N. 64 - Aprile 2013
(XCV)
A cinquant’anni dalla Pacem in terris
Un’utopia perduta?
di Marco Lavopa
La
collaborazione
militare
tra
USA
e
URSS,
instaurata
nel
corso
del
secondo
conflitto
mondiale,
si
trasforma,
dopo
la
“spartizione
di
Yalta”
del 4-11
febbraio
1945,
in
un’aperta
competizione
tra
due
superpotenze.
Due
antitetiche
concezioni
ideologiche
che
determinano
politiche
di
controllo
in
grado
di
condizionare,
nelle
rispettive
aree
d’influenza,
la
vita
d’intere
popolazioni.
La
competizione
tra
USA
e
URSS
si
muove
dal
controllo
militare
dei
rispettivi
territori.
Servendosi
del
duopolio
della
bomba
atomica
le
due
superpotenze
cercano
di
tenere
in
piedi,
con
l’installazione
di
arsenali
sempre
più
potenti,
un
“equilibrio
del
terrore”:
la
cosiddetta
Guerra
fredda.
L’Organizzazione
delle
Nazioni
Unite
(ONU),
istituito
nel
1945
a
New
York
in
seguito
all’accordo
tra
51
Stati,
con
la
finalità
di
preservare
la
pace
e di
favorire
lo
sviluppo
mondiale,
ha
scarsa
influenza
sulle
decisioni
maturate
volta
per
volta
dalle
due
potenze
egemoni.
La
logica
del
bipolarismo
colloca
le
Nazioni
Unite
in
una
posizione
troppo
marginale;
per
tali
ragioni
la
diplomazia
dell’ONU
non
riesce
a
intervenire
efficacemente
e
mediare
tra
i
contendenti
per
fermare
questo
“equilibrio
del
terrore”.
La
costruzione
da
parte
dei
sovietici
di
un
muro
atto
a
tagliare
in
due
parti
l’ex
capitale
tedesca,
Berlino,
e
l’annunzio
del
presidente
americano
J.
F.
Kennedy
di
voler
riprendere
al
più
presto
gli
esperimenti
nucleari,
determina
nel
1961
una
gravissima
crisi
internazionale.
Il
muro
di
Berlino
è
costruito
per
dividere
e
mettere
l’una
contro
l’altra
le
due
parti
della
città,
in
due
modi
differenti
di
comprendere
e
volere
il
mondo.
Da
una
parte
e
dall’altra
del
muro
l’esistenza
è
regolamentata
da
prescrizioni
spesso
tra
loro
contrapposte,
tra
sospetti
e
reciproca
diffidenza.
Quel
muro
attraversa
l’umanità
e
penetra
nel
cuore
e
nella
mente
delle
singole
persone,
creando
divisioni
che
sembrano
destinate
a
durare
nel
tempo.
Un’altra
gravissima
crisi
internazionale
si
determina
nell’ottobre
del
1962,
a
Cuba.
La
crisi
di
Cuba
scoppia
all’indomani
del
tentativo
sovietico
di
installare
sull’isola
caraibica
rampe
di
lancio
per
missili
a
testata
nucleare
e
difendere
così
il
regime
di
Fidel
Castro
–
Cuba
è
divenuta
comunista
dopo
la
rivoluzione
Castrista
del
1959
–
dalle
incursioni
americane.
Gli
Stati
Uniti,
decisi
a
inibire
l’installazione
di
queste
rampe
missilistiche,
disposero
un
blocco
navale
atto
a
impedire
alle
navi
sovietiche
di
attraccare
sull’isola.
Questi
eventi
determinano,
a
livello
di
opinione
pubblica
internazionale,
la
percezione
che
un
conflitto
atomico
tra
i
blocchi
fosse
imminente.
La
paura
di
un
conflitto
atomico
tra
le
due
superpotenze
bussa
anche
alle
porte
della
Santa
Sede,
da
poco
alle
prese
con
il
Concilio
ecumenico
Vaticano
II.
Il
25
ottobre
1962,
a
poco
più
di
un
mese
dall’apertura
dei
lavori
conciliari,
papa
Giovanni
XXIII,
diffonde
con
un
radiomessaggio
la
propria
supplica
ai
governanti
del
mondo
affinché
facciano
tutto
il
possibile
per
salvare
la
pace:
promuovere,
favorire
e
accettare
colloqui
a
tutti
i
livelli.
