N. 95 - Novembre 2015
(CXXVI)
Trono, Altare e Politica
L’ENIGMA DEL DON CARLO
di Claudia Antonella Pastorino
Per Voltaire e Diderot «Cristo non scioglie, ma elude il grande mistero dell’essere». Non sempre la Chiesa del passato – e, con essa, un certo Papato – è stata fucina di santità dedita a pace e preghiere, bensì un campo di battaglia senza quartiere, alla stregua di uno Stato consolidato. Fin dal XIII secolo era dentro fino al collo nelle beghe politiche riguardanti nazioni, comuni, imperi; e papi, cardinali, vescovi stringevano o scioglievano a piacimento alleanze, organizzavano spedizioni militari, preparavano guerre, incoronavano e scomunicavano, trattavano accordi politici, economici, territoriali, si occupavano di politica internazionale come monarchi provetti, rincorrevano il loro sogno di potere e di egemonia assoluta sul governo del mondo (in base al principio di sovranità politica universale).
Nell’Alto
Medioevo,
l’insegnamento
si
svolgeva
nelle
scuole
dei
monasteri
e in
quelle
presso
le
cattedrali;
i
docenti
delle
prime
università
sorte
in
Europa
tra
l’XI
e il
XIII
secolo
erano
per
la
maggior
parte
appartenenti
al
clero,
e le
stesse
città
dipendevano
da
un
signore
feudale
o da
un
vescovo.
Oltre
coloro
che
preparavano
liquori
e
infusi
d’erbe
nella
pace
del
convento,
oltre
i
santi
confessori
e i
santi
martiri,
c’era
chi
s’interessava
di
marchingegni
come
quella
micidiale
miscela
di
salnitro,
carbonella
e
zolfo
più
nota
come
polvere
da
sparo,
introdotta
dal
monaco
Ruggero
Bacone
e
poi
perfezionata
nella
prima
metà
del
1200
in
Inghilterra
dal
monaco
tedesco
Berthold
Scwartz.
Vescovi
e
abati
di
nobili
origini
esercitavano
fortemente
la
loro
influenza
sullo
sviluppo
dell’architettura
gotica
in
Europa,
in
particolar
modo
sul
progetto
di
costruzione
delle
cattedrali:
il
loro
potere
sociale,
culturale
e
anche
economico
li
poneva
nelle
condizioni
di
seguire
lavori
così
complessi.
A
due
domenicani
tedeschi,
Heinrich
Institoris
e
Jacob
Sprenger,
si
deve
l’idea
di
aver
pubblicato,
nel
1488,
una
sorta
di
manuale
del
perfetto
inquisitore,
Malleus
Maleficarum,
ideale
per
smascherare
streghe,
stregonerie,
combutte
col
demonio
e
tutto
quel
che
si
voleva
vedere
in
atteggiamenti
anticonformistici
o
semplicemente
controcorrente
di
liberi
pensatori
e
libere
pensatrici
fuori
dal
coro.
Sfilze
di
precettori,
di
stanza
nei
palazzi
signorili,
e
nugoli
di
parroci
tiravano
su,
soprattutto
nei
piccoli
centri
di
provincia,
generazioni
di
fanciulli
a
suon
di
musica
(canto,
organo),
lezioni
di
latino,
servizi
di
chierichetto,
e
questo
fino
a
buona
parte
della
metà
del
secolo
scorso,
quando,
grazie
a
una
forma
spesso
artigiana
ma
di
buon
livello
di
praticantato
di
provincia,
si
sono
formate
le
migliori
generazioni
di
cantanti
che
mai
teatro
lirico
abbia
conosciuto
fino
ad
oggi.
Basterebbe
sfogliare
una
qualsiasi
biografia
di
un
artista
del
passato
per
rendersene
conto.
Le
voci
venivano
scoperte
perlopiù
così,
nei
cori
delle
chiese,
e
ancor
prima
con
un
sistema
didattico-religioso
del
genere
s’istruivano,
senza
neppure
saperlo,
i
futuri
compositori,
ma
di
certo
non
mancavano
le
eccellenze
e i
capiscuola.
Maestri
del
contrappunto
furono
il
famoso
bolognese
padre
Giovanni
Battista
Martini
(che
lo
insegnò
a
Mozart)
e i
suoi
discepoli
padre
Angelo
Tesei
e
padre
Stanislao
Mattei,
che
questa
cultura
trasmisero
al
giovane
Rossini.
