N. 136 - Aprile 2019
(CLXVII)
Tabula Picta
La
pittura
a
cera
nella
Grecia
antica
di
Paolo
Fundarò
Plinio
il
Vecchio
nella
Naturalis
Historia
afferma
categorico:
“Non
c’è
gloria
se
non
per
i
pittori
che
hanno
dipinto
su
tavola”
(N.H.
XXXV,
118).
Segue
l’elenco
degli
artisti
celebri
nelle
due
tecniche
utilizzate
nella
pittura
da
cavalletto
nel
mondo
antico:
la
tempera
(a
base
di
sostanze
proteiche
come
uovo,
colle,
caseina
ecc.)
e
l’encausto;
vale
a
dire
cera
d’api
mescolata
con
pigmenti
e
stesa
sul
supporto
pittorico.
L’encausto
classico,
come
hanno
rivelato
le
analisi
scientifiche,
prevedeva
l’uso
di
cera
d’api
vergine
o
cera
punica;
cioè
di
un
sapone
di
cera
ottenuto
mediante
trattamento:
la
cera
d’api
veniva
resa
solubile
e
miscibile
con
l’acqua
grazie
all’aggiunta
di
potassa
o
carbonato
di
sodio
(il
natron
di
cui
parla
Plinio
nella
N.H.).
“Prendi
acqua
di
alto
mare
e
aggiungila
alla
cera
con
un
po’
di
natrom,
poi
falla
bollire,
quindi
estrai
con
una
spatola
la
parte
più
bianca
della
cera
che
affiora
e
versala
in
un
altro
vaso
che
ne
contenga
una
parte
fredda
e
ponila
nuovamente
sul
fuoco.
Quando
il
vaso
si
raffredderà,
ripeti
l’azione
per
tre
volte,
e
infine
mettila
ad
asciugare
sui
graticci
all’aperto
sino
a
quando
il
sole
e la
luna
la
renderà
candida”
(N.H.lib.
XXI,
83).
Il
composto
ottenuto
e
mescolato
ai
colori
poteva
e
può
essere
usato
a
freddo
e
successivamente
fissato
a
caldo
accostandolo
a
una
fonte
di
calore
per
ottenere
effetti
fluidi,
densi
e
pastosi
o in
rilievo.
Per
la
resa
e le
suggestioni
ottiche
ottenute,
l’encausto
può
essere
considerato
un
precursore
della
moderna
tecnica
a
olio.
La
cera
ha
il
vantaggio
di
non
screpolare,
notevoli
proprietà
antibatteriche
e
permette
di
conservare
i
colori
senza
alterarli
nel
tempo.
Può
anche
essere
mescolata
con
una
certa
percentuale
di
resine
naturali,
o
protetta
con
uno
strato
finale
di
vernice
per
aumentarne
durezza
e
resistenza;
pratica
adottata
dai
pittori
antichi
come
Apelle,
il
quale
aveva
ideato
una
verniciatura
finale
a
protezione
del
dipinto
definita
atramentum.
Composizione
misteriosa,
celebrata
dalle
fonti
antiche
e
imitata
da
pittori
e
botteghe
del
suo
tempo
senza
però
riuscire
a
carpirne
i
segreti.
Gli
unici
esempi
di
dipinti
eseguiti
a
encausto
giunti
sino
a
noi
sono
i
famosi
ritratti
funerari
del
Fayyum;.
Si
tratta
di
tavole
o
sudari
in
lino
risalenti
all’epoca
della
dominazione
romana
in
Egitto,
datati
tra
il I
e
III-IV
sec.
d.C.
adagiati
sul
volto
delle
mummie
per
raffigurare
le
sembianze
del
defunto.
Ritratto
di
Eirene.
Encausto
su
tavola,
40-45
d.C.
Museo
di
Stoccarda
Rinvenuti
principalmente
nelle
necropoli
di
Antinoopolis,
Hawara
e
Er-Rubayat,
abbracciano
la
tradizione
funeraria
dell’antico
Egitto
e
adottano
la
tecnica
dell’encausto
di
matrice
greca.
L’Egitto
in
epoca
ellenistica
ospitava
numerosi
coloni
greci,
in
particolare
la
zona
del
Governatorato
del
Fayyum
a
seguito
delle
conquiste
di
Alessandro
Magno.
