attualità
UN UOMO NUOVO IN UN PAESE VECCHIO
SULLE ELEZIONI AMERICANE
di Gian Marco Boellisi
Il 2020 è sicuramente un anno che
passerà alla storia per svariati
avvenimenti, più o meno importanti.
Tuttavia, prima che la pandemia
diventasse protagonista quotidiana dei
nostri notiziari, il 2020 era visto
ormai da tempo come l’anno delle 59e
elezioni presidenziali degli
Stati Uniti.
Il fatidico appuntamento con la storia è
giunto il 3 novembre e, non senza poche
difficoltà e incertezze, ha finalmente
decretato un vincitore. Joseph
Robinette Biden è diventato così il
46° presidente eletto degli Stati Uniti
d’America, battendo in una lotta senza
esclusioni di colpi il presidente
attualmente in carica Donald Trump.
Nonostante la vittoria tanto agognata,
il risultato uscito dalle urne americane
ci dice molto su un paese che vuole
apparire agli occhi del mondo in un
modo, ma che invece è nella sostanza
qualcosa di molto diverso. Risulta
quindi interessante approfondire la
fotografia degli Stati Uniti uscita dal
voto del 3 novembre e analizzare quali
saranno le sfide che il presidente
eletto dovrà affrontare da qui ai
prossimi 4 anni.
Partiamo da dei brevi cenni sulla
campagna elettorale. Ormai abituati
negli ultimi anni a vedere poco del
“politically correct” tipico della
retorica politica statunitense, l’intera
campagna elettorale e il dibattito
politico in generale è stato
caratterizzato da toni asprissimi, come
forse se ne erano visti solamente nel
2016 alla vigilia del confronto
elettorale Trump-Clinton.
Sia Biden che Trump hanno speso la
maggior parte del tempo ad accusarsi
reciprocamente piuttosto che
focalizzarsi su temi concreti e
definiti. Complice anche il linguaggio
“antipolitico” introdotto da Trump negli
ultimi anni, il dibattito si è
concentrato su pochi temi, ma
intrinsecamente collegati tra di loro,
principalmente la gestione della
pandemia di Covid-19, lo status
dell’economica americana e i diritti
delle minoranze.
Questa povertà di contenuti ha
dimostrato come in questi anni, sia da
parte democratica che repubblicana, vi
sia stata una mancata maturazione dal
punto di vista politico dei membri dei
due schieramenti e di come si sia
investita poco la propria attenzione e
le proprie energie verso tematiche
concrete. Ciò che è uscito dalle urne è
senza dubbio molto interessante da
analizzare, anche se molti analisti sono
rimasti sorpresi.
Tuttavia se si leggono i trend fornitici
dalle elezioni del 2016 e dal midterm
del 2018 non si rimane sorpresi più di
tanto. La prima fotografia che si può
notare è quella di un paese estremamente
diviso, polarizzato su fronti tanto
opposti quanto inconciliabili. Da un
lato i democratici o liberal, incentrati
su spesa pubblica e diritti per la
popolazione con obiettivo la riduzione
dei privilegi delle grandi corporation.
Dall’altro i repubblicani, incentrati su
politiche più permissive in fatto di
fiscalità e armamenti e in generale
volte a un minore intervento dello stato
negli affari dei privati cittadini o
aziende.
Il paese, da sempre diviso tra queste
due anime tanto diverse eppure
complementari, sembra aver polarizzato
il dibattito a livelli mai visti prima,
tanto da essere proprio questa divisione
la causa parziale dei disordini avvenuti
negli scorsi mesi. Ed è qui che emerge
la prima conclusione di queste elezioni,
ovvero che per quanto Biden abbia vinto
nettamente le elezioni il trumpismo e
tutta la sua indecente retorica non sono
stati sconfitti. Al contrario, vi è una
larga fetta del paese che è ancora
pronta a lottare per questo tipo di
politica e di pensiero.
