Twilight Calls
Reflections on US-Russia
Relations
di Alessio Guglielmini
Salvatore Nicosia, nelle pagine
dell’Introduzione all’edizione
Adelphi dei Discorsi sacri di
Publio Elio Aristide (1984),
restituisce gli umori suscitati
dall’opera del retore greco presso i
dotti di varie epoche. Già Areta,
arcivescovo di Cesarea (circa
850-944) si lamentava delle
“inconsistenti farneticazioni” di
Aristide (cit. p.9), ma il fastidio
era duro a morire, se quasi mille
anni dopo lo stesso Giacomo Leopardi
ricavava “una sensazione di nausea”
dalla lettura dei Discorsi,
come confessato nel suo giovanile
De vita et scriptis Aelii Aristidis
commentarius.
Ovviamente, questi giudizi più
“personali” dovevano lasciare spazio
ad analisi più accurate, che
avrebbero reintegrato il valore dei
Discorsi quale testimonianza
dell’irrequietudine e dei dislivelli
psichici che trapelavano da un’età
apparentemente aurea. È
significativo che Aldo Schiavone
abbia introdotto l’originalissima
ricostruzione del suo La storia
spezzata, proprio rievocando il
famoso discorso che un giovane
retore di lingua greca, Aristide
appunto, avrebbe tenuto a Roma nella
primavera del 143 o 144 d.C. per
celebrare il compleanno dell’urbe in
quell’Athenaeum voluto da Adriano
“come centro di promozione e di
studio della cultura greca” (cit. p.
5).
Aristide, in quella sede e
probabilmente al cospetto
dell’imperatore Antonino, incensava
la grandezza di Roma, insieme alla
bontà delle sue istituzioni e del
suo governo che avevano trasformato
il mondo intero in un “delizioso
giardino” (cit. p.7). Ora, come
segnalato dallo stesso Schiavone,
non tutti erano concordi nel
collocare la celebre orazione nella
data del 143-144, ad esempio Charles
Allison Behr, indicato anche dal
Nicosia quale testimone a sostegno.
Mentre non è stato messo in
discussione quel viaggio romano,
avvenuto quando l’oratore doveva
avere 26 anni. Quella peregrinazione
si rivelò decisiva per i mali e le
avversità psicofisiche che Aristide
avrebbe lamentato poi nel corso dei
sei Discorsi che costellano
la sua opera.
Il fatto che Aristide di quel
viaggio non ricordasse gli eventuali
privilegi e onori goduti, a ragione
della famosa orazione, soffermandosi
piuttosto sulle disavventure occorse
nel tragitto da Smirne a Roma,
andata e ritorno, tra naufragi
scampati per un soffio, condizioni
metereologiche estreme e dolori
atroci ai visceri e alle vie
respiratorie, lascia intendere che
la trasferta romana coronata dal
discorso all’Athenaeum avvenisse in
un’altra occasione: Behr suppone nel
155 (Discorsi sacri, nota 36,
p. 192).
Al di là delle incertezze sulle
circostanze dei suoi spostamenti,
Schiavone non scelse a caso il primo
ambasciatore della sua analisi,
volta a tentare la difficile
spiegazione di come un impero, come
quello romano del II secolo giunto
al suo massimo splendore, diventasse
presto il soggetto tragico di una
graduale disgregazione che avrebbe
di fatto gettato l’Europa in una
lunga era di disunioni religiose e
politiche, crisi economiche e
culturali che sarebbero persistite
per circa un millennio. Aristide, il
portavoce di quella splendente luce,
era, ciò non di meno, un individuo
intimamente vessato dalle angosce,
dai dubbi, salvato in extremis, di
volta in volta, come raccontato in
maniera particolareggiata nei
Discorsi, dalla sua divinità
protettrice: Asclepio.
