[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 155 / NOVEMBRE 2020 (CLXXXVI)


attualità

UN UOMO NUOVO IN UN PAESE VECCHIO

SULLE ELEZIONI AMERICANE 

di Gian Marco Boellisi

 

Il 2020 è sicuramente un anno che passerà alla storia per svariati avvenimenti, più o meno importanti. Tuttavia, prima che la pandemia diventasse protagonista quotidiana dei nostri notiziari, il 2020 era visto ormai da tempo come l’anno delle 59e elezioni presidenziali degli Stati Uniti.

 

Il fatidico appuntamento con la storia è giunto il 3 novembre e, non senza poche difficoltà e incertezze, ha finalmente decretato un vincitore. Joseph Robinette Biden è diventato così il 46° presidente eletto degli Stati Uniti d’America, battendo in una lotta senza esclusioni di colpi il presidente attualmente in carica Donald Trump.

 

Nonostante la vittoria tanto agognata, il risultato uscito dalle urne americane ci dice molto su un paese che vuole apparire agli occhi del mondo in un modo, ma che invece è nella sostanza qualcosa di molto diverso. Risulta quindi interessante approfondire la fotografia degli Stati Uniti uscita dal voto del 3 novembre e analizzare quali saranno le sfide che il presidente eletto dovrà affrontare da qui ai prossimi 4 anni.

 

Partiamo da dei brevi cenni sulla campagna elettorale. Ormai abituati negli ultimi anni a vedere poco del “politically correct” tipico della retorica politica statunitense, l’intera campagna elettorale e il dibattito politico in generale è stato caratterizzato da toni asprissimi, come forse se ne erano visti solamente nel 2016 alla vigilia del confronto elettorale Trump-Clinton.

 

Sia Biden che Trump hanno speso la maggior parte del tempo ad accusarsi reciprocamente piuttosto che focalizzarsi su temi concreti e definiti. Complice anche il linguaggio “antipolitico” introdotto da Trump negli ultimi anni, il dibattito si è concentrato su pochi temi, ma intrinsecamente collegati tra di loro, principalmente la gestione della pandemia di Covid-19, lo status dell’economica americana e i diritti delle minoranze.

 

Questa povertà di contenuti ha dimostrato come in questi anni, sia da parte democratica che repubblicana, vi sia stata una mancata maturazione dal punto di vista politico dei membri dei due schieramenti e di come si sia investita poco la propria attenzione e le proprie energie verso tematiche concrete. Ciò che è uscito dalle urne è senza dubbio molto interessante da analizzare, anche se molti analisti sono rimasti sorpresi.

 

Tuttavia se si leggono i trend fornitici dalle elezioni del 2016 e dal midterm del 2018 non si rimane sorpresi più di tanto. La prima fotografia che si può notare è quella di un paese estremamente diviso, polarizzato su fronti tanto opposti quanto inconciliabili. Da un lato i democratici o liberal, incentrati su spesa pubblica e diritti per la popolazione con obiettivo la riduzione dei privilegi delle grandi corporation. Dall’altro i repubblicani, incentrati su politiche più permissive in fatto di fiscalità e armamenti e in generale volte a un minore intervento dello stato negli affari dei privati cittadini o aziende.

 

Il paese, da sempre diviso tra queste due anime tanto diverse eppure complementari, sembra aver polarizzato il dibattito a livelli mai visti prima, tanto da essere proprio questa divisione la causa parziale dei disordini avvenuti negli scorsi mesi. Ed è qui che emerge la prima conclusione di queste elezioni, ovvero che per quanto Biden abbia vinto nettamente le elezioni il trumpismo e tutta la sua indecente retorica non sono stati sconfitti. Al contrario, vi è una larga fetta del paese che è ancora pronta a lottare per questo tipo di politica e di pensiero.