La cosiddetta “Onda Blu” che doveva
travolgere tutti gli stati dell’Unione
in queste elezioni non è avvenuta e ha
dimostrato per l’ennesima volta quanto
lo strumento dei sondaggi statunitensi
sia poco affidabile in un’ottica di
elezioni generali. È doveroso infatti
ricordare che i sondaggi che vediamo
alla CNN sono fatti a livello nazionale
e non dei singoli stati, motivo per cui
non rappresentano le realtà particolari
di ciò che avviene nel Nevada o nel
Wisconsin.
Visto il sistema elettorale americano,
il quale si basa su dei grandi elettori
a livello statale, e la distribuzione
disomogenea della popolazione
statunitense, concentrata per lo più
sulle coste, si spiega molto facilmente
come il mezzo dei sondaggi sia risultato
quantomeno fallimentare negli ultimi
anni e nutrito più dalle speranze di
certe correnti politiche che da fatti
concreti.
Nello svolgersi dello spoglio si è avuta
addirittura una tendenza opposta a
quanto aspettato, con un’iniziale
vantaggio generale di Trump negli stati
chiave, il quale tuttavia è stato
rosicato fino a essere superato
nettamente da un voto democratico non
indifferente. Il voto postale in
particolare, il quale è ancora oggetto
delle innumerevoli quanto superflue
critiche dell’ormai ex-presidente Trump,
è stato decisivo per la rimonta di Biden
in stati come Pennsylvania, Arizona,
Georgia e Nevada.
Molti analisti avevano ritenuto che la
scellerata gestione della pandemia da
parte dell’amministrazione Trump avrebbe
portato a una ribalta democratica con
pochi precedenti nella storia. La verità
tuttavia è che i risultati elettorali
del 2020 e quelli passati del 2016 sono
perfettamente comparabili, il che
implica che l’America ha espresso la sua
scelta indipendentemente dalla pandemia,
ma basandosi su fattori completamente
diversi. Infatti dal lato democratico vi
sono gli stati costieri, tendenti
all’economia dei servizi e alla
globalizzazione classica delle industrie
americane, mentre dal lato repubblicano
vi sono gli stati interni, tipici
dell’America rurale ed evangelista dalle
forti tendenze conservatrici.
Stati come Illinois, Pennsylvania,
Michigan, California, New York, Oregon,
Rhode Island fanno parte del gruppo di
15 stati che dal 1992 al 2012 ha formato
il cosiddetto “Muro Blu”, base
elettorale democratica su cui Biden ha
costruito la propria vittoria.
In generale si tratta degli stati
costieri del New England nel Nord-Est e
di quelli della costa Ovest, ovvero
stati tendenzialmente molto ricchi,
caratterizzati da un’economia solida con
centri di grande urbanizzazione,
presenza delle più importanti università
del paese e dai grandi nomi
dell’industria tecnologica.
Biden tuttavia non solo ha confermato
stati tipicamente democratici, ma ha
anche eroso parte della base elettorale
repubblicana. Infatti ha conquistato 3
stati del Midwest che nel 2016 erano
andati a Trump, ovvero Wisconsin,
Michigan e Pennsylvania. Ha inoltre
anche conquistato Arizona e Georgia, i
quali sono tipicamente stati che votano
repubblicano. Un’opera decisamente non
da poco.
Dall’altra parte invece vi è l’America
profonda, quella che in parte ci viene
mostrata dagli stereotipi d’oltreoceano
sugli abitanti dell’entroterra. Parliamo
di stati come Alabama, Alaska, Arkansas,
Carolina del Sud, Kentucky, Indiana,
Iowa, Nebraska, Louisiana, Mississippi,
Missouri, Oklahoma, Tennessee, Texas,
West Virginia. I repubblicani hanno
sempre costruito la propria base
elettorale in questi stati e nella
maggior parte dei casi ciò è stato
confermato anche in queste elezioni.
Parliamo infatti di stati profondamente
conservatori, legati a identità agricole
e industriali di lungo corso, molto
diffidenti per tutto ciò che è nuovo e
che viene dall’esterno. Un’America
profondamente patriottica e ostile al
classico politicamente corretto (uno dei
grandi motivi del successo di Trump in
questi stati) e spesso anche a qualsiasi
intrusione del governo federale nelle
varie dinamiche locali.
