L’empia alleanza
SULL’intesa FRANCO OTTOMANA DEL 1536
di
Francesco Biscardi
Comunemente sentiamo ripetere
parecchie inesattezze ed
imprecisioni sulla religione e sulla
civiltà musulmana, tese a ridurre
semplicisticamente l’islam al
jihadismo o all’oppressione, senza
aver chiara la complessità che
realmente possiede questa fede,
incapaci di distinguere fra veri
precetti e uso nefasto e
strumentalizzato che spesso ne viene
fatto. Similmente non si è
pienamente consci di come nelle
guerre condotte per motivazioni
religiose generalmente la religione
non sia altro che uno scudo teso a
celare ben più profonde ragioni
politiche ed economiche. Infine la
storia dei rapporti fra società
cristiane ed islamiche non è stata
costellata da sole guerre e
violenze, ma anche da scambi,
accordi e passaggi da una fede
all’altra. Emblematica fu l’alleanza
siglata nel 1536 fra il re di
Francia Francesco I e il sultano
ottomano Solimano II, conosciuto
come “il Magnifico” in Occidente o
“Kanuni” (“il Legislatore”) in
Oriente.
Complesso era lo scenario in cui
avvenne quest’intesa: nel 1494 erano
iniziate le Guerre d’Italia che
vedevano contendersi l’egemonia
sulla nostra penisola almeno tre
potenze: la Francia, l’Impero
tedesco e la Spagna, queste ultime
due unite, dal 1519, nella persona
di Carlo V d’Asburgo; la scoperta
poi di un Mondus Novus stava
dischiudendo agli europei nuovi
orizzonti, mentre maturava il
Rinascimento e nel contempo la
Riforma protestante contribuiva a
lacerare la Cristianità. A
complicare le cose ci pensava
l’Impero ottomano che, dopo la
conquista di Costantinopoli/Istanbul
del 1453, minacciava il cuore del
Vecchio continente.
Inizialmente il timore verso il
“Turco” sembrava poter compattare
gli Stati cristiani contro il comune
nemico: Venezia combatteva per i
suoi possedimenti e la sua influenza
nell’Adriatico e nel Mediterraneo
orientale, difendendo i suoi pingui
commerci, e Carlo V formava, una
volta eletto imperatore, un fronte
con i sovrani di Danimarca e
d’Inghilterra contro gli ottomani.
La crociata divenne da subito parte
integrante del grande disegno che
questi intendeva perseguire fra
Maghreb, Medio Oriente ed Europa. Di
contro Solimano, sul trono dal 1520,
non tardò a compiere mirabolanti
imprese: conquistò Belgrado nel
1521, Rodi nel 1526, stesso anno
della vittoria nella battaglia di
Mohács, in cui morì Luigi II
d’Ungheria, cognato di Carlo.
Sulle prime anche i re di Francia,
tradizionalmente fregiantisi del
titolo di reges christianissimi
dai tempi di Luigi IX “il Santo”,
sembravano animati da intenti
crociati: Carlo VIII nel 1494 era
sceso in Italia per rivendicare il
dominio di Napoli in virtù della
passata signoria angioina ed aveva
sbandierato l’intento di
riconquistare Gerusalemme, ma i
conflitti che da allora presero
piede fecero passare in secondo
piano tali velleità.
Un momento centrale delle Guerre
d’Italia lo si ebbe nel 1525 con la
battaglia di Pavia: nello scontro il
re francese, Francesco I, non solo
venne sconfitto dall’esercito
ispano-imperiale di Carlo V, ma finì
anche suo prigioniero. Fu liberato
solo dietro pagamento di un ingente
riscatto e, quattro anni dopo, fu
costretto a firmare la Pace di
Cambrai con cui, in sostanza,
accettava la sua estromissione dalla
penisola; in più si impegnava a
concedere all’imperatore dodici
galee per l’impresa che questi si
accingeva a compiere contro la
pirateria islamica nel Mediterraneo.
Tuttavia l’azione del sovrano
parigino andrà in direzione
diametralmente opposta rispetto a
quanto promesso, in quanto si
avvicinerà proprio al sultano e al
suo “grande ammiraglio”, il corsaro
e “beylerbey” (“governatore”) di
Algeri Khayr al-Dīn detto
“Barbarossa”.
Uomo dotato di eccezionali qualità
strategico-piratesche, nonché di uno
spiccato ingegno, quest’ultimo aveva
lanciato verso una strabiliante
crescita economica e demografica il
governatorato algerino, vassallo di
Istanbul, al vertice dei cosiddetti
“Stati barbareschi”: fra 1520 e 1529
si era praticamente impadronito di
tutti gli scali costieri
punteggianti la sponda sud del
Mediterraneo, da Gibilterra ad
Algeri, mentre le coste spagnole ed
italiche erano costantemente
bersaglio dei suoi raid.
