medievale
COMANDANTI ROMANI NEI REGNI BARBARICI
IL CASO DI ENNIO MUMMOLO
di Roberto Conte
Come è noto, il rapido declino e la
caduta finale dell’Impero Romano
d’Occidente, nel V secolo d.C.,
portarono alla costituzione dei
cosiddetti regni romano-barbarici ad
opera di quelle stesse popolazioni
germaniche che avevano determinato quel
drammatico crollo, avviando un complesso
processo di convivenza, prima, e di
fusione, poi, tra genti profondamente
diverse per costumi e tradizioni, in
alcuni casi abbastanza scioltamente, in
altri con maggiori contrasti e
resistenze.
In questo contesto è opinione comune
che, mentre l’amministrazione civile di
questi stati venne lasciata nelle mani
di elementi delle élites
indigene, ovviamente meglio attrezzate
per gestirla in modo efficace, le
attività militari restarono una
prerogativa rigidamente riservata ai
nuovi arrivati, sia perché le
popolazioni “latine” erano fortemente
sospettate di mantenere la loro fedeltà
verso l’imperatore d’Oriente, sia per
una maggiore propensione dei Germani
verso la carriera delle armi.
In realtà c’è parecchio di vero in
questa opinione: la disaffezione degli
indigeni per la carriera delle armi era
un fenomeno di lunga data, che può farsi
risalire già all’inizio dell’epoca
imperiale. Le legioni, formate sino a
allora quasi esclusivamente da Italici,
si erano trovate di fronte a una sempre
più grave carenza di nuove reclute e si
erano quindi aperte all’arruolamento di
coscritti provenienti prima dalle
province a più alta latinizzazione, poi
da quelle più periferiche, infine da
quelle stesse popolazioni nordiche che
stavano mettendo seriamente a rischio la
tenuta dell’Impero, e che infine ne
avrebbero causato la caduta.
Del resto, quasi tutti gli ultimi
magistri militum più rilevanti
furono di derivazione barbarica:
Stilicone era un vandalo, Ricimero un
goto-suebo, e alcuni affermano che
persino Ezio, “l’ultimo dei Romani”,
fosse per parte di padre di origine gota
o scita (qualsiasi popolo transdanubiano
si volesse indicare con tale termine).
Tuttavia diversi indizi inducono a
ritenere che una tale divisione sia
troppo schematica e soprattutto che essa
non fosse ugualmente valida in tutti i
regni romano-barbarici, variando a
seconda della situazione locale e della
presenza più o meno incombente del
pericolo di una restaurazione imperiale.
Certamente nel regno vandalo
dell’Africa, dove i contrasti religiosi
tra i dominatori ariani e gli indigeni
niceni spesso portarono a vere e proprie
persecuzioni contro questi ultimi, e
dove restava costante la minaccia di una
riscossa dell’imperatore d’Oriente
(minaccia poi divenuta realtà con la
spedizione di Belisario nel 533-534),
non c’era assolutamente spazio per una
partecipazione di “Romani” alle attività
belliche.
L’Italia denotava problemi simili, e
forse anche peggiori, essendo il
richiamo di Roma troppo forte per i
desideri di restaurazione del potere
imperiale da parte dei sovrani di
Costantinopoli, eppure, almeno durante
il dominio di Odoacre (476-493), sembra
che il contributo della popolazione
locale alle attività militari non fosse
venuto del tutto meno: secondo Paolo
Diacono (Historia Langobardorum,
I, 19) Odoacre utilizzò nella guerra del
487 contro i Rugi del Norico, oltre a
contingenti barbarici, anche truppe
italiche, e il suo comes domesticorum
(capo delle guardie del corpo) era il
“romano” Pierio, che morì combattendo
per il proprio sovrano nella battaglia
dell’Adda (11 agosto 490) contro
l’ostrogoto Teodorico.
Solo sotto il regno di quest’ultimo
l’esclusione degli Italici dall’esercito
sembra affermarsi definitivamente, e un
ulteriore divario si verrà a creare con
la calata nella penisola dei Longobardi,
che estrometteranno gli indigeni da
tutti i centri di potere, inclusi quelli
civili. Nelle province più occidentali
dell’antico impero, d’altro canto, una
così rigida esclusione della popolazione
“romana” dalla vita militare appare del
tutto assente, sin dal primo sorgere dei
nuovi regni.