Infine si confermano come Swing
States, ovvero gli stati che
risultano essere decisivi nella vittoria
per le presidenziali, stati come
Florida, Carolina del Nord, Arizona e
Ohio. Questi hanno risultato essere in
svariate occasioni l’ago della bilancia
per la vittoria alla Casa Bianca, e lo
hanno confermato anche quest’anno. Fu
così con la Florida nel 2000 tra George
W. Bush e Al Gore ed è stato così anche
quest’anno con l’Arizona tra Trump e
Biden.
Un altro aspetto che è ha destato
stupore in queste elezioni sono state le
minoranze. Infatti alla vigilia di ogni
elezione esse vengono associate al
partito democratico, essendo questi a
favore di un maggior intervento statale
nell’aiuto delle fasce meno abbienti che
purtroppo spesso si identificano con le
minoranze etniche statunitensi.
Tuttavia anche questa volta l’elettorato
delle minoranze si è rivelato più che
mai eterogeneo e pieno di molte
sfaccettature. Infatti le previsioni
riguardanti sia la minoranza
afroamericana che quella latina, erano
indirizzate a un voto in larga parte
democratico, cosa che non è avvenuta del
tutto. Al contrario, in Florida, dove
l’elettorato latino è principalmente
discendente degli esuli cubani giunti
negli Stati Uniti negli anni 60-70, si è
avuto un massiccio voto per Trump.
Per quanto riguarda l’elettorato nero,
questo ha votato in larga parte per
Biden, non vedendosi rappresentato né
tantomeno rispettato da Trump e trovando
finalmente un candidato democratico
sentito come proprio. È importante
infatti ricordare che uno dei motivi per
cui Hilary fu sconfitta nel 2016 fu che
questo elettorato non si sentì
completamente rappresentato dalla
senatrice di New York, motivo per il
quale Biden ha voluto correre ai ripari
nominando sua vicepresidente Kamala
Harris.
Infine è importante anche sottolineare
il fatto che i democratici hanno
recuperato parzialmente un’altra fetta
dei voti che portarono alla sconfitta
della Clinton nel 2016, ovvero i bianchi
che scelsero l’astensione, non convinti
dalla candidata democratica e dai suoi
fin troppi evidenti legami con le lobby
e centri di potere statunitensi.
Per quanto riguarda i singoli candidati
alla presidenza, essi hanno combattuto
fino all’ultimo secondo per vincere la
Casa Bianca e sono rimasti in gara fino
all’ultimo voto per ottenere un
obiettivo tanto importante.
Sul versante vincente democratico si è
avuto Joe Biden, 78 anni il prossimo 20
novembre nonché il candidato più anziano
mai eletto alla Casa Bianca. Biden
detiene allo stato attuale un’enorme
esperienza politica che gli conferisce
un curriculum di tutto rispetto. Eletto
senatore del Delaware per ben 36 anni,
aveva già tentato la corsa presidenziale
partecipando alle primarie democratiche
per ben 2 volte, nel 1988 e nel 2008,
fallendo in entrambi i casi. Nel 2008
tuttavia entrò a far parte
dell’amministrazione Obama come
vicepresidente, raggiungendo quello che
secondo alcuni fu l’apice della sua
carriera politica. Ma Joe evidentemente
aveva ancora qualcosa da dare alla cosa
pubblica americana.
In questa elezione Biden è riuscito a
raggiungere svariati primati nella
storia americana, cosa non da poco se si
pensa all’età avanzata del senatore.
Infatti ha preso circa 4 milioni di voti
in più rispetto a Trump, arrivando a
circa 75 milioni di voti, per un totale
pari al 51% dell’elettorato. Inoltre
risulta essere il candidato che ha preso
più voti in assoluto nella storia degli
Stati Uniti. Biden è riuscito anche a
scalzare un presidente in carica che
cercava la riconferma del mandato, cosa
successa solo altre due volte: con
Reagan nel 1980, il quale sconfisse
Carter, e Clinton nel 1992, il quale
sconfisse George Bush padre. Infine ha
scelto come vice Kamala Harris, la quale
è la prima donna, la prima afroamericana
e la prima asiatico-americana a
diventare vicepresidente.