Dal
pulpito
alla
scena
Non
è un
segreto
per
nessuno
che
il
parroco
delle
Roncole
avviasse
a
leggere,
contare,
scrivere
il
piccolo
Verdi,
di
soli
otto
anni,
mentre
il
vecchio
organista
del
villaggio,
Pietro
Baistrocchi,
lo
faceva
esercitare
sull’organo
della
chiesa
e lo
istruiva
sui
rudimenti
del
servizio
musicale
nelle
funzioni
religiose.
Don
Pietro
Seletti,
canonico
della
cattedrale
e
insegnante
comunale,
gli
impartiva
lezioni
di
grammatica
italiana
nel
Ginnasio
di
Busseto;
Carlo
Cerotti
e
don
Giacinto
Volpini
gli
insegnavano
umanità
e
retorica.
Tuttavia
è
arcinoto
che,
per
il
Peppino
più
famoso
d’Italia,
l’approccio
con
il
mondo
della
tonaca
non
fu
incoraggiante,
col
tempo
peggiorato
dal
tradizionale
atteggiamento
emiliano
storicamente
avverso
alla
politica
dello
Stato
Pontificio
in
quei
territori.
L’aneddoto
in
proposito
circolante
sui
tempi
dell’infanzia
fa
ancora
testo,
soprattutto
per
la
suggestione
del
tema
della
maledizione
presente
nella
drammaturgia
verdiana
(non
solo
in
Rigoletto),
quando
il
Maestro
forse
si
ricordò
del
ruzzolone
sui
gradini
dell’altare
fattogli
fare
da
don
Giacomo
Marzini,
prete
della
Roncole,
nell’accorgersi
che
il
piccolo
Giuseppe
si
era
distratto
nel
servire
messa.
Pronta
la
reazione
del
ragazzino
dalla
risposta
di
fuoco:
«Dio
‘t
manda
‘na
sajetta»,
cosa
che
avvenne
puntualmente
il
14
settembre
1828,
quando
un
fulmine
piombò
sul
santuario
della
Madonna
dei
Prati
uccidendo
il
prete
con
altre
cinque
persone.
Più
tardi,
come
racconta
la
“spia”
Emanuele
Muzio
in
una
lettera
ad
Antonio
Barezzi
del
29
dicembre
1844,
arriverà
a
esprimere
soddisfazione
all’annuncio
della
morte
di
un
nemico
bussetano,
per
cui
«Il
signor
Prevosto
ha
fatto
bene
a
morire;
così
speriamo
che
le
cose
andranno
meglio;
lo
ha
detto
anche
il
signor
Maestro».
Confidente
epistolare
di
Giuseppina
Strapponi
fu
il
canonico
di
Vidalenzo
Giovanni
Avanzi,
il
quale
unirà
in
matrimonio
Maria
Verdi,
pupilla
di
casa,
e
Alberto
Carrara,
nella
cappella
di
Sant’Agata
l’11
ottobre
1878.
Prezioso
rapporto,
grazie
al
quale
ci
sono
rimaste
alcune
tra
le
lettere
più
belle
della
signora
Verdi,
donna
intelligente
e
spiritosa,
nonché
sprecata
per
i
suoi
tempi
spesso
ottusi.
Comunque,
volente
o
nolente,
il
giovane
Verdi
non
poté
sottrarsi
al
costume
dell’epoca,
contraddistinto
dalla
prassi
di
provincia
legata
alla
banda
e
alla
chiesa,
quest’ultima
futura
ispiratrice,
in
musica,
di
preghiere
particolarmente
illuminate
(come
quella
di
Zaccaria
dal
Nabucco,
solitamente
comparata
alla
consorella
rossiniana
del
Mosè),
ma
era
logico
che
prima
o
poi
superasse
quell’esperienza
monotematica
consona
al
gusto
del
tempo
e si
lasciasse
alle
spalle
la
giovanile
parentesi
compositiva.
La
scelta
del
Nabucodonosor,
poi
Nabucco,
da
parte
del
provinciale
inurbato
a
Milano
con
le
sue
ambizioni,
non
è
casuale
come
appare
dall’aneddotica
circolante
sulla
genesi
di
quest’opera,
da
sempre
forse
troppo
ammantata
di
favolistica
popolare,
ma
deriva
da
una
moda
del
tempo
indirizzata
a
soggetti
di
carattere
biblico
e
più
in
generale
ad
ambienti
orientaleggianti.