Nonostante
il
totale
naufragio
di
tutta
la
pittura
greca
da
cavalletto,
descritta
riccamente
dalle
fonti
classiche
in
un
susseguirsi
di
fasti
e
splendori,
gli
studiosi
concordano
nel
ritenere
questi
pannelli
come
l’unico
collegamento
con
la
grande
tradizione
pittorica
su
tavola
del
mondo
antico.
La
scoperta
dei
ritratti,
dopo
un
rinvenimento
occasionale
di
due
mummie
a
opera
del
giovane
esploratore
romano
Pietro
della
Valle
nel
1615
e
che
non
suscitarono
particolare
clamore,
avviene
soprattutto
nel
secolo
XIX.
A
partire
dal
1887
un
importante
gruppo
di
ritratti
(circa
300)
fu
acquistato
dal
commerciante
di
contrabbando
viennese
Th.
Graf,
e
reso
noto
attraverso
pubblicazioni
e
numerose
mostre
tra
Europa
e
Stati
Uniti.
Altri
146
pezzi
furono
il
frutto
di
scavi
sistematici
a
opera
del
brillante
egittologo
Fl.
Petrie
tra
il
1889
e il
1911.
Petrie
fu
anche
il
primo
a
fornire
dati
scientifici
sul
contesto
del
rinvenimento
e a
smentire
la
pretesa
di
Graf
secondo
cui
i
ritratti
raffigurassero
nientemeno
che
la
dinastia
dei
Tolomei,
con
l’evidente
scopo
di
aumentarne
il
valore
sul
mercato
internazionale.
Noti
per
il
fascino
e il
potente
naturalismo,
apprezzati
durante
il
periodo
della
loro
scoperta
da
Freud
e O.
Wilde;
i
ritratti
realizzati
in
alcuni
casi
quando
il
defunto
era
ancora
in
vita,
e in
altri
forse
dopo
il
decesso,
obbediscono
secondo
analisi
dettagliate
più
a
una
tipologia
standard,
a un
modello
base
a
cui
secondo
i
casi
venivano
aggiunti
o
modificati
particolari
anatomici
come
barbe,
forma
della
bocca
o
del
naso,
taglio
degli
occhi,
ecc,
per
velocizzare
e
concludere
rapidamente
il
lavoro
pittorico.
Dato
l’alto
costo
della
mummificazione
e
dell’uso
della
foglia
d’oro
nella
decorazione
delle
tavole,
si
presume
che
i
soggetti
rappresentati
appartenessero
alla
classe
agiata.
Elementi
come
le
acconciature,
la
forma
della
barba,
e i
gioielli
forniscono
utili
indicazioni
cronologiche
per
la
datazione.
La
pittura
a
encausto
non
va
peraltro
confusa
con
l’affresco
pompeiano.
Dopo
la
scoperta
di
Pompei,
verso
la
metà
del
Settecento,
due
opposte
scuole
videro
nei
colori
intensi
e
brillanti
delle
pitture
vesuviane
ora
l’affresco,
ora
l’encausto.
Tavola
a
encausto
contemporaneo
di
P.Fundarò
L’equivoco
nacque
da
un
passo
di
Plinio
il
quale,
riprendendo
un
brano
tratto
da
Vitruvio
dal
celebre
manuale
“De
Architectura”
(libro
VII),
descrive
una
vernice
protettiva
per
le
pareti
esterne
dipinte
col
rosso
cinabro
a
base
di
cera
punica
e
olio
detta
in
greco
gànosis.
Tutte
le
analisi
di
archeometria
hanno
però
confermato
e
dimostrato
che
le
tecnica
di
esecuzione
della
pittura
parietale
romana
è
l’affresco;
l’intonaco
umido
pronto
a
ricevere
i
pigmenti
a
base
di
ocre
e
terre
è
preparato
con
calce
e
sabbia
e
nell’ultimo
strato
con
polvere
di
marmo
o
calcite.
I
colori
incompatibili
con
la
calce
sono
stesi
su
un
cuscinetto
preparatorio
a
base
di
terre
bolari
(alluminosilicati).
Le
vecchie
vernici
utilizzate
per
proteggere
e
ravvivare
la
superficie
dei
dipinti
pompeiani
sono
fantasiose
formule
a
base
di
cera
e
composti
vari
ideati
a
partire
dal
Settecento,
le
moderne,
un
misto
di
cera
d’api
e
cera
vegetale
carnaùba
sciolte
in
essenze
volatili.
Infine
è lo
stesso
Plinio
a
chiarire
in
maniera
netta
che
“l’encausto
è un
genere
di
pittura
estraneo
a
quello
parietale”
(N.H.