Sul versante repubblicano invece abbiamo
il presidente uscente Donald Trump il
quale, a dispetto di molte previsioni
sia americane che estere, è stato un
ottimo candidato per la presidenza,
rimanendo in partita fino alla fine.
Basti pensare che Trump ha preso 7
milioni di voti in più rispetto al 2016,
diventando così il candidato
repubblicano più votato nella storia
degli Stati Uniti. Egli inoltre ha
costituito un pericolo per la vittoria
democratica fino alla fine,
aggiudicandosi alcuni stati in bilico e
rimanendo aggressivo in altri fino alla
sconfitta finale. Nonostante la
presidenza sia passata in mano
democratica, il fenomeno del “trumpismo”
può dirsi tutto fuorché sconfitto. Vi è
infatti una larga fetta di popolazione
statunitense che ritiene Donald Trump
essere stato un buon presidente e avere
egli riportato l’America a essere
rispettata e temuta nel mondo.
Nonostante ciò, la più grande forza di
Trump è stata paradossalmente anche la
sua più grande debolezza: il suo
linguaggio e in generale il suo modo di
fare. La sua spregiudicatezza per le
regole dell’agire politico e il suo
voler rappresentare a tutti i costi
l’anti-establishment (fino a che punto
nella realtà se ne potrebbe parlare) ha
fatto sì che una parte dell’elettorato
che lo aveva scelto o che si era
astenuta nel 2016 ha deciso di virare
verso il candidato avversario.
Ciò forse a testimonianza del fatto che
l’immagine che Trump ha sempre voluto
trasmettere di essere il timoniere forte
e fiero della “nave americana” non è
corrisposto sempre a risultati politici
ed economici concreti, anzi in alcuni
casi ha ottenuto l’esatto opposto
depauperando l’immagine americana nel
mondo. Questo, e molti altri fattori,
hanno portato a una sonora sconfitta del
presidente uscente, il quale tuttavia
non ha ammesso di aver perso, ma anzi ha
annunciato aspre battaglie legali nelle
prossime settimane contro presunti
brogli. I delegati verranno nominati i
primi di dicembre e solo allora sapremo
se alle parole di Trump seguiranno anche
delle azioni concrete.
Per quanto riguarda le politiche della
futura amministrazione Biden, essa avrà
molte sfide da affrontare in questi 4
anni che la aspettano. È molto probabile
che le prime attività legislative
saranno concentrate sul fronte interno,
dovendo ricucire i democratici le
svariate ferite ancora aperte e
sanguinanti nel tessuto sociale ed
economico statunitense. Tuttavia è molto
probabile che il Senato sia a
maggioranza repubblicana o al meglio
delle ipotesi 50 e 50, cosa che potrebbe
rendere zoppa sin da subito
l’amministrazione Biden e soggetta a
ostruzionismo inoltrato da parte dei
senatori repubblicani.
Sicuramente nell’agenda del primo anno
vi saranno misure atte a contrastare la
pandemia di Covid-19, ormai senza alcun
controllo all’interno degli Stati Uniti,
e anche a contrastare la dilagante
disoccupazione in tutto il paese. In
particolare sul tema del lavoro, Biden
ha risentito delle importanti influenze
del suo compagno di partito nonché
ex-avversario alle primarie Bernie
Sanders, esponente della sinistra più
liberal statunitense nonché membro da
sempre rispettato per le sue posizioni
all’interno del partito democratico.
Probabilmente la presa di Trump su molti
stati è stata determinata proprio dalle
sue posizioni in ambito di lavoro,
facendo leva sulle entità industriali di
periferia e su tutte quelle realtà
lavorative che si sentono estraniate
dalle grandi metropoli e dai grandi
centri urbani. Realtà in cui i
democratici hanno sempre faticato a
farsi strada.