Il viaggio del 143-144, se non aveva
dunque portato Aristide al cospetto
dell’imperatore nell’Athenaeum, lo
aveva portato al cospetto di
Asclepio. Il dio, dopo quella
tribolata spedizione, lo aveva
chiamato in sogno, consigliandogli
il ricovero a Pergamo (era l’estate
del 145). Il sogno era d’altro canto
l’elemento portante dell’intero
culto di Asclepio che prescriveva le
sue cure, e attuava i suoi rimedi,
attraverso l’incubazione, ossia
interagendo con la vita onirica dei
suoi pazienti che si accomodavano
negli spazi cultuali dei suoi
santuari. Aristide, per questioni
logistiche, preferiva muoversi verso
la vicina (da Smirne) Pergamo,
sebbene il principale Asclepieo
risiedesse nella peloponnesiaca
Epidauro.
È in questa prospettiva che i
Discorsi sacri hanno assunto una
rilevanza significativa, aiutando a
tracciare le credenze e la mentalità
di un uomo che, da una parte,
forzature retoriche a parte, era
consapevole di vivere in un’età
aurea dell’umanità, ma che,
dall’altra, sotto quella
rassicurante vernice, si dibatteva
in un inquieto confronto con i suoi
mali di origine, verosimilmente,
psicosomatica. Non sorprende che
l’egocentrismo patologico che aveva
dato noia ad Areta di Cesarea, o al
Leopardi, finisse per attirare le
attenzioni di uno “scavatore
dell’irrazionale” quale Eric R.
Dodds che, come segnalato dal
Nicosia, arrivò a definire la
discussa opera di Aristide come “la
prima e unica autobiografia
religiosa che il mondo pagano ci
abbia lasciato” (Discorsi sacri,
cit. p.11). Se questo verdetto
proviene dal testo Pagani e
cristiani in un’epoca di angoscia,
bisogna pur notare come Dodds
insistesse sulla tipicità del
profilo di Aristide anche nelle
pagine del precedente, e più famoso,
I Greci e l’irrazionale,
focalizzandosi sui sogni occorsi nel
santuario di Asclepio, fino a
incasellare le esperienze del retore
nella casistica della “trance
auto-provocata” (p. 160).
L’unicità del resoconto di Aristide
è stata d’altro canto riconosciuta,
oltre che dallo stesso Behr, anche
da André-Jean Festugière (Sur les
«Discours sacrés» d’Aelius Aristide).
Il suo valore, benché le sue parti
possano spesso risultare ripetitive
e confuse circa date ed eventi, si
manifesta principalmente nella
variegata complessità del rapporto
che Aristide stabilisce con Asclepio
lungo le vicende narrate. Il dio,
tramite sogni, visioni, notizie
portate all’attenzione di terzi che
poi riferiscono ad Aristide, si
comporta all’occorrenza come medico
tradizionale, fornendo rigorosi
consigli terapeutici (astensioni dal
bagno, esercizi fisici, impacchi di
fango, prescrizioni alimentari),
oppure come indiscussa divinità,
predicendo l’avvenire o indicando
azioni rituali che hanno lo scopo di
salvare la vita del suo assistito.
Aristide ne emerge come un protetto
privilegiato, quasi si trattasse di
un eroe omerico che viene soccorso
nel mezzo della battaglia
dall’intervento salvifico di un nume
favorevole. È Asclepio, ad esempio,
a suggerirgli di simulare un
naufragio, per risolvere così in
maniera morbida, e non letale, una
profezia del fato (Discorsi sacri,
p. 85). In altre circostanze, sono
figure prossime ad Asclepio a
intervenire a favore di Aristide e
di chi lo accompagna: è il caso di
Apollo Delio che, come spiegato nel
Quarto Discorso, induce in
qualche modo il retore a rifiutare
di viaggiare alla mercé di un
timoniere, giudicato “un tipo
rissoso che non esitava a navigare
controvento e a prendere il mare
come se lo stesse arando” (cit. p.
132). Quel rifiuto, a quanto pare,
si rivela provvidenziale dal momento
che il mattino successivo si scatena
un violento uragano.