Aldilà
della
vulgata
che
vuole
Giovanni
XXIII
come
fautore
della
pace
tra
le
parti,
la
crisi
di
Cuba
rientra
a
seguito
di
un
compromesso
tra
le
parti:
decisione
sovietica
di
smantellare
le
basi
missilistiche
dall’isola
caraibica,
in
cambio
della
garanzia
da
parte
di
Kennedy
circa
la
tutela
dell’integrità
politica
di
Cuba.
Tuttavia,
questa
risoluzione
della
crisi
determina
in
papa
Roncalli
la
convinzione
che
i
difficili
equilibri
della
pace
possono
essere
mantenuti
solo
con
gli
sforzi
di
tutti.
Alla
fine
della
crisi
di
Cuba,
l’idea
e
l’azione
per
la
pace
hanno
indubbiamente
conosciuto
nella
Chiesa
romana
un’importante
accelerazione.
Uno
dei
grandi
punti
d’arrivo
di
questa
riflessione,
tutta
interna
alla
Chiesa,
è
raggiunto
da
Giovanni
XXIII,
l’11
aprile
1963,
con
la
promulgazione
dell’enciclica
Pacem
in
terris.
Il
documento
pontificio,
pur
largamente
ancorato
agli
schemi
elaborati
dalla
tradizionale
dottrina
cattolica,
dichiara
improponibile
nell’era
degli
armamenti
atomici
la
possibilità
di
condurre
una
“guerra
giusta”.
Con
la
Pacem
in
terris,
senza
tagli
netti
nei
confronti
degli
insegnamenti
sociali
dei
precedenti
pontefici,
Giovanni
XXIII
riesce
a
compiere
un
significativo
“balzo
in
avanti”
circa
l’accoglienza
delle
istanze
più
genuine
e
nobili
del
mondo
contemporaneo;
un
progresso
nel
campo
della
valutazione
teologica,
pastorale
ed
etica
della
promozione
e
difesa
della
pace,
della
dissuasione
e
dell’allontanamento
dello
spettro
della
guerra.
Tuttavia,
l’enciclica
giovannea
si
occupa
della
persona,
dei
suoi
diritti
e
doveri,
e
non
semplicemente
della
pace
in
quanto
tale.
C’è
un
legame
inscindibile
tra
pace
e
giustizia
sociale
a
sostegno
dell’assunzione
del
“bene
comune”
universale
come
fine
specifico
dell’autorità
politica
e
del
valore
morale
come
essenziale
alla
gestione
della
vita.
La
politica,
in
quanto
attività
umana,
è
soggetta
a un
giudizio
morale.
Per
la
Pacem
in
terris
questo
è
valido
anche
per
la
politica
internazionale:
«La
stessa
legge
morale
che
regola
i
rapporti
tra
i
singoli
esseri
umani,
regola
pure
i
rapporti
tra
le
rispettive
comunità
politiche»
(Pacem
in
terris,
III,
47).
Se
qualcuno
crede
che
la
politica
internazionale
si
manifesta
fuori
della
sfera
morale,
allora
costoro
devono
cominciare
a
riflettere
sui
movimenti
per
i
diritti
umani
e
sul
loro
impatto
sulle
politiche
nazionali
e
internazionali
del
secondo
Novecento.
Su
un
altro
punto
l’insegnamento
della
Pacem
in
terris
si
dimostra
profetico.
Di
fronte
a un
mondo
sempre
più
interdipendente,
Giovanni
XXIII
suggerisce
di
elaborare
il
concetto
di
pace
come
“bene
comune”
per
eccellenza.
È
questa,
probabilmente,
una
delle
chiavi
di
lettura
di
tutto
l’apparato
dottrinale
della
Pacem
in
terris.
Da
un
punto
di
vista
teologico
e
morale
tutta
l’enciclica
tende
a
mostrare
come
la
pace
non
può
che
stabilirsi
su
delle
relazioni
fondate
sulla
giustizia
sociale.