Più
che
di
religione,
si
trattava
di
argomenti
religiosi
cari
anche
alla
de
Staël
(propensa
per
il
medioevo
cristiano
e
l’epoca
delle
crociate),
a
Byron
o a
Moore,
cantori
dell’Oriente
pagano
e
cristiano,
con
estensione
alla
pittura
(Nazareni,
Pock,
Servi,
Molteni,
Hayez).
D’altro
canto
Andrea
Maffei,
Giulio
Carcano,
Temistocle
Solera
si
rivelarono
traduttori
biblici,
il
drammaturgo
toscano
Giovan
Battista
Piccolini
era
autore
di
un
dramma
dal
titolo
Nabucco
e lo
stesso
Vincenzo
Monti
aveva
scritto
una
poesia
sull’argomento,
contesto
culturale
questo
assai
favorevole
a
una
probabile
scelta
non
casuale
del
soggetto
da
parte
di
Verdi.
Un
altro
tema
religioso
gli
venne
suggerito
da
un
dipinto
dell’Hayez,
“La
sete
patita
dai
primi
crociati
sotto
Gerusalemme”,
a
sua
volta
ispirato
a un
celebre
libro
di
Tommaso
Grossi,
“I
Lombardi
alla
prima
Crociata”:
naturalmente
il
nuovo
soggetto
musicale
sarà
proprio
questo.
Sorvolando
sulle
tonache
più
famose
della
maturità,
quelle
ne
La
forza
del
destino
di
Padre
Guardiano
–
l’irreprensibilità
inamovibile
del
santo
– e
quella
di
Fra
Melitone
– il
frate
brontolone
che
tira
a
campare,
antesignano
di
sir
John
Falstaff
–
non
vi è
dubbio
che
la
rappresentazione
più
riuscita
del
potere
ecclesiastico
al
suo
culmine,
come
istituzione
e
come
personaggi,
stia
nel
Don
Carlo,
l’opera
dei
contrasti
e
delle
ossessioni,
delle
tetraggini
umane
e
politiche,
dell’assolutismo
asfittico
di
Stato
e
Chiesa.
Dunque
il
trono
piegar
dovrà
sempre
all’altar!
Con
il
Don
Carlo
si
chiude
l’ultimo
sprazzo
di
cupezza
verdiana
–
intesa
nella
sua
massima
perfezione
–
prima
della
luce
di
Aida
al
sole
dei
templi
egizi,
che
apre
un
nuovo
ciclo
fino
al
Falstaff.
Nato
dall’originale
di
Friedrich
Schiller
Don
Carlos,
Infant
von
Spaniel,
il
Don
Carlo
Infante
di
Spagna
venne
pubblicato
dall’editore
Luigi
Pirola
nel
1842
e
dedicato
dal
traduttore
Andrea
Maffei
all’amico
Tommaso
Grossi,
ma
con
Verdi
diventò
Don
Carlos,
testo
di
François-Joseph
Méry
e
Camille
Du
Locle,
rappresentato
per
la
prima
volta
l’11
marzo
1867
all’Opéra
di
Parigi,
in
cinque
atti.
Nella
capitale
francese
aveva
iniziato
a
comporre
ma,
afflitto
da
un
mal
di
gola,
decise
di
far
rientro
a
Sant’Agata
dove,
tra
l’aprile
e il
maggio
1866,
riuscì
ad
abbozzare
il
quarto
atto.
Purtroppo
il
clima
politico
si
era
surriscaldato
sia
in
patria
sia
in
Francia
per
l’ambiguo
ruolo
tenuto
da
Napoleone
III
nei
confronti
dell’Italia
e
dell’Austria,
al
che
si
aggiunse
la
terza
guerra
d’indipendenza
assai
sfortunata
per
noi.
Tra
irritazione
e
perplessità,
Verdi
preferì
non
muoversi
prudentemente
da
Sant’Agata,
preoccupandosi
delle
sorti
dell’opera
e
lamentandosi
che
il
suo
Don
Carlo
si
trovasse
«in
mezzo
a
fuoco
e
fiamme,
e
fra
tante
agitazioni
o
riuscirà
meglio
delle
altre,
o
sarà
una
cosa
orribile».