In altri frangenti, Asclepio
interagisce al fianco di divinità
analoghe, che gli si accostano
mentre Aristide dorme: “E nella
stessa notte mi apparve anche
Serapide in compagnia di Asclepio,
entrambi di meravigliosa bellezza e
grandezza, e in qualche modo tra
loro somiglianti” (cit. p. 119). Nel
Secondo Discorso (verso 18),
Aristide descrive così
un’apparizione di Asclepio, condita
ancora una volta da sfumature
profetiche: “Quando poi fummo a
Smirne, egli mi apparve in questa
forma. Era Asclepio e al tempo
stesso Apollo, e più precisamente
l’Apollo di Claro e quello che a
Pergamo riceve l’appellativo di
Callitecno, ed è titolare del primo
dei tre templi. Stando dunque
davanti al mio letto in questo
sembiante, egli protendeva le dita
verso di me, e computando alcuni
anni diceva: «Hai dieci anni da
parte mia e tre da parte di
Serapide»” (cit. p. 86).
Considerando che Asclepio è figlio
di Apollo e che numerose sono le
tracce che accomunano Asclepio e
Serapide, il racconto di Aristide
risulta pienamente coerente
nell’ottica di un accertato
sincretismo cultuale. Ciò che a
questo punto non sorprende, ma che
arricchisce il resoconto di
Aristide, risiede nella fonte di
stimolo che Asclepio rappresenta
rispetto alla carriera ufficiale del
suo protetto. In più punti dei
Discorsi il dio interviene come
patrono della sua ars retorica,
invitando Aristide a rimanere fedele
alle sue doti innate. Anzi, da
alcune riflessioni emerge che la
guarigione e la salvezza più che
collegarsi alla sua salute personale
debbano riferirsi all’opportunità
che Aristide porti così a termine la
sua missione.
Imbattendosi nei travagli fisici,
numerosi tanto quanto lo sono le
guarigioni e i salvataggi miracolosi
descritti nei Discorsi, si
fatica in effetti a immaginare come
Aristide riuscisse a rispettare le
mansioni previste dalla sua carica,
che spesso comportava interventi
pubblici e impegni politici.
Sappiamo che nel 178 circa, in
seguito a un terremoto che aveva
colpito Smirne, Aristide si faceva
portavoce di una richiesta ufficiale
presso l’imperatore Marco Aurelio e
il figlio Commodo, per sollecitare
l’opera di ricostruzione (si veda in
merito il contributo di Carlo
Franco, Elio Aristide e Smirne).
A sessant’anni compiuti, Aristide
era ancora attivo nella vita sociale
della sua città d’adozione, sebbene
nei Discorsi sacri sia
soprattutto la sua vita interiore a
imporsi con un’intensità che stona
con la rigorosa disciplina della sua
veste ufficiale. Una
contrapposizione che avvalora, e
rinforza, la portata psicologica
attribuita dal Dodds al controverso
diario di questo uomo
dell’antichità.
Riferimenti bibliografici:
Elio
Aristide, Discorsi sacri, a
cura di Salvatore Nicosia, Adelphi,
Milano, 1984
Aldo
Schiavone, La storia spezzata.
Roma antica e Occidente moderno,
Laterza, 2002
Charles Allision Behr, Aelius
Aristides and the Sacred Tales,
Amsterdam, 1968
E.R.
Dodds, Pagani e cristiani in
un’epoca di angoscia. Aspetti
dell’esperienza religiosa da Marco
Aurelio a Costantino, La Nuova
Italia, Venezia, 1988
E.R.
Dodds, I Greci e l’irrazionale,
BUR, Milano, 2009
André-Jean Festugière, Sur les
«Discours sacrés» d’Aelius Aristide,
in Revue des études grecques,
82, 1969, pp. 117-153
Carlo
Franco, Elio Aristide e Smirne,
Bardi Editore, Roma, 2005