 

La cosiddetta “Onda Blu” che doveva travolgere tutti gli stati dell’Unione in queste elezioni non è avvenuta e ha dimostrato per l’ennesima volta quanto lo strumento dei sondaggi statunitensi sia poco affidabile in un’ottica di elezioni generali. È doveroso infatti ricordare che i sondaggi che vediamo alla CNN sono fatti a livello nazionale e non dei singoli stati, motivo per cui non rappresentano le realtà particolari di ciò che avviene nel Nevada o nel Wisconsin.

 

Visto il sistema elettorale americano, il quale si basa su dei grandi elettori a livello statale, e la distribuzione disomogenea della popolazione statunitense, concentrata per lo più sulle coste, si spiega molto facilmente come il mezzo dei sondaggi sia risultato quantomeno fallimentare negli ultimi anni e nutrito più dalle speranze di certe correnti politiche che da fatti concreti.

 

Nello svolgersi dello spoglio si è avuta addirittura una tendenza opposta a quanto aspettato, con un’iniziale vantaggio generale di Trump negli stati chiave, il quale tuttavia è stato rosicato fino a essere superato nettamente da un voto democratico non indifferente. Il voto postale in particolare, il quale è ancora oggetto delle innumerevoli quanto superflue critiche dell’ormai ex-presidente Trump, è stato decisivo per la rimonta di Biden in stati come Pennsylvania, Arizona, Georgia e Nevada.

 

Molti analisti avevano ritenuto che la scellerata gestione della pandemia da parte dell’amministrazione Trump avrebbe portato a una ribalta democratica con pochi precedenti nella storia. La verità tuttavia è che i risultati elettorali del 2020 e quelli passati del 2016 sono perfettamente comparabili, il che implica che l’America ha espresso la sua scelta indipendentemente dalla pandemia, ma basandosi su fattori completamente diversi. Infatti dal lato democratico vi sono gli stati costieri, tendenti all’economia dei servizi e alla globalizzazione classica delle industrie americane, mentre dal lato repubblicano vi sono gli stati interni, tipici dell’America rurale ed evangelista dalle forti tendenze conservatrici.

 

Stati come Illinois, Pennsylvania, Michigan, California, New York, Oregon, Rhode Island fanno parte del gruppo di 15 stati che dal 1992 al 2012 ha formato il cosiddetto “Muro Blu”, base elettorale democratica su cui Biden ha costruito la propria vittoria.

 

In generale si tratta degli stati costieri del New England nel Nord-Est e di quelli della costa Ovest, ovvero stati tendenzialmente molto ricchi, caratterizzati da un’economia solida con centri di grande urbanizzazione, presenza delle più importanti università del paese e dai grandi nomi dell’industria tecnologica.

 

Biden tuttavia non solo ha confermato stati tipicamente democratici, ma ha anche eroso parte della base elettorale repubblicana. Infatti ha conquistato 3 stati del Midwest che nel 2016 erano andati a Trump, ovvero Wisconsin, Michigan e Pennsylvania. Ha inoltre anche conquistato Arizona e Georgia, i quali sono tipicamente stati che votano repubblicano. Un’opera decisamente non da poco.

 

Dall’altra parte invece vi è l’America profonda, quella che in parte ci viene mostrata dagli stereotipi d’oltreoceano sugli abitanti dell’entroterra. Parliamo di stati come Alabama, Alaska, Arkansas, Carolina del Sud, Kentucky, Indiana, Iowa, Nebraska, Louisiana, Mississippi, Missouri, Oklahoma, Tennessee, Texas, West Virginia. I repubblicani hanno sempre costruito la propria base elettorale in questi stati e nella maggior parte dei casi ciò è stato confermato anche in queste elezioni.

 

Parliamo infatti di stati profondamente conservatori, legati a identità agricole e industriali di lungo corso, molto diffidenti per tutto ciò che è nuovo e che viene dall’esterno. Un’America profondamente patriottica e ostile al classico politicamente corretto (uno dei grandi motivi del successo di Trump in questi stati) e spesso anche a qualsiasi intrusione del governo federale nelle varie dinamiche locali.