Lui
era
sempre
molto
interessato
alla
storicità
degli
avvenimenti
trattati,
circostanze
politiche
comprese,
e
nessuna
opera
sua
si
prestò
a un
tale
approfondimento
meglio
del
Don
Carlo,
l’opera
della
grandezza
politico-religiosa
che
colloca
l’azione
nel
1560,
un
anno
dopo
la
pace
di
Cateau-Cambrésis
tra
Enrico
II e
Filippo
II,
evento
che
segnò
la
fine
delle
lunghe
ostilità
tra
Francia
e
Spagna
con
il
solito
matrimonio
pacificatore
di
scambio
(di
qui
le
terze
nozze
del
monarca
spagnolo
con
la
figlia
di
Enrico,
l’Elisabetta
di
Valois
amata
da
Carlo).
Opera
dunque
assai
specifica,
dalla
ritrattistica
imperiale,
dalla
Spagna
oscurata
dalla
cappa
dell’Inquisizione,
dalle
libertà
soppresse,
dove
tutto
mostra
l’affanno,
i
tratti
di
quel
lungo
arco
di
storia
tra
i
più
ingarbugliati
d’Europa,
e ce
ne
offre
uno
spaccato
importante
pressoché
occupato
dalla
politica
–
assai
meno
dallo
sfondo
della
vicenda
amorosa
di
Carlo
e
Isabella
– e
dalla
figura
di
Filippo
II,
che
tanto
interessò
Verdi
più
di
quanto
abbia
mai
fatto
con
la
voce
di
basso.
Valga
altrettanto,
sia
pure
per
il
breve
lasso
di
tempo
di
cui
il
personaggio
dispone,
per
il
Grande
Inquisitore,
una
cariatide
dalla
forza
tremenda
di
cui
persino
Filippo,
pur
detestandolo,
ha
bisogno
per
sostenersi,
per
alimentare
il
proprio
potere
assoluto
in
cerca
di
conferme,
come
se
il
placet
del
vecchio
gli
mettesse
a
posto
trono
e
coscienza.
Non
a
caso
Massimo
Mila
definirà
questa
scena
una
«specie
di
Machiavelli
in
musica»,
un
enigma,
un
conflitto
non
risolto.
Nell’atto
quarto,
dopo
il
famoso
monologo
del
re
“Ella
giammai
m’amò”,
due
poteri
si
scontrano,
due
figure
immense
nella
loro
monumentalità
statica,
mummificata.
Due
assolutismi,
Chiesa
e
Impero,
stringono
un
braccio
di
ferro
che
mai
avrà
fine.
L’ingresso
del
frate,
accompagnato
da
celli
e
bassi,
fa
venire
i
brividi,
pur
trattandosi
di
un
vecchio
di
novant’anni,
cieco
per
giunta,
ma
da
lui
si
sprigiona
tutta
la
forza
disumana
dell’Inquisizione,
la
superiorità
che
non
ammette
repliche.
Il
dialogo
si
svolge
tra
colpi
di
percussione
e
l’imperversare
degli
ottoni,
l’orchestra
è
avvolta
dalla
gravità
dei
suoni
che
accompagnano
come
un
sottofondo
ossessivo
tutta
la
scena,
allungandosi
talora
in
squilli
lunghi
e
ripetuti,
talora
in
lugubri
fissità
sonore.
Si
noti
come
la
tensione
delle
voci
sia
portata
allo
stremo,
come
una
corda
tirata.
I
due
bassi
danno
vita
a
uno
scambio
serrato
di
battute
su
cui
il
frate
assume
chiaramente
una
posizione
soverchiante,
s’incalzano
con
virulenza
lanciandosi
rombi
di
tuono
fino
al
punto
di
spazientirsi
e
minacciarsi.
Declamatoria,
la
musica
assume
una
cupezza
che
coincide
con
l’oscurantismo
politico
e
religioso
di
cui
l’opera
è
pervasa.
La
malinconia
che
è
nel
re
si
riveste
di
muscoli,
ma
ricade
poi
in
se
stessa,
nella
perenne
solitudine
del
monarca,
mentre
nell’Inquisitore
c’è
soltanto
l’inflessibilità
dell’aguzzino,
senza
nulla
di
umano.
