N. 131 - Novembre 2018
(CLXII)
ELISABETTA
DI
MAGGIO
IL
TEMPO
É LO
STRUMENTO
CHE
COSTRUISCE
LE
OPERE
di
Mariasole
Germani
Elisabetta
Di
Maggio
è
nata
nel
1964
a
Milano,
ma è
vissuta
e ha
operato
per
quasi
tutta
la
sua
vita
a
Venezia.
Completa
in
Laguna
la
sua
prima
formazione
artistica
con
il
Diploma
dell’Accademia
delle
Belle
Arti
nel
1989
e in
seguito
torna
in
Lombardia
per
approfondire
lo
studio
delle
arti
visive
nell’ambito
del
Corso
Superiore
della
Fondazione
A.
Ratti
di
Como.
Per
le
sue
opere
la
Di
Maggio
predilige
materiali
umili
e
quasi
poveri,
ma
che
pazientemente
e
finemente
sono
intagliati,
impreziositi
da
infinite
incisioni
e
sono
in
grado
di
riprendere
vita
sotto
altre
forme.
Tra
i
materiali
usati
abbiamo:
il
sapone,
elemento
semplice
che
si
plasma
nella
ritualità
quotidiana,
la
carta
velina
che
nelle
sue
mani
diventa
materia
per
lussuosi
merletti
e
giochi
di
luce-ombra,
i
pezzi
d’intonaco
intagliati
con
bisturi
e
pazienza,
facendo
del
tempo
contemporaneamente
lo
strumento
e
l’oggetto
della
propria
poetica.
Utilizza
il
principio
di
una
tecnica
antica
come
il
ricamo,
con
una
manualità
molto
precisa
che
evoca
il
lavoro
femminile
e
un’epoca
ormai
passata.
Tutti
i
suoi
lavori
si
realizzano
attraverso
il
tempo
che
diventa
la
materia
dei
tutte
le
sue
opere,
l’artista
impiega
ore
a
sezionare
fogli
di
carta
velina,
foglie,
saponi,
intonaco
e
altre
superfici,
regolando
il
passare
di
giorni
e
mesi,
il
risultato
sono
le
geografie
che
la
vita
assume
nel
suo
dilatarsi
e
organizzarsi.
Il
tempo
è
l’oggetto
costante
della
sua
indagine,
poiché
l’artista
gli
riconosce
il
ruolo
di
struttura
primaria
ed
essenziale
della
vita
umana,
fin
dalle
sue
prime
opere
si
occupa
di
indagare
il
tempo
in
tutte
le
sue
forme.
Elisabetta
Di
Maggio
ha
scelto
la
via
della
precisione,
della
finitezza
e
del
rigore,
tutte
proprietà
che
servono
per
evitare
la
paura
del
disordine,
il
pericolo
dell'equivoco.
L'artista
sembra
essere
consapevole
di
una
perdita:
quella
dell'utilità
del
fare,
dell'agire
e vi
contrappone
con
forza
e
libertà
la
consapevole
inutilità
del
proprio
gesto,
solo
testimone
di
un
attuale,
necessario
e
programmatico
disadattamento.
Dagli
anni
Novanta
si
moltiplicano
le
mostre
personali
della
Di
Maggio,
in
Italia
e
all’estero:
nel
1998
è a
Padova,
nel
1999
a
Venezia,
nel
2001
a
Madrid
e
nel
2004
a
Verona,
dove
espone
‘La
Parete’,
una
delle
sue
realizzazioni
più
rappresentative,
presso
la
Galleria
Francesco
Girondini
Arte
Contemporanea.
Inizialmente
nelle
sue
prime
opere
Elisabetta
di
Maggio
utilizza
il
tempo
al
fine
di
disfare
la
forma,
come
possiamo
vedere
nell’opera
Pianto
(Figura
n.
1),
in
cui
il
tempo
era
necessario
per
far
sciogliere
il
ghiaccio
con
cui
è
stata
realizzata
l’opera
e
sciogliendosi
la
trasforma.
Oppure
in
Stupro
(Figura
n.
2),
opera
in
cui
l’artista
ha
inciso
su
600
saponi
di
Marsiglia,
parole
di
sei
liquidi
che
sono
presenti
negli
abusi
sessuali
(saliva,
sangue,
sudore,
sperma,
urina,
lacrime),
il
sapone
avrebbe
dovuto
lavare
il
tempo,
il
dolore
e la
violenza
subita.
Figura
n.
1:
Pianto,
1999
Figura
n.
2:
Stupro,
2001,
cm
400
x
150
Figura
n.
3:
La
Parete
2004,
Galleria
Francesco
Girondini
Arte
Contemporanea,
Verona
L’opera
permanente
La
Parete
(Figura
n.
3) è
una
delle
opere
più
importanti
di
Elisabetta
di
Maggio,
questa
è
una
delle
installazioni
che
meglio
rappresenta
il
lavoro
dell’artista
in
cui
il
tempo
della
vita
e il
tempo
del
lavoro
coincidono;
essi
fanno
parte
di
un
medesimo
progetto
esistenziale.