Per quanto riguarda invece gli esteri,
Biden è molto probabile che demarchi una
linea di discontinuità con il suo
predecessore. In particolar modo il tema
della lotta alla pandemia verrà
riportato maggiormente all’attenzione
delle cancellerie internazionali
rispetto a quanto finora dalla Casa
Bianca. È anche plausibile credere che
vi sarà un rinvigorito slancio verso la
firma di un nuovo accordo sul nucleare
iraniano nonché quello di rientrare
negli accordi di Parigi sull’ambiente.
In generale si può dire che Biden
cercherà di riportare armonia in quegli
ambiti internazionali toccati e molte
volte distrutti dall’amministrazione
Trump.
Tuttavia non bisogna credere che vi sarà
una linea di rottura netta rispetto
all’agenda dell’amministrazione attuale.
Infatti è molto probabile che la
rivalità strategica con la Cina
continuerà, essendo gli alti vertici
dello stato ormai resisi conto che
l’unico potenziale sfidante
dell’egemonia americana risulti essere
Pechino.
Per quanto riguarda il Medio Oriente e
Israele lo scenario si fa più
enigmatico, essendo le posizioni prese
da Trump qui molto nette e in contrasto
con la visione delle relazioni
internazionali proprie del partito
democratico. Bisognerà vedere fino a
dove verrà seguita la linea di
disengagement delle forze armate
americane nella regione messa in atto da
Trump e dove invece si sceglierà di
impegnarsi per portare avanti gli
interessi americani.
Per quanto riguarda infine la Russia, è
molto probabile che i toni si accendano
nuovamente al contrario del generale
alleggerimento dell’era Trump. La Russia
infatti non ha mai smesso di essere
vista come un nemico in politica estera
da parte dell’opinione pubblica e dell’establishment
statunitense e questa sarà l’occasione
per sottolineare nuovamente quanto
questi due paesi abbiano interessi e
obiettivi diametralmente opposti nel
loro agire politico. Tuttavia, quando
verranno riaccesi i riflettori su Mosca,
Pechino avrà un attimo di respiro
dall’estenuante confronto degli ultimi
anni, cosa per la quale non potrà che
ringraziare la nuova amministrazione
democratica a Washington.
Per quanto riguarda l’Europa, una
presidenza Biden potrebbe portare a due
scenari distinti nei prossimi 4 anni.
Nel primo si ritornerebbe all’epoca
ante-Trump, in cui nulla si muoveva in
Europa, sia internamente sia negli
esteri, senza che Washington inviasse
prima un telegramma scritto con la firma
del presidente di turno in calce. Nel
secondo invece si proseguirebbe nel
percorso avviatosi per cause di forza
maggiore nell’era Trump, ovvero un
percorso di responsabilizzazione e presa
di coscienza di essere un’entità
politica ben definita e indipendente, in
ambito economico, politico e militare.
Per quanto Biden sarà sicuramente più
incline al dialogo rispetto al suo
predecessore, quale di questi due
scenari si avvererà saranno le
leadership europee a deciderlo,
mostrando così anche ai popoli europei
se le persone che hanno eletto sono in
possesso di quella identità politica
europea di cui in questi tempi si ha
bisogno più che mai.
In conclusione, le elezioni americane
del 2020 hanno portato un esponente
della vecchia scuola politica
democratica al potere dopo 4 anni di
trumpismo. Il paese è uscito dalle urne
più diviso che mai, con i vari
schieramenti sempre più radicalizzati
sulle proprie posizioni in ambito di
sanità, lavoro, economia e spese
militari.
Il compito primario del governo sarà
ricostruire un clima di riconciliazione
e unità nazionale, ora apparentemente
molto lontano, ma che ha portato gli
Stati Uniti in passato a raggiungere
risultati impensabili per altre nazioni
al mondo. In questo momento, tra i più
complicati e travagliati della storia
americana, Biden avrà il compito più
importante di tutti, ovvero ricostruire
l’anima americana stessa.
Solamente
il tempo tuttavia ci potrà dire se il
neo eletto presidente avrà la forza,
morale ma soprattutto politica, per far
valere ancora una volta quella profetica
scritta dietro la banconota da un
dollaro:
E pluribus,
unum? |