Il
Vangelo
è
solo
carta
scritta,
per
non
dire
straccia:
come
Cristo
è
stato
immolato
dal
Padre,
è
giusto
fare
lo
stesso
con
Carlo
e
Rodrigo,
vale
a
dire
con
chi
si
oppone
alla
ragion
di
Stato
e al
Sant’Uffizio.
Si
resta
stupiti
da
quanta
cura
Verdi
abbia
messo
nella
figura
dell’Inquisitore,
lui
che
detestava
i
preti,
di
come
lo
faccia
giganteggiare
su
un
despota
quale
Filippo
II,
di
quanta
e
quale
musica,
assieme
alla
vocalità
senile
e
terribile,
si
formi
il
personaggio,
su
che
piedistallo
poggi
in
perfetta
simmetria
con
quello
su
cui
campeggia
il
re.
Nei
due
monoliti
si
mescolano
tutte
le
ossessioni
possibili,
le
più
deleterie,
ma
la
musica
non
si
scosta
da
questi
banchi
di
ghiaccio,
anzi
li
asseconda,
li
carica
di
suspance
e
dinamite
sotto
la
sferza
orchestrale
cupissima
dei
tromboni,
dei
corni,
dell’oficleide,
dei
timpani
e
degli
archi
gravi.
Il
vecchio,
perentorio,
quando
esce
di
scena
piantando
in
asso
il
re,
è
come
se
avesse
pronunciato
una
sentenza
per
il
solo
fatto
di
essere
stato
convocato
al
suo
cospetto.
Alla
richiesta
del
Sire
se
vi
sarà
fra
loro
ancora
pace,
sussurra
un
“forse”
lasciato
a
mezz’aria,
come
se
facesse
pesare
il
doverci
pensar
su,
del
tipo:
per
ora
me
ne
vado,
sappi
però
che
hai
osato
sfidarmi
e
non
so
se
rientrerai
nelle
mie
grazie.
Ma
davvero
“ il
trono
piegar
dovrà
sempre
all’altar”?
Al
tempo
di
Filippo
II
le
cose
non
stavano
esattamente
così.
La
Spagna,
dominata
dall’Inquisizione,
era
una
monarchia
cattolica,
e
immane
compito
di
Filippo,
per
consolidare
a
livello
internazionale
il
proprio
impero,
era
quello
di
combattere
dappertutto
l’eresia,
di
farsi
lui
stesso
braccio
della
Controriforma.
Chiesa
e
Regno
stavano
nelle
mani
del
sovrano,
come
dimostra
lo
stesso
istituto
dell’Inquisizione:
nel
Medioevo
era
da
considerarsi
prettamente
religiosa
e
controllata
dai
vescovi,
in
Spagna
però
se
ne
servì
in
maniera
assoluta
la
monarchia.
Ricostituita
infatti
in
Castiglia
nel
1480
e
poi
estesa
in
tutto
il
regno,
l’Inquisizione
era
sottoposta
al
sovrano,
il
quale
nominava
gli
inquisitori,
si
appropriava
dei
beni
sequestrati
ai
condannati
e
faceva
sentire
la
sua
voce
tramite
un
Consiglio
supremo
appositamente
istituito.
Nessun
ricorso
al
Papa,
perché
vietato.
Gli
inquisitori
potevano
dunque
considerarsi
dei
dipendenti
al
servizio
del
monarca.
La
verità
della
Storia
e
del
linguaggio
musicale
Nel
Don
Carlo,
Verdi
si
occupa
di
politica
per
la
prima
volta
in
modo
esplicito,
in
prima
persona,
attivamente
partecipe,
ponendo
in
risalto
i
contrasti
fra
potere
e
umana
debolezza,
fra
le
delusioni
private
del
monarca
e la
ferocia
dell’oppressione
esercitata
sulle
popolazioni
ribelli.
Da
una
parte
l’indifferenza
d’Isabella,
la
rivolta
delle
Fiandre,
i
dissapori
con
il
figlio
Carlo,
dall’altra
la
mano
spietata
dell’assolutismo
imperiale
che
Filippo
II,
assieme
al
controllo
esercitato
dall’Inquisizione,
credo
abbia
incarnato
più
d’ogni
altro
non
solo
ai
suoi
tempi.
