano toccando 33,3% dei consensi nelle consultazioni continentali, mentre la DC non andò oltre il 33%.

 

I suoi funerale, in numero di partecipanti - un milione e mezzo circa di persone - sono ancora oggi quelli con la più alta partecipazione popolare. Persino il segretario dell’MSI Giorgio Almirante si recò al feretro dello stimato avversario.

 

Aleggia ancora oggi in chi ricorda quel giorno, l’immagine del Presidente della Repubblica Pertini con le mani appoggiate sulla sua tomba e il capo chino.

 

Alessandro Natta sostituì Berlinguer alla segreteria nazionale. Non sappiamo come sarebbe andata la nostra del partito e del paese se non fosse prematuramente scomparso. Sappiamo solo, che a quasi trent’anni dalla sua scomparsa, di quel 34,4% di voti oggi nessun partito con la felce e il martello ha ereditato neanche una misera parte.



 

 

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