Lavorando
per
molte
ore
al
giorno
alle
sue
opere,
Elisabetta
di
Maggio
ci
restituisce
il
senso
del
tempo.
In
questa
installazione,
il
tema
del
muro
è
centrale,
appena
si
entra
nella
galleria
un
muro
divide
lo
spazio
trasversalmente
in
due
parti.
La
parete
si
trasforma,
andando
verso
sinistra
in
un
muro
di
carta
velina,
sottile
e
fragile
come
un
velo.
L’opera
è
una
grandissima
carta,
montata
come
se
fosse
una
vera
parete
portante,
interamente
intagliata
da
preziosi
e
fitti
disegni,
che
ritornano
in
altre
opere.
Non
c’è
un
disegno,
ma
sono
l’unione
di
frammenti
di
disegni
tagliati
che
alla
fine
formano
un
grande
arazzo
in
negativo.
Sono
motivi
tratti
da
vecchi
merletti,
dal
cinquecento
a
oggi,
che
derivano
dal
mescolamento
di
motivi
occidentali
con
quelli
orientali:
l’arabesco.
Per
l’artista,
ciò
ha
significato
dei
motivi
che
trasmigrano
da
una
cultura
all’altra,
che
attraversano
il
tempo
e lo
spazio
ancora
con
una
vitalità
inaspettata.
Questi
intagli,
com’è
evidente
anche
in
altre
opere,
sono
un
precipizio
in
cui
è
rinchiuso
il
lavoro
e il
destino
delle
donne.
In
passato
si
stava
per
ore,
per
giorni
a
ricamare
per
sé o
per
gli
altri,
al
fine
di
racimolare
soldi
per
vivere,
l’artista
traspone
tutto
ciò
sulla
carta.
Nella
sua
insistenza
a
restare
aderente
alle
tracce
della
storia,
c’è
una
visione
della
vita
di
tutti
i
giorni,
della
memoria
individuale
e
privata.
Ricamare
è un
lavoro
sedentario,
ma
non
solitario,
accetta
compagnia
delle
persone,
della
musica.
Il
lavoro
di
Elisabetta
di
Maggio,
si
collega
facilmente
anche
ai
racconti
orali,
in
quanto
anch’esso
è
legato
alla
ripetizione
e
alla
realtà
delle
donne.
Cucinare,
cucire,
sono
azioni
che
si
fanno
e si
ripetono
e
fanno
da
sfondo
alle
storie
personali,
come
i
merletti
è
immediato
ricordarli
nelle
case
delle
nonne.
Dietro
questa
installazione,
s’intravede
l’altra
parte
dello
spazio
diviso,
un
luogo
inondato
di
luce,
poiché
ci
sono
dei
neon
che
riflettono
la
luce
sulle
pareti
colorate
di
verde
chiaro,
che
infonde
un
senso
di
sospensione
di
quello
spazio
che
non
vuole
definirsi.
Il
muro
così
concepito
evoca
anche
muri
che
sono
caduti
e
muri
che
oggi
si
sta
costruendo
per
dividere
e
proteggere
dalle
differenze,
ma
questo
essendo
così
fragile
indica
per
l’artista
lo
spazio
interiore
e le
difficoltà
che
abbiamo
verso
i
cambiamenti
e i
passaggi
di
crescita,
la
paura
del
tempo
che
scorre
inesorabilmente.
Le
città
incise
sul
sapone
di
Marsiglia
sono
un
altro
aspetto
del
tempo
che
è
analizzato
dall’artista:
la
temporaneità
dell’oggetto
insieme
al
tempo
dell’immaginazione
e
della
riflessione.
La
Di
Maggio
è
molto
interessata
al
tempo
che
quotidianamente
spendiamo
nelle
città,
poiché
lei
stessa
vive
a
Venezia,
una
città
che
tanto
ama.
In
queste
opere,
gli
oggetti
del
quotidiano,
come
le
città,
sono
raschiati,
scarniti,
ridotti
a
degli
scheletri
partendo
dalla
mappa
geografica
che
l’artista
realizza
con
la
carta
velina
intagliata,
per
poi
utilizzarla
come
traccia
per
trasportare
la
mappa
di
una
città
sul
sapone.
Tutto
ciò
sembra
quasi
prostrarsi
davanti
a
questo
processo
di
sottrazione,
di
riduzione
della
vita
all’osso.
L’uso
del
sapone,
materiale
deperibile,
che
sottoposto
al
processo
d’invecchiamento
si
ossida
e si
scioglie,
rileva
anche
il
cambiamento
strutturale
che
le
città
subiscono
nel
corso
del
tempo.
Figura
n.
4:
Città
Figura
n.
5:
Città
del
Messico,
2008
Figura
n.
6:
Parigi,
2008
Nella
sala
Giuseppe
Jappelli
del
Museo
della
Fondazione
Querini
Stampalia
di
Venezia
(2005,
opera
permanente,
Figura
n.