Nel 1529 una possedente squadra
navale castigliana si era lasciata
cogliere impreparata presso
Formentera, dove era stata
sbaragliata da un fido del
Barbarossa, Aydin Rais, un rinnegato
cristiano noto in Italia come “Cacciadiavolo”.
All’indomani di questo episodio e
della Pace di Cambrai, Francesco,
desideroso di rivalsa, cominciò ad
allacciare contatti con la corte
ottomana: nel marzo 1530 fu
segretamente inviato presso il
sultano l’audace mediatore Antonio
Rincón con precise istruzioni.
Giunto a Costantinopoli espose
direttamente a Solimano i dettagli
dell’offerta bilaterale proposta dal
suo signore, che, in sostanza,
prevedeva una spartizione concertata
dell’Italia: grazie ad una manovra a
tenaglia, gli ispano-imperiali
sarebbero stati tenuti occupati nel
settentrione dall’esercito parigino,
mentre l’imponente flotta sultaniale,
rafforzata dalle squadre navali del
Barbarossa, avrebbe preso possesso
delle coste centro-meridionali della
penisola. Sembra che fu discusso
anche il destino di Roma, ambita
preda del sovrano turco che agognava
a mettere le mani su quella che
veniva spesso denominata “mela
rossa” nelle storie e nei canti di
corte.
Gli intrighi, nonostante gli sforzi,
non rimasero adeguatamente celati,
tanto che la Santa Sede venne presto
a conoscenza di queste macchinazioni
e il pontefice, Clemente VII, non
tardò a preparare un piano di rapida
fuga ad Avignone in caso di attacco
alle rive del Lazio. Tuttavia non si
scagliò apertamente contro il re
francese: non agitò l’arma della
scomunica e si limitò ad un invito
affinché salvasse perlomeno le
apparenze dinanzi ai fedeli.
Perdurava infatti l’inimicizia con
Carlo V e gli echi del Sacco di Roma
del 1527 erano ancora vivi presso la
curia papale. Di contro Francesco
cercò di negare, denunciando anzi
che Solimano aveva messo gli occhi
sull’Urbe e sull’Italia, mentre, in
realtà, tergiversava e portava
avanti la sua trama: nel 1532 nel
contempo inviava a Roma un messaggio
in cui si dichiarava mortificato di
non poter contribuire all’impresa
che l’imperatore si accingeva a
compiere contro il Barbarossa,
accampando la scusa che la sua
flotta doveva restare ancorata in
Provenza per prevenire un possibile
attacco corsaro, mentre, sempre
segretamente, rispediva il Rincón da
Solimano.
In realtà in quell’anno il
Barbarossa non si mosse, lasciando
perlopiù il peso dell’offensiva
anticristiana al governatore di
Gelibolu (Gallipoli), Ahmed Bey,
mentre l’esercito ottomano risalì
l’area danubiano-balcanica arrivando
a minacciare Vienna come nel 1529. È
interessante riportare come sono
state avanzate varie tesi su questa
mancata azione del corsaro
nell’estate del 1532: si sono
ipotizzati screzi fra questi e le
alte sfere ottomane, finanche
segrete trattative con Carlo, simili
a quelle che Parigi stava intessendo
con Istanbul, o sole problematiche
logistiche. Pare che un possibile
asse barbaresco-imperiale non sia
così impensabile, ma, allo stato
attuale delle nostre conoscenze,
tale ipotesi resta confinata a
livello di ucronia.
È comunque probabile che qualcosa
avvenne nei rapporti fra
Costantinopoli e Algeri, perché nel
1533 Solimano invitò il Barbarossa a
raggiungerlo per ricevere il grado
di “qapūdān-i
deryā” (“capitano del mare”) e con
esso il comando di tutta la sua
flotta. Non è da escludere che fra
le ragioni che spinsero il sultano a
incontrare l’abile governatore
algerino vi sia stato il volersi
sincerare personalmente della sua
fedeltà, mentre l’importante carica
affidatagli derivò dal fatto che la
squadra navale di Carlo, comandata
da Andrea Doria, aveva sconfitto la
sua a Corone ed era penetrata a
Patrasso.
Allo spregiudicato corsaro, seppur
non più giovane, spettò l’onere
della riscossa: salpò da Istanbul e
iniziò le sue razzie contro le coste
cristiane, giungendo, nel 1534, nel
sud della Francia, dove incontrò gli
emissari del re, per poi far vela
alla volta di Tunisi, da allora
sottratta al sovrano hafside, Muley
al-Ḥassan, e tenuta sotto suo
dominio (persa solo temporaneamente,
nel 1535, a vantaggio di Carlo), e
di Corone, riconquistata.