 

Infine si confermano come Swing States, ovvero gli stati che risultano essere decisivi nella vittoria per le presidenziali, stati come Florida, Carolina del Nord, Arizona e Ohio. Questi hanno risultato essere in svariate occasioni l’ago della bilancia per la vittoria alla Casa Bianca, e lo hanno confermato anche quest’anno. Fu così con la Florida nel 2000 tra George W. Bush e Al Gore ed è stato così anche quest’anno con l’Arizona tra Trump e Biden.

 

Un altro aspetto che è ha destato stupore in queste elezioni sono state le minoranze. Infatti alla vigilia di ogni elezione esse vengono associate al partito democratico, essendo questi a favore di un maggior intervento statale nell’aiuto delle fasce meno abbienti che purtroppo spesso si identificano con le minoranze etniche statunitensi.

 

Tuttavia anche questa volta l’elettorato delle minoranze si è rivelato più che mai eterogeneo e pieno di molte sfaccettature. Infatti le previsioni riguardanti sia la minoranza afroamericana che quella latina, erano indirizzate a un voto in larga parte democratico, cosa che non è avvenuta del tutto. Al contrario, in Florida, dove l’elettorato latino è principalmente discendente degli esuli cubani giunti negli Stati Uniti negli anni 60-70, si è avuto un massiccio voto per Trump.

 

Per quanto riguarda l’elettorato nero, questo ha votato in larga parte per Biden, non vedendosi rappresentato né tantomeno rispettato da Trump e trovando finalmente un candidato democratico sentito come proprio. È importante infatti ricordare che uno dei motivi per cui Hilary fu sconfitta nel 2016 fu che questo elettorato non si sentì completamente rappresentato dalla senatrice di New York, motivo per il quale Biden ha voluto correre ai ripari nominando sua vicepresidente Kamala Harris.

 

Infine è importante anche sottolineare il fatto che i democratici hanno recuperato parzialmente un’altra fetta dei voti che portarono alla sconfitta della Clinton nel 2016, ovvero i bianchi che scelsero l’astensione, non convinti dalla candidata democratica e dai suoi fin troppi evidenti legami con le lobby e centri di potere statunitensi.

 

Per quanto riguarda i singoli candidati alla presidenza, essi hanno combattuto fino all’ultimo secondo per vincere la Casa Bianca e sono rimasti in gara fino all’ultimo voto per ottenere un obiettivo tanto importante.

 

Sul versante vincente democratico si è avuto Joe Biden, 78 anni il prossimo 20 novembre nonché il candidato più anziano mai eletto alla Casa Bianca. Biden detiene allo stato attuale un’enorme esperienza politica che gli conferisce un curriculum di tutto rispetto. Eletto senatore del Delaware per ben 36 anni, aveva già tentato la corsa presidenziale partecipando alle primarie democratiche per ben 2 volte, nel 1988 e nel 2008, fallendo in entrambi i casi. Nel 2008 tuttavia entrò a far parte dell’amministrazione Obama come vicepresidente, raggiungendo quello che secondo alcuni fu l’apice della sua carriera politica. Ma Joe evidentemente aveva ancora qualcosa da dare alla cosa pubblica americana.

 

In questa elezione Biden è riuscito a raggiungere svariati primati nella storia americana, cosa non da poco se si pensa all’età avanzata del senatore. Infatti ha preso circa 4 milioni di voti in più rispetto a Trump, arrivando a circa 75 milioni di voti, per un totale pari al 51% dell’elettorato. Inoltre risulta essere il candidato che ha preso più voti in assoluto nella storia degli Stati Uniti. Biden è riuscito anche a scalzare un presidente in carica che cercava la riconferma del mandato, cosa successa solo altre due volte: con Reagan nel 1980, il quale sconfisse Carter, e Clinton nel 1992, il quale sconfisse George Bush padre. Infine ha scelto come vice Kamala Harris, la quale è la prima donna, la prima afroamericana e la prima asiatico-americana a diventare vicepresidente.