Il piccolo regno dei Burgundi fu troppo
periferico e dalla durata troppo breve
per poter fornire fonti abbastanza
importanti sul modus vivendi
instaurato con le comunità indigene, ma
presso quello dei Visigoti è possibile
rilevare un quadro di cooperazione tra
essi e i loro sudditi, soprattutto gli
Ispano-romani.
Già nel corso del regno di Eurico
(466-484) tra i comandanti delle sue
truppe compaiono un Vittorio, che nel
470 condusse operazioni in Aquitanica
Prima (PLRE, 2, pp. 1162-1163), e un
Vincenzo, che nel 473 portò a termine la
conquista della Tarraconense e tentò
quindi l’invasione dell’Italia, venendo
però ucciso dai goti Alla e Sindila,
probabilmente invidiosi proprio per il
fatto che il comando delle truppe fosse
stato affidato a un “romano” (Chronica
Gallica del 511, n. 652-653).
Un altro ispano-romano, Claudio, fu
dux di Lusitania e nel 589 sconfisse
gli invasori Franchi presso Carcassonne,
uccidendone 5000 e catturandone 200
(Isidoro di Siviglia, Storia dei
Goti, 54; Gregorio di Tours,
Storia dei Franchi, IX, 31; Giovanni
di Biclar, Chronica).
Ma l’episodio più clamoroso che vide
come protagonista un autoctono nel regno
visigoto avvenne molto più in là nel
tempo, e delle sue vicende parla
diffusamente Giuliano di Toledo nel suo
Historia Wambae Regis. Alla fine
del 672 il duca ispano-romano Flavio
Paolo fu posto dal nuovo sovrano Vamba
alla guida dell’esercito incaricato di
mettere fine alla rivolta della
Settimania, ma una volta sul posto i
suoi stessi soldati lo proclamarono re e
anche gli insorti si unirono a lui.
Paolo ottenne l’appoggio dei Franchi e
degli Ebrei locali (pare che addirittura
si convertisse egli stesso alla
religione giudaica) e estese il suo
controllo alla Tarraconense, stringendo
alleanza anche con i Vasconi. Tuttavia
Vamba, dopo aver respinto questi ultimi,
riconquistò rapidamente Tarragona,
Barcellona e Narbona. Paolo si
asserragliò nell’arena di Nimes, ma il 3
settembre 673 dovette arrendersi e fu
tradotto a Toledo, e in seguito fu
giustiziato o confinato in un monastero.
Ma è più a nord, nella Gallia
settentrionale, che è possibile trovare
le maggiori conferme a una completa
ammissione di elementi locali anche alle
massime cariche militari, e, in effetti,
diversi fattori possono spiegare questo
fenomeno.
Intanto, e si tratta forse del motivo
più importante, bisogna considerare il
fatto che i Franchi, che rimasero pagani
sino al 496, furono gli unici tra le
popolazioni germaniche a abbracciare il
cristianesimo niceno, e non l’eresia
ariana. La comunanza religiosa tra essi
e i Gallo-romani costituì senz’altro un
elemento fondamentale per la loro
completa e rapida integrazione e per una
più stretta e leale collaborazione tra
le due comunità. Inoltre i Galli avevano
continuato a servire nell’esercito
imperiale in buon numero anche in età
tarda, costituendo una parte
considerevole degli eserciti di
Costantino I e di Giuliano; questo sta a
dimostrare che la loro natura bellicosa
non era stata molto modificata
dall’avanzare della civilizzazione,
forse anche perché la loro terra
continuava a essere una zona di confine,
particolarmente esposta agli attacchi
delle popolazioni esterne.
Questa tenace resistenza, negli ultimi
anni di agonia dell’impero e anche dopo
la deposizione di Romolo Augustolo nel
476, è evidenziata dalla costituzione
nella parte settentrionale della
provincia Lugdunense di un potentato
autonomo, retto prima dal magister
militum per Gallias Egidio, poi da
suo figlio Siagrio, che le tribù
germaniche denominavano rex Romanorum.
Costui continuò a resistere contro gli
invasori sino al 486, quando fu
sconfitto a Soissons dal re dei Franchi
Clodoveo, che successivamente, fattoselo
consegnare dai Visigoti, presso i quali
aveva cercato rifugio, lo mise a morte.