Non
per
niente
tutta
l’opera,
fondata
sugli
aspri
contrasti
con
Carlo
sostenitore
della
causa
fiamminga
ma
anche
innamorato
della
matrigna,
si
snoda
sull’affare
politico
delle
Fiandre
in
rivolta,
nella
seconda
metà
del
Cinquecento,
contro
la
corona
di
Spagna:
una
grana
che
Filippo
II,
succeduto
al
padre
Carlo
d’Asburgo
–
più
noto
come
Carlo
V –
ereditò
insieme
ai
domini
italiani
della
Lombardia,
Regno
di
Napoli,
Sicilia,
Sardegna,
parte
della
Toscana
con
Talamone,
Orbetello,
Porto
Ercole,
Porto
Santo
Stefano,
Monte
Argentario
(territorio
denominato
Stato
dei
Presìdi)
e le
ricchissime
colonie
americane.
Il
perché
il
problema
della
ribellione
dei
Paesi
Bassi
spagnoli
e,
con
essi,
le
Fiandre
e l’Artois
(Nord
della
Francia)
costituisse
uno
dei
problemi
più
spinosi
del
regno,
dipendeva
da
un
fatto
di
necessità
di
traffici
economici
per
quelle
terre:
era
la
floridità
stessa
di
quei
paesi
a
richiedere
la
libertà
indispensabile
ai
loro
commerci.
Da
lì,
la
rivolta
per
riprendersi
i
propri
spazi.
Intorno
a
questa
causa
si
esprimono
le
tensioni
interne
all’opera,
con
la
sfida
a
mano
armata
di
Carlo
al
padre
che
lascia
tutti
trasecolati
(“L’acciar!
Innanzi
al
Re!
L’Infante
è
fuor
di
sé”),
la
scena
dei
deputati
fiamminghi
e
dell’auto-da-fè,
il
sacrificio
di
Rodrigo,
l’unico
“cor
leale”
di
cui
il
re
si
fidi
in
una
corte
priva
di
scrupoli,
dove
l’amicizia
vera
è un
sogno
proibito
anche
per
il
potere
che
si
possiede.
Filippo
la
brama
a
tal
punto
da
mostrare
benevolenza
al
saggio
marchese
di
Posa,
lo
tranquillizza
dicendogli
di
non
aver
sentito
quando
l’altro
lo
redarguisce
sull’oppressione
del
suo
governo
e il
genere
di
pace
concessa
alle
Fiandre:
“Orrenda,
orrenda
pace!
La
pace
è
dei
sepolcri!
[…]
Questa
è la
pace
che
voi
date
al
mondo?”.
Un
bel
ragionare
di
politica,
non
di
passioni.
Per
lo
“strano
sognator”
arriva
un
insolito
avvertimento
regale,
dettato
dal
debole
che
Filippo
nutre
per
quest’uomo
degno
di
rispetto
e
che
merita
le
proprie
confidenze
di
monarca,
sposo,
genitore:
guardarsi
dal
Grande
Inquisitore,
perché
lui
non
capirà.
Appare
fuori
da
ogni
procedere
verdiano,
anche
quello
riservato
ai
vecchi
e ai
saggi
delle
opere
precedenti,
questo
duetto
dai
toni
nobili,
in
cui
lo
stato
di
vessazione
patito
dalle
Fiandre
viene
descritto
da
Rodrigo
nella
sua
crudezza
e il
re,
come
un
qualunque
mortale,
spiega
le
sue
ragioni,
vuol
farsi
capire,
accetta
i
rimproveri
dell’uomo
giusto,
la
sua
disapprovazione,
finanche
la
sua
condanna.
Come
con
l’Inquisitore,
il
confronto
con
Posa
regge
sulla
politica,
argomento
su
cui
non
è
facile
creare
melodia,
musica
ad
effetto,
segno
evidente
che
Verdi
aveva
ancora
una
volta
cambiato
pagina,
dimostrando
di
sapersi
rinnovare
ad
ogni
opera
sua,
cercando
profondità
nelle
situazioni,
nei
caratteri,
nelle
vocalità,
senza
nulla
di
scontato.
La
chiusura
dell’atto
terzo
con
il
lamento
in
disparte
dei
deputati
fiamminghi,
il
coro
di
frati,
di
popolo
–
inneggianti
al
re e
alla
punizione
degli
eretici
al
rogo
– è
connotata
dalla
cerimonia
dell’auto-da-fè,
termine
sibillino
che
a
primo
acchito
pare
persino
suggestivo.