XXXV,
49).
Fonti
antiche
come
Platone
e
Plutarco
(Repubblica,
IV
420c;
Storia
degli
Ateniesi,
VI)
fanno
riferimento
e
distinguono
altre
pratiche
decorative
ottenute
con
la
cera
d’api;
oltre
la
gànosis
intesa
come
verniciatura
di
statue
o
parti
architettoniche
la
circumlitio;
il
mettere
in
rilievo
alcune
particolari
delle
statue
con
la
cera
come
occhi,
labbra,
fibbie,
calzari.
Si
tratta
in
sostanza
di
pratiche
ornamentali,
distinte
dalla
più
laboriosa
pittura
a
cera
che
ingloba
il
pigmento
e lo
stende
a
strati
con
lo
scopo
di
ottenere
un
effetto
estetico,
sapiente
e
realistico.
Sempre
Plinio
in
un
altro
passo
del
suo
trattato
aggiunge
che
non
si
sa
chi
per
primo
abbia
inventato
l’encausto
(N.H.
XXXV,122)
e,
che
due
furono
in
antico
i
modi
di
dipingere
a
encausto;
a
cera,
e
sull’avorio
col
cestro
o
stilo,
cioè
con
uno
strumento
metallico
a
cui
si
aggiunse
un
terzo
modo
con
cui
si
scioglie
la
cera
sul
fuoco
a si
sparge
sulle
navi
col
pennello
(N.H.
XXXV,149).
Plinio
non
specifica
però
se
nel
primo
tipo
di
pittura
(a
cera)
il
pennello
fosse
già
utilizzato
oppure
no.
Il
pennello
per
stendere
la
cera
dovette
però
essere
usato
già
dal
V
secolo
a.C.
Nel
racconto
di
Plinio
i
più
antichi
pittori
a
utilizzare
l’encausto
furono
pittori-bronzisti
Del
V
sec
a.C.
come
Polignoto
di
Taso,
Nikanor,
Mnesilaos
e
Mnesippo.
Le
ultime
recenti
analisi
sui
grandi
bronzi
antichi
come
a
esempio
le
statue
di
Riace
(460-430
a.C)
rivelano
che
per
realizzare
questi
manufatti
venivano
utilizzati
pennelli
e
spatole
per
spalmare
la
cera
e
ottenere
specifici
effetti
artistici
sul
modello
in
argilla.
La
tecnica
dei
grandi
bronzi
realizzati
con
metodo
indiretto
si
sviluppa
in
Grecia
verso
la
fine
dell’età
arcaica,
e
prevedeva
come
soluzione
innovativa
la
saldatura
di
arti
e
testa
in
una
fase
secondaria
rispetto
la
realizzazione
della
forma
centrale.
I
pittori-bronzisti
operavano
in
botteghe
realizzando
il
modello
di
fusione
in
cera
steso
su
un’anima
di
argilla,
in
seguito
poi
fuso
per
ottenere
la
statua.
Probabilmente
il
prototipo
in
cera
prima
della
fusione
veniva
pigmentato
per
avere
un’idea
chiara
del
risultato
e
dell’aspetto
finale.
Le
glorie
dell’encausto
svaniscono
dopo
circa
un
millennio.
La
tecnica
cade
in
declino
appena
si
spengono
gli
ultimi
fuochi
della
furia
iconoclasta
dopo
il
secolo
VIII
d.C.
e la
tempera
all’uovo
prende
il
sopravvento.
Gli
ultimi
esempi
superstiti
di
pitture
a
cera
sono
le
superbe
icone
custodite
nel
monastero
di
Santa
Caterina
nel
Sinai
in
Egitto
e le
icone
mariane
in
alcune
chiese
di
Roma:
la
Madonna
del
conforto
di
Santa
Maria
Nova,
la
Madonna
della
clemenza
di
Santa
Maria
in
Trastevere
e la
Madonna
Advocata
del
Monasterium
tempuli
nella
chiesa
di
Santa
Maria
del
Rosario.
La
cera,
eletta
per
secoli
dai
greci
per
la
sua
natura
molteplice,
duttile,
malleabile
e
modellabile
in
preziosi
manufatti
pittorici,
decorativi,
e
persino
per
ottenere
sfavillanti
opere
di
metallurgia,
può,
in
attesa
di
tempi
più
propizi,
trattenersi
al
riparo
nei
caldi
favi
tra
le
api
dorate.