Ne
consegue
che
la
guerra
nasce
e si
sviluppa
in
situazioni
d’ingiustizia,
e
che
essa
può
portare
alla
distruzione
dei
rapporti
sociali.
L’enciclica
giovannea
rappresenta
dunque
una
riflessione
sul
tema
della
pace
e
della
guerra
in
previsione
dei
grandi
problemi
del
mondo
contemporaneo.
La
Pacem
in
terris
ha
avuto
nel
suo
tempo
un
rapporto
“storico”
con
gli
scenari
internazionali.
Ma
può
ancora
oggi
essere
valido
quanto
detto
cinquant’anni
fa
dalla
Pacem
in
terris?
Il
documento
giovanneo
non
si
riduce
al
momento
storico
che
lo
vede
nascere,
ma
testimonia
dentro
la
tradizione
della
Dottrina
sociale
della
Chiesa
una
riflessione
sul
mondo
contemporaneo.
La
Pacem
in
terris
ha
avuto
anche
il
merito
di
mettere
in
evidenza
la
vocazione
universale
della
Dottrina
sociale
della
Chiesa.
Questo
ha
determinato
il
limite
entro
cui
sono
validi
i
principi
fondamentali
della
Dottrina
sociale
della
Chiesa;
ossia
quelli
dell’umanità
intera.
C’è
allora
un
limite
entro
cui
si
valorizza
il
principio
del
“bene
comune”?
Ebbene,
la
Pacem
in
terris
individua
questo
limite
nell’umana
appartenenza.
Mi
sembra
questo
uno
dei
messaggi
più
attuali
della
Pacem
in
terris,
capace
di
intercettare
allora,
cinquant’anni
fa,
i
principali
motivi
di
tensione
internazionale,
e in
grado
soprattutto
oggi
di
portare
alla
luce
alcune
tra
le
principali
contraddizioni
del
nostro
tempo.
La
condanna
del
razzismo,
l’assistenza
ai
profughi
e ai
rifugiati,
la
tutela
internazionale
nei
confronti
di
tutte
le
minoranze,
non
sono
che
applicazioni
consequenziali
di
quel
massaggio
dirompente.
Ma
la
prospettiva
dell’edificazione
di
un
mondo
fatto
di
diritti,
di
libertà,
di
pace,
disegnata
dalla
Pacem
in
terris,
è
lontano
dal
realizzarsi.
Invece,
si
deve
registrare
frequenti
esitazioni
della
comunità
internazionale
nel
prendere
posizione
per
far
rispettare
e
applicare
i
più
elementari
diritti
umani.
Allo
stesso
tempo,
si
va
sempre
più
allargando
la
forbice
dell’ingiustizia
sociale,
tra
chi
usufruisce
di
una
serie
di
diritti
(es.
l’accesso
alla
rete
internet)
promossi
dalle
società
cosiddette
avanzate
e
chi
invece
non
riesce
ad
accedere
neanche
a
quelli
più
elementari:
il
diritto
all’acqua
potabile,
al
cibo,
alla
casa,
all’auto-determinazione.
La
pace
richiede
che
questa
distanza
sia
urgentemente
ridotta
e
infine
superata.
Riferimenti
bibliografici:
E.
Di
Nolfo,
Dagli
imperi
militari
agli
imperi
tecnologici:
la
politica
internazionale
dal
XX
secolo
a
oggi,
editori
Laterza,
Roma-Bari
2011.
A.
Melloni,
Pacem
in
terris:
storia
dell’ultima
enciclica
di
Papa
Giovanni,
editori
Laterza,
Roma-Bari
2010.
D.
Menozzi,
Chiesa,
pace
e
guerra
nel
Novecento:
verso
una
delegittimazione
religiosa
dei
conflitti,
Il
Mulino,
Bologna
2008.
A.
Papuzzi,
Papa
Giovanni:
la
chiesa,
il
Concilio,
il
dialogo,
Donzelli,
Roma
2008
G.
Sabatini,
Dalla
crisi
di
Cuba
alla
pacem
in
terris:
Giovanni
XXIII
e la
pace
attraverso
la
stampa
italiana,
UNI
Service,
Trento
2007.
G.
Alberigo,
Breve
storia
del
Concilio
Vaticano
II
(1959-1965),
Il
Mulino,
Bologna
2005.