Invece
sotto
questa
voce
si
nasconde
un
significato
che
nulla
ha
della
festa,
come
dal
suo
punto
di
vista
la
definisce
Filippo
impaziente
di
recarvisi
dopo
aver
nominato
duca
il
marchese
di
Posa
(“Marchese,
Duca
siete.
Andiamo
ora
alla
Festa!”),
l’unico
ad
aver
avuto
il
coraggio
di
disarmare
Carlo,
ribelle
al
padre
e
fedele
alla
causa
delle
Fiandre.
L’auto-da-fè
– il
primo
avuto
luogo
a
Siviglia
nel
1481,
l’ultimo
in
Messico
nel
1815
–
era,
alla
lettera,
“atto
della
fede”,
cioè
una
sentenza
di
fede
che
si
emetteva
a
processo
concluso
all’indirizzo
degli
eretici,
i
quali,
condotti
in
chiesa
e
collocati
su
di
un
palco,
ricevevano
l’ammonizione
dell’Inquisitore
con
un
sermone.
E
fin
qui
nulla
di
così
preoccupante.
I
guai
però
cominciavano
se,
anziché
abiurare
i
loro
errori
assicurandosi
l’assoluzione
dalla
scomunica
e la
riconciliazione
con
la
Chiesa,
i
malcapitati
persistevano
senza
rinnegare,
così
da
essere
puniti
con
pene
molto
gravi,
spesso
con
la
morte.
Solo
in
seguito
il
termine
valse
a
indicare
il
rogo
per
gli
eretici.
Il
carattere
di
Filippo
II
«cupo,
intollerante,
testardo,
pedante
e
lento
nel
disbrigo
degli
affari»,
come
lo
definisce
lo
storico
Rosario
Villari,
coincide
con
il
ritratto
che
abbiamo
imparato
a
conoscere
dall’opera
verdiana
e
che
il
compositore
stesso
aveva
ben
definito,
rendendo
addirittura
protagonista
il
personaggio
rispetto
allo
stesso
Carlo.
La
grande
scena
che
apre
l’atto
quarto,
con
il
lamento
del
violoncello
a
fare
da
introduzione,
immette
subito
nella
desolante
solitudine
di
Filippo,
che
medita
fino
all’alba
sul
suo
fallimento
di
consorte
e,
semplicemente,
di
uomo
destinato
come
tutti
alla
morte:
“Ella
giammai
m’amò”
è
anche
la
cupa
considerazione
che
prima
o
poi
attraversa
i
potenti
della
terra
di
ieri
e di
oggi,
e
che
in
Verdi
diventa
angoscia
ancestrale
prima
che
individuale.
Chi
invece
ritenesse
i
contrasti
tra
padre
e
figlio
una
trovata
di
Schiller
o
dei
librettisti
verdiani,
può
ricredersi
perché
la
storia
ne
attesta
l’esistenza
con
tutte
le
problematiche
annesse.
Don
Carlos,
principe
delle
Asturie,
primogenito
di
Filippo
II e
di
Maria
di
Portogallo,
era
nato
a
Valladolid
nel
1545
e si
scontrò
più
volte
con
il
padre
a
causa
delle
dissipazioni
e
del
carattere
violento
che
purtroppo
da
figlio
aveva,
caratteristiche
che,
come
noto,
nei
canoni
della
letteratura
romantica
fecero
presto
a
trasformarsi
in
doti
eroiche,
nel
coraggio
del
ribelle
contro
l’ordine
costituito
che
soffoca
libertà,
voglia
di
andare
controcorrente,
di
stare
dalla
parte
dei
più
deboli:
proprio
come
Carlo
sul
finire
atto
terzo,
quando,
accompagnando
la
rappresentanza
fiamminga,
invano
cerca
di
convincere
il
padre
a
lasciarlo
partire
per
le
Fiandre
e
poi
reagisce
snudando
la
spada.
Non
aveva
che
ventitré
anni
quando,
fatto
segregare
in
una
torre
da
Filippo
–
messo
alle
strette
dalle
circostanze
– vi
morì
nel
giro
di
pochi
mesi,
nel
1568,
a
Madrid.