7),
Elisabetta
Di
Maggio
ha
intagliato
con
il
bisturi
l’intonaco
di
un
angolo
di
muro,
riportando
alla
luce
gli
strati
del
colore
precedente
e il
tempo
che
sopra
vi è
trascorso.
Usa
il
ricamo
come
linguaggio
universale
e
riconoscibile,
che
è
presente
in
tutte
le
sue
opere
diventando
il
segno
identificativo
del
suo
lavoro
artistico.
In
quest’opera
tenta
di
legare
insieme
passato,
presente
e
futuro,
lavorando
nel
qui
e
ora,
il
suo
progetto
parte
dal
desiderio
di
dialogo
con
il
tempo,
in
un
luogo
che
fu
una
dimora
familiare,
attraversato
da
gesti
domestici,
come
quello
di
ricamare,
in
questo
modo
il
muro
recupera
la
memoria
di
un
vissuto.
Dopo
un
attento
studio
dei
particolari,
l’artista
ha
scelto
cinque
diversi
frammenti
di
tessuto
originali,
che
nel
corso
di
cinque
secoli
hanno
rivestito
le
sale
del
palazzo.
Elisabetta
di
Maggio
ha
composto
un
merletto
arabesco
con
forme
vegetali
di
carta
velina,
che
ha
poi
inciso
sulla
parete,
procedendo
per
circa
dieci
centimetri
quadrati
il
giorno,
l’effetto
ottenuto
riporta
a
luoghi,
dove
frammenti
strappati
di
tappezzerie,
sono
gli
unici
testimoni
della
vita
trascorsa.
In
questa
sospensione
sottile
il
tempo
non
esiste
più,
la
memoria
diventa
il
presente.
Figura
n.
7:
Senza
Titolo#05,
2007
Nel
Febbraio
del
2013,
è
stata
inaugurata
la
nuova
mostra
personale
"Dis-Nascere”
di
Elisabetta
di
Maggio,
presso
la
Fondazione
Bevilacqua
la
Masa
di
Venezia.
In
questa
mostra
la
di
Maggio
affronta
il
passare
del
tempo
e
gli
effetti
che
i
corpi
vegetali
subiscono
inseguito
al
suo
passaggio
occupandosi
del
tema
“la
vita
e la
morte”.
Tra
le
varie
opere
presentate,
c’è
una
teca
(Figura
n.
8)
in
cui
troviamo
dentro
una
foglia
gigantesca
incisa
con
i
bisturi
lungo
le
linee
dentro
cui,
prima
che
la
paralizzasse
la
morte,
scorreva
la
linfa.
Figura
n.
8:
Lotus,
2012
L’artista,
prende
gli
oggetti
dal
mondo
reale
e li
legge
come
strumenti
di
forza
in
cui
un
tempo
passava
energia.
Anche
in
queste
opere
troviamo
un
lavoro
d’intagli,
che
se
inizialmente
era
realizzato
come
richiamo
al
ricamo
e
quindi
a
un’epoca
che
non
c’è
più,
ora
li
usa
per
mettere
in
luce
i
due
elementi
salienti
della
vita:
la
rete
di
comunicazione
necessaria
a
mettere
le
informazioni
sul
suo
stesso
rigenerarsi
e il
tempo
necessario
perché
questo
passaggio
avvenga.
Qui
anche
se
le
forme
sono
fragili
nelle
apparenze,
riflettono
la
forza
del
processo
vitale,
per
questo
sono
il
risultato
di
una
pratica
fisica
disciplinata
e
con
un
lavoro
che
avviene
giornalmente.
Figura
n.
9:
Victoria
Regia
Figura
n.10:
Edera
In
un’altra
sala
ci
sono
tre
foglie
di
ninfee
Victoria
Regia
(Figura
9),
rimpicciolite
dalla
disidratazione,
mostrano
i
canali
in
cui
scorreva
la
linfa,
in
un
angolo
della
sala
ci
sono
Rami
di
edera
(Figura
10)
che
in
parte
sono
stati
reidratati
con
glicerina,
in
parte
lasciati
a
seccare
in
modo
da
rendere
più
evidente
la
loro
struttura
e il
processo
d’invecchiamento
di
un
corpo;
il
fare
e
disfare
della
vita-morte.
Una
transitorietà
della
vita
inevitabile,
un
suo
ritorno
a un
momento
precedente
–
una
dis-nascita
–
una
provvisorietà
contro
la
quale
si
può
opporre
solo
la
bellezza
del
momento,
il
tempo
del
lavoro.
Riferimenti
bibliografici:
Bertola
Chiara,
“Il
tempo
è
come
il
luogo”,
Alberto
Peola
Arte
Contemporanea,
Torino,
2001.
Bertola
Chiara,
Francesca
Pasini,
Il
muro
di
luce,
Francesco
Girondini
Arte
Contemporanea
Verona,
2004,
pp.
8-11.
Pasini
Francesca,
“Nel
deserto
abbagliante
della
carta
velina”,
Francesco
Girondini
Arte
Contemporanea,
Verona,
2004,
pp.
12-13.
Vettese
Angela,
Dis-Nascere,
Silvana
Editoriale,
Milano,
2012.