È da ricordare inoltre la disperata
difesa condotta dagli abitanti di
Augustonemetum (Clermont-Ferrand)
contro gli assalti dei Visigoti, che
riuscirono a prendere definitivo
possesso della città solo nel 475, e
unicamente per un accordo tra re Eurico
e l’imperatore Giulio Nepote, concluso
alle spalle degli ancora invitti alverni,
condotti da Ecdicio Avito. Questi
ultimi, oltretutto, non abbandonarono
l’esercizio delle armi dopo questa
annessione, e infatti ebbero modo di
distinguersi, sotto la guida di
Apollinare, nipote di Ecdicio, nel corso
della sfortunata battaglia di Vouillé
(507), nella quale il re goto Alarico II
fu sconfitto e ucciso dai Franchi.
Infine, stando alle parole di Procopio
di Cesarea, diverse unità del vecchio
esercito romano in Gallia erano passate
al servizio di Clodoveo mantenendo nomi,
insegne e equipaggiamento propri (De
Bello Gotico, I, 12), e ai sovrani
merovingi non mancarono ulteriori
reclute indigene, desiderose di
accumulare bottino nel corso delle
campagne franche contro le popolazioni
limitrofe.
Una chiara dimostrazione di quanto fosse
del tutto possibile per un gallo-romano
ascendere alle massime cariche militari
ci viene chiaramente dalla figura di
Ennio Mummolo, le cui vicende sono
diffusamente narrate da Gregorio di
Tours nella sua Historia Francorum.
Figlio del conte di Auxerre Peonio, nel
561 egli venne inviato dal padre a
Gontrano, appena asceso al trono di
Burgundia, con dei regali per
assicurarsi la conferma della sua
carica, ma Mummolo, con una mancanza di
scrupoli che sembra essergli stata
peculiare, sfruttò l’occasione per
ottenerla per sé (IV, 42). Ebbe modo di
mettersi in luce già nel 568, quando
espulse da Tours Clodoveo, figlio del re
di Soissons Chilperico, al momento
rivale di Gontrano, nel corso delle
agitate e confuse lotte portate avanti
dai vari sovrani merovingi per il
predominio nelle Gallie (IV, 45) .
L’anno seguente Gontrano lo nominò
patrizio di Provenza, carica
tradizionalmente affidata sempre a
Gallo-romani: nel 565 vi era preposto
Celso, che, in reazione a un’irruzione
di truppe del re di Metz Sigeberto, le
aveva affrontate e sconfitte presso
Avignone e aveva ripreso Arles, che era
stata occupata. Mummolo ebbe l’incarico
di sostituire Amato, che proprio
quell’anno era morto combattendo contro
le bande di Longobardi che avevano
valicato le Alpi per saccheggiare il
territorio franco.
Quando nel 571 i Longobardi,
incoraggiati dal loro precedente
successo e dal grande bottino che ne
avevano ricavato, tornarono a invadere
la Provenza, Mummolo prese il comando di
un esercito di Burgundi e, dopo aver
attraversato il fitto di una foresta,
piombò inaspettato sul campo dei nemici,
in una località chiamata Mustius-Calmes,
uccidendone o catturandone un gran
numero. Attaccò poi presso Estoublon una
grossa banda di Sassoni, che si era
unita ai Longobardi nella loro
scorreria, e sgominò anche questa con
gravi perdite. I superstiti ottennero di
andarsene senza ulteriori danni dopo
aver restituito bottino e prigionieri e
aver anche elargito doni al vincitore;
giurarono anche che sarebbero ritornati
con le loro famiglie per mettersi al
servizio dei re franchi. In effetti
tornarono poco dopo per porsi agli
ordini di Sigeberto, ma lungo il loro
cammino saccheggiarono i campi coltivati
per sfamarsi, cosicché Mummolo li fermò
prima del passaggio del Rodano, confine
con il regno di Metz, e non li lasciò
passare prima che avessero risarcito i
danni compiuti (IV, 42).