 

Sul versante repubblicano invece abbiamo il presidente uscente Donald Trump il quale, a dispetto di molte previsioni sia americane che estere, è stato un ottimo candidato per la presidenza, rimanendo in partita fino alla fine. Basti pensare che Trump ha preso 7 milioni di voti in più rispetto al 2016, diventando così il candidato repubblicano più votato nella storia degli Stati Uniti. Egli inoltre ha costituito un pericolo per la vittoria democratica fino alla fine, aggiudicandosi alcuni stati in bilico e rimanendo aggressivo in altri fino alla sconfitta finale. Nonostante la presidenza sia passata in mano democratica, il fenomeno del “trumpismo” può dirsi tutto fuorché sconfitto. Vi è infatti una larga fetta di popolazione statunitense che ritiene Donald Trump essere stato un buon presidente e avere egli riportato l’America a essere rispettata e temuta nel mondo.

 

Nonostante ciò, la più grande forza di Trump è stata paradossalmente anche la sua più grande debolezza: il suo linguaggio e in generale il suo modo di fare. La sua spregiudicatezza per le regole dell’agire politico e il suo voler rappresentare a tutti i costi l’anti-establishment (fino a che punto nella realtà se ne potrebbe parlare) ha fatto sì che una parte dell’elettorato che lo aveva scelto o che si era astenuta nel 2016 ha deciso di virare verso il candidato avversario.

 

Ciò forse a testimonianza del fatto che l’immagine che Trump ha sempre voluto trasmettere di essere il timoniere forte e fiero della “nave americana” non è corrisposto sempre a risultati politici ed economici concreti, anzi in alcuni casi ha ottenuto l’esatto opposto depauperando l’immagine americana nel mondo. Questo, e molti altri fattori, hanno portato a una sonora sconfitta del presidente uscente, il quale tuttavia non ha ammesso di aver perso, ma anzi ha annunciato aspre battaglie legali nelle prossime settimane contro presunti brogli. I delegati verranno nominati i primi di dicembre e solo allora sapremo se alle parole di Trump seguiranno anche delle azioni concrete.

 

Per quanto riguarda le politiche della futura amministrazione Biden, essa avrà molte sfide da affrontare in questi 4 anni che la aspettano. È molto probabile che le prime attività legislative saranno concentrate sul fronte interno, dovendo ricucire i democratici le svariate ferite ancora aperte e sanguinanti nel tessuto sociale ed economico statunitense. Tuttavia è molto probabile che il Senato sia a maggioranza repubblicana o al meglio delle ipotesi 50 e 50, cosa che potrebbe rendere zoppa sin da subito l’amministrazione Biden e soggetta a ostruzionismo inoltrato da parte dei senatori repubblicani.

 

Sicuramente nell’agenda del primo anno vi saranno misure atte a contrastare la pandemia di Covid-19, ormai senza alcun controllo all’interno degli Stati Uniti, e anche a contrastare la dilagante disoccupazione in tutto il paese. In particolare sul tema del lavoro, Biden ha risentito delle importanti influenze del suo compagno di partito nonché ex-avversario alle primarie Bernie Sanders, esponente della sinistra più liberal statunitense nonché membro da sempre rispettato per le sue posizioni all’interno del partito democratico. Probabilmente la presa di Trump su molti stati è stata determinata proprio dalle sue posizioni in ambito di lavoro, facendo leva sulle entità industriali di periferia e su tutte quelle realtà lavorative che si sentono estraniate dalle grandi metropoli e dai grandi centri urbani. Realtà in cui i democratici hanno sempre faticato a farsi strada.

 

Per quanto riguarda invece gli esteri, Biden è molto probabile che demarchi una linea di discontinuità con il suo predecessore. In particolar modo il tema della lotta alla pandemia verrà riportato maggiormente all’attenzione delle cancellerie internazionali rispetto a quanto finora dalla Casa Bianca. È anche plausibile credere che vi sarà un rinvigorito slancio verso la firma di un nuovo accordo sul nucleare iraniano nonché quello di rientrare negli accordi di Parigi sull’ambiente. In generale si può dire che Biden cercherà di riportare armonia in quegli ambiti internazionali toccati e molte volte distrutti dall’amministrazione Trump.