In
Verdi
i
suoi
vaneggiamenti
a
intermittenza,
il
suo
fare
trasognato,
le
sue
stranezze,
emergono
fin
dal
primo
duetto
con
Isabella,
“Io
vengo
a
domandar
grazia”,
in
cui
la
personalità
dell’Infante
alterna
trasalimenti
e
scatti
nervosi
a
ripiegamenti
di
lirismo
amoroso
davvero
unici.
La
matrigna
era
Elisabetta
di
Valois,
figlia
di
Enrico
II
di
Francia,
sposa
in
terze
nozze
a
Filippo
II
dopo
il
di
lui
matrimonio
–
voluto
dal
padre
Carlo
V –
con
la
regina
d’Inghilterra
Maria
la
Cattolica,
unica
figlia
sopravvissuta
di
Enrico
VIII
e
Caterina
d’Aragona.
Maria,
per
inciso,
era
detta
la
Sanguinaria
per
il
non
trascurabile
dettaglio
di
aver
dato
il
via
ad
alcune
centinaia
di
esecuzioni
capitali
per
eresia,
fatti
che
segnarono
il
suo
quinquennio
(1553-58)
sul
trono
inglese.
Della
passione
di
Carlo
per
la
giovane
matrigna
ci
dà
conferma
ancora
una
volta
la
storia,
così
come
di
certo
sappiamo
che
Filippo
II,
dopo
Elisabetta,
passò
a
nuove
nozze
con
Anna
d’Austria,
dunque
da
un
regno
all’altro
per
consolidamenti
di
dinastie
e
territori,
secondo
l’usanza
delle
corone
europee.
Il
riscatto
della
Principessa
d’Eboli,
amante
del
re e
innamorata
non
corrisposta
di
Carlo,
varrebbe
da
solo
quanto
lo
spazio
generosamente
dedicato
da
Verdi
ai
mezzosoprani
dei
lavori
precedenti
e,
nel
caso
di
Amneris,
successivi,
perché
“O
don
fatale”
(Parte
prima
atto
quarto)
costituisce
una
novità
di
stile
tutta
giocata
in
ampiezza,
dove
arioso
e
impeto
accelerato
hanno
un
ruolo
diverso
rispetto
al
passato.
Perfino
il
carattere
brioso
della
Canzone
del
Velo
(Parte
seconda
atto
secondo)
passa
onestamente
in
secondo
piano.
Eboli
canta
come
una
protagonista,
primeggia
alla
stregua
di
una
regina
in
un’unica
scena
e
questa
imponenza
vocale
ha
il
suo
incipit
nell’
“Ahimè!
Più
non
vedrò,
no,
più
mai
la
Regina!”,
frase
scultorea
cui
scattano
di
seguito
gli
ottoni
e la
famosa
apostrofe
alla
bellezza
– la
propria
–
che
non
le
ha
giovato.
Se
abbiamo
volutamente
tralasciato
la
figura
di
Rodrigo,
è
solo
perché
in
questo
generale
tratteggio
si è
preferito
volgere
l’attenzione
agli
aspetti
che
più
s’interessava
approfondire:
non
un’analisi
dell’opera
e
dei
personaggi,
ma
alcune
considerazioni
sui
rapporti
tra
potere
politico
e
potere
religioso
evidenti
nelle
intenzioni
di
Verdi,
solito
nel
mettere
in
pratica
ciò
che
aveva
ben
chiaro
in
mente.
Posa
è il
saggio,
il
buono,
il
martire,
la
sua
fine
firmata
dall’Inquisizione
è
un’altra
maestosa
pagina
di
amore
amicale
(come
narra
il
celebre
tema
che
lo
lega
a
Carlo,
rivelatosi
già
inizialmente
in
“Dio
che
nell’alma
infondere”),
il
trionfo
delle
virtù
umane
e
politiche,
ma
sono
altri
personaggi
e
altri
momenti
a
segnare
la
inconsueta
immensità
di
quest’opera,
la
più
cupa
e la
più
insondabile
di
tutte,
quella
dove
più
si
scava
e
più
si
sprofonda.
Il
Don
Carlo
è
opera
caravaggesca,
fatta
di
abissi
scurissimi
e di
cieli
aperti
all’immenso.
Mai
finirà
di
stupire,
mai
di
essere
esaminata
fino
in
fondo.