Nel 574 i Longobardi tornarono a
minacciare la Provenza con un triplice
attacco, rispettivamente verso Avignone,
Valence e Grenoble, che fu stretta
d’assedio. Mummolo si diresse in
soccorso di quest’ultima e riuscì a
respingere gli invasori, ferendo anche
il loro capo, il duca Rodan. I
superstiti raggiunsero la colonna
impegnata nell’avanzata su Valence e con
questa si ritirarono a Embrun, ma furono
ugualmente respinti dai Franchi oltre le
Alpi. Anche l’ultimo contingente
longobardo fuggì allora per i valichi in
pieno inverno, subendo pesantissime
perdite (IV, 44). Un reparto invasore
minore, che aveva saccheggiato l’abbazia
di Saint-Maurice d’Agaune, fu
intercettato e sbaragliato da Mummolo
presso Bex.
Ormai ritenuto uno dei massimi strateghi
del tempo, il conte di Auxerre tornò a
cimentarsi nelle lotte intestine tra i
vari re merovingi: nel 576 fu inviato da
Gontrano in aiuto di Sigeberto,
attaccato dal re di Soissons Chilperico
in Aquitania: lì soccorse le città di
Tours e Poitiers e sconfisse nel
Limosino il comandante in capo delle
truppe di Chilperico, Desiderio (un
altro gallo-romano) (V, 13).
Nel 581 i rapporti tra il re di Borgogna
e il potente patrizio di Provenza si
guastarono per ignoti motivi, e Mummolo
si ritirò a Avignone, sotto la
protezione di Childeberto II, successore
di Sigeberto (VI, 1). L’anno successivo
si unì al conte Gontrano Bosone in una
cospirazione mirante a porre sul trono
di Aquitania Gundovaldo, presunto figlio
del re di tutti i Franchi Clotario I
(558-561); costui arrivò effettivamente
a Marsiglia, proveniente da Bisanzio,
con un grosso tesoro 8 (VI, 24),
ma a questo punto Bosone tradì gli altri
congiurati e, dopo essersi impadronito
dei beni del pretendente, svelò la
macchinazione a re Gontrano. Mummolo
riuscì a nascondere Gundovaldo su
un’isola ignota (probabilmente una delle
Lerins o delle Hyeres) e resistette a un
assedio dell’ex complice a Avignone
finché non venne soccorso dall’esercito
di Childeberto, nel 583 (VI, 26).
La morte del re di Soissons e Parigi
Chilperico, nel settembre del 584,
sembrò aprire buone prospettive per le
pretese di Gundovaldo: Mummolo lo
richiamò a Avignone, quindi si accordò
con il suo vecchio rivale Desiderio e in
dicembre fece incoronare il suo protetto
a Brive (VII, 10).
Tuttavia Gontrano e Childeberto,
nominato dal primo suo erede, fecero
causa comune contro l’usurpatore e dopo
non molto tempo Desiderio cambiò
partito, lasciando soli Gundovaldo e
Mummolo. I due si ritirarono dietro la
Garonna e si ritrovarono assediati a
Comminges, mentre la moglie e i figli
del gallo-romano venivano presi
prigionieri. Facendo leva proprio su
questo punto, con la minaccia di mettere
a morte i suoi familiari, Leudegisilo,
comandante delle forze di Gontrano,
convinse infine nel marzo del 585 il
patrizio a consegnare il sedicente
figlio di Lotario, che fu subito messo a
morte. A Mummolo era stata promessa
l’immunità, ma Gontrano nutriva un odio
feroce verso chi lo aveva tradito e così
il gallo-romano, dopo essersi difeso
disperatamente, venne anch’egli ucciso
dai soldati (VII, 38-39).
In conclusione, è possibile affermare
che l’esclusione dell’elemento latino
dalle forze armate dei regni
romano-barbarici non fu così assoluta
come talvolta si ritiene: nelle regioni
dove era ancora troppo forte il richiamo
esercitato dall’Impero d’Oriente,
naturale erede di quello occidentale,
effettivamente tale estromissione ci fu,
più per motivi che riguardavano i dubbi
sulla lealtà degli indigeni che per una
loro reale mancanza di virtù militari,
ma in quelle più occidentali, dove i
legami con Bisanzio erano molto più
labili, non se ne trova traccia.
Presso i Visigoti e soprattutto presso i
Franchi, dunque, le élites della
popolazione locale avevano pienamente
accesso anche a incarichi militari di
una certa rilevanza, potendo trattare da
pari a pari con i comandanti germanici e
prendere parte con loro, di volta in
volta come alleati o rivali, alle
tantissime cospirazioni, ribellioni e
lotte dinastiche peculiari del periodo
alto medievale. |