Se nel 1532 non abbiamo notizie
sicure, sappiamo meglio come, fra
1534 e 1535, l’imperatore cercò,
invano, di portare il Barbarossa
dalla propria parte, promettendogli
il governo dell’Africa mediterranea
per conto della Spagna e la libertà
di navigazione nei mari di Sicilia,
dietro un aiuto contro il sultano,
mentre, sotto l’altro versante,
Francesco non tardò ad elogiarlo per
le vittoriose imprese,
assicurandogli l’amicizia di Parigi.
Alla fine proprio quell’impium
foedus (“empia alleanza”), le
cui trattative erano in corso dal
1529, divenne ufficialmente realtà
il 19 febbraio del 1536: Francia e
Impero ottomano siglarono un patto
di reciproco aiuto contro il comune
avversario. La propaganda asburgica
tuonò affermando che il “re
cristianissimo”, erede di Carlo
Martello, Carlomagno e Luigi IX, si
era alleato con l’”anticristo”
islamico contro il Sacro romano
imperatore e la Santa Chiesa da lui
difesa. Si invitò il pontefice a
spogliarlo di ogni titolo, ma
questi, all’epoca Paolo III, preferì
non accanirsi contro il sovrano
francese, probabilmente sia per non
rischiare di dividere ulteriormente
una Cristianità già dilaniata dalla
Riforma protestante, e poi per non
trovarsi contro un pericoloso
avversario, vista anche la sua
diffidenza nei confronti di Carlo V.
Dal canto suo quest’ultimo non era
rimasto estraneo a possibili intese
con una potenza islamica: oltre che
con il Barbarossa, era stata
caldeggiata l’alleanza con la Persia
dei Safavidi. Seguendo il precetto
“il nemico del mio nemico è mio
amico”, il 25 agosto 1525 aveva
infatti risposto da Toledo ad una
missiva del ṣàfawī Ismāʿīl, recante
l’invito ad un comune impegno contro
gli ottomani, avvertendolo del
momento propizio derivato dal
recente trionfo di Pavia.
Concentrare un attacco concentrico
contro Istanbul era la vera posta in
gioco: il Safavide dall’Asia e
l’Asburgo dall’Europa.
La Cristianità non era nuova a tale
possibile intesa: contando sulla
divisione presente nella fede
islamica (sciiti i persiani, sunniti
i turchi) e sulle rivalità
geo-politiche fra i due imperi, ci
aveva provato Venezia negli anni
Sessanta e Settanta del Quattrocento
e ci sarebbe probabilmente riuscita
se l’allora signore persiano, Ūzūn
Ḥasan, non fosse morto nella
battaglia di Otluk Dagh del 1473.
Carlo non fu molto più fortunato,
perché Ismāʿīl morì proprio nel 1525
e gli successe il meno
accondiscendente Tahmāsp.
Ciononostante dieci anni dopo riuscì
ugualmente a stringere un’intesa
dopo l’effimera conquista di Tunisi,
per quanto non paragonabile a quella
fra Francesco e Solimano, destinata
a sopravvivere ai due protagonisti:
ancora nella seconda metà del
Seicento il Re Sole, Luigi XIV,
eviterà di essere coinvolto nei
progetti crociati di papa Innocenzo
XI e si dolerà per la mancata
conquista ottomana di Vienna,
assediata nel 1683.
La storia qui sommariamente
ricostruita dimostra come nelle
guerre quella ideologico-religiosa
sia quasi sempre solo una scusa che
cela dietro ben altre motivazioni di
Realpolitik. Riprova inoltre
come i rapporti fra civiltà islamica
e cristiana non siano sempre stati
in ogni caso agli antipodi, il che
ci dovrebbe aiutare a comprendere
come sarebbe opportuno abbandonare
preconcetti e stereotipi al fine di
non cadere negli errori commessi in
passato.
Riferimenti bibliografici:
Bono
S., Guerre corsare nel
Mediterraneo. Una storia di
incursioni, arrembaggi, razzie,
Il Mulino, Bologna, 2019.
Cardini
F. Musarra A., Il grande racconto
delle crociate, Il Mulino,
Bologna, 2019.
Pellegrini M., Guerra santa
contro i turchi. La crociata
impossibile di carlo V, Il
Mulino, Bologna, 2015.
Ricci
G., Rinascimento conteso. Francia
e Italia, un’amicizia ambigua,
Il Mulino, Bologna, 2024.
Sampoli
S., La sconfitta nel
Mediterraneo. Venezia e Istanbul:
incontri e scontri, da Carlo V alla
guerra di Candia (1519-1669),
Nuova Immagine Editrice, Siena,
2016.