 

Tuttavia non bisogna credere che vi sarà una linea di rottura netta rispetto all’agenda dell’amministrazione attuale. Infatti è molto probabile che la rivalità strategica con la Cina continuerà, essendo gli alti vertici dello stato ormai resisi conto che l’unico potenziale sfidante dell’egemonia americana risulti essere Pechino.

 

Per quanto riguarda il Medio Oriente e Israele lo scenario si fa più enigmatico, essendo le posizioni prese da Trump qui molto nette e in contrasto con la visione delle relazioni internazionali proprie del partito democratico. Bisognerà vedere fino a dove verrà seguita la linea di disengagement delle forze armate americane nella regione messa in atto da Trump e dove invece si sceglierà di impegnarsi per portare avanti gli interessi americani.

 

Per quanto riguarda infine la Russia, è molto probabile che i toni si accendano nuovamente al contrario del generale alleggerimento dell’era Trump. La Russia infatti non ha mai smesso di essere vista come un nemico in politica estera da parte dell’opinione pubblica e dell’establishment statunitense e questa sarà l’occasione per sottolineare nuovamente quanto questi due paesi abbiano interessi e obiettivi diametralmente opposti nel loro agire politico. Tuttavia, quando verranno riaccesi i riflettori su Mosca, Pechino avrà un attimo di respiro dall’estenuante confronto degli ultimi anni, cosa per la quale non potrà che ringraziare la nuova amministrazione democratica a Washington.

 

Per quanto riguarda l’Europa, una presidenza Biden potrebbe portare a due scenari distinti nei prossimi 4 anni. Nel primo si ritornerebbe all’epoca ante-Trump, in cui nulla si muoveva in Europa, sia internamente sia negli esteri, senza che Washington inviasse prima un telegramma scritto con la firma del presidente di turno in calce. Nel secondo invece si proseguirebbe nel percorso avviatosi per cause di forza maggiore nell’era Trump, ovvero un percorso di responsabilizzazione e presa di coscienza di essere un’entità politica ben definita e indipendente, in ambito economico, politico e militare.

 

Per quanto Biden sarà sicuramente più incline al dialogo rispetto al suo predecessore, quale di questi due scenari si avvererà saranno le leadership europee a deciderlo, mostrando così anche ai popoli europei se le persone che hanno eletto sono in possesso di quella identità politica europea di cui in questi tempi si ha bisogno più che mai.

 

In conclusione, le elezioni americane del 2020 hanno portato un esponente della vecchia scuola politica democratica al potere dopo 4 anni di trumpismo. Il paese è uscito dalle urne più diviso che mai, con i vari schieramenti sempre più radicalizzati sulle proprie posizioni in ambito di sanità, lavoro, economia e spese militari.

 

Il compito primario del governo sarà ricostruire un clima di riconciliazione e unità nazionale, ora apparentemente molto lontano, ma che ha portato gli Stati Uniti in passato a raggiungere risultati impensabili per altre nazioni al mondo. In questo momento, tra i più complicati e travagliati della storia americana, Biden avrà il compito più importante di tutti, ovvero ricostruire l’anima americana stessa.

 

Solamente il tempo tuttavia ci potrà dire se il neo eletto presidente avrà la forza, morale ma soprattutto politica, per far valere ancora una volta quella profetica scritta dietro la banconota da un dollaro: E pluribus, unum?

RUBRICHE


attualità

ambiente

arte

filosofia & religione

storia & sport

turismo storico

 

PERIODI


contemporanea

moderna

medievale

antica

 

ARCHIVIO

 

COLLABORA


scrivi per instoria

 

 

 

 

PUBBLICA CON GBE


Archeologia e Storia

Architettura

Edizioni d’Arte

Libri fotografici

Poesia

Ristampe Anastatiche

Saggi inediti

.

catalogo

pubblica con noi

 

 

 

CERCA NEL SITO


cerca e premi tasto "invio"

 


by FreeFind

 

 

 

 

 


 

 

 

[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]