N. 107 - Novembre 2016
(CXXXVIII)
SULLE
ELEZIONI
STATUNITENSI
ANALISI
DEL
VOTO
dell'8
novembre
2016
E
RIFLESSIONI
COMPARATIVE
di
Alessandro
Di
Meo
Le
elezioni
presidenziali
statunitensi
che
hanno
portato
alla
vittoria
del
miliardario
Donald
Trump
sono
state
contrassegnate
da
diversi
aspetti
di
rottura
rispetto
alla
tradizione,
che
diventano
comprensibili
solo
se
la
campagna
elettorale
negli
Stati
Uniti
viene
confrontata
con
il
voto
tenutosi
negli
ultimi
anni
nei
paesi
europei;
da
un’analisi
comparativa
delle
campagne
elettorali
e
degli
esiti
di
voto
si
delinea
infatti
l’evoluzione
in
atto
della
politica
occidentale.
La
campagna
elettorale
statunitense,
che
ha
visto
contrapposti
per
la
corsa
alla
presidenza
Hillary
Clinton
e
Donald
Trump,
è
stata
segnata
fin
dall’inizio
dal
clamore
suscitato
dalle
candidature
di
Trump
nel
Partito
Repubblicano
e di
Bernie
Sanders
nel
Partito
Democratico
fino
alle
primarie;
si
tratta
di
due
personaggi,
lontanissimi
per
formazione
politica
e
programmi
elettorali,
accomunati
però
dal
fatto
che
entrambi
si
sono
presentati
come
forze
antisistema,
e
che
hanno
basato
la
loro
campagna
proprio
su
questo
aspetto.
Trump
è
stato
sottovalutato
dai
suoi
concorrenti
di
partito
perché
non
ha
presentato
fin
da
subito
un
programma
elettorale
e ha
impiegato
toni
durissimi
contro
le
minoranze
etniche
negli
Stati
Uniti,
soprattutto
latinos
e
ispanici,
e
per
contrastare
l’immigrazione
dal
Messico
ha
proposto
la
costruzione
di
un
muro
lungo
il
confine
texano.
Il
suo
programma
economico,
ultraliberista,
prevede
la
detassazione
delle
imprese
con
un’aliquota
fissa
al
15 %
e la
creazione
di
venticinque
milioni
di
posti
di
lavoro
nei
prossimi
quattro
anni
di
mandato,
un’iniziativa
che
ha
fatto
leva
soprattutto
sul
ceto
medio,
impoverito
dalla
crisi
economica
degli
ultimi
anni.
Trump
ha
conquistato
le
primarie
repubblicane
perché
si è
presentato
come
la
principale
alternativa
politica
ad
Obama,
prima
promettendo
una
massiccia
liberalizzazione
della
vendita
di
armi,
poi
annunciando
che
abolirà
la
riforma
sanitaria
realizzata
da
Obama,
in
quanto
la
copertura
statale
delle
spese
mediche
è
vista
dai
repubblicani
come
una
misura
di
tipo
socialista,
ottenendo
così
un
indiretto
appoggio
anche
da
parte
delle
lobby
e
delle
assicurazioni
sanitarie
che
hanno
ostacolato
al
Congresso
le
iniziative
della
presidenza
democratica
negli
ultimi
otto
anni.
Sanders
aveva
invece
puntato
la
sua
campagna
elettorale
su
un’estensione
delle
iniziative
politiche
di
Obama,
con
un
programma
che
non
aveva
esitato
a
definire
“socialista”
e
che
prevedeva,
oltre
ad
un
incremento
della
copertura
statale
delle
spese
mediche,
anche
l’abolizione
delle
rette
universitarie,
una
stretta
sia
sulla
vendita
delle
armi
sia
sulla
costruzione
di
prigioni
private
–
cui
lo
stato
federale
demanda
la
detenzione
di
individui
condannati
per
diversi
tipi
di
reati
– e,
soprattutto,
un
controllo
più
rigido
sulle
transazioni
commerciali
e
sui
mercati;
Sanders
aveva
così
ottenuto
l’appoggio
dei
giovani
e
nelle
prime
fasi
della
campagna
elettorale
anche
di
gran
parte
del
ceto
medio,
ma
le
sue
iniziative
–
che,
se
approvate,
sarebbero
state
rivoluzionarie
per
gli
Stati
Uniti
–
hanno
suscitato
timori
nel
mondo
finanziario,
che
ha
sostenuto
la
principale
rivale
di
Sanders
nel
Partito
Democratico,
Hillary
Clinton,
promotrice
di
un
programma
più
moderato.
Occorre
comunque
aggiungere
che,
nel
corso
delle
campagne
per
le
primarie,
Sanders
raramente
aveva
superato
la
sua
avversaria,
ottenendo
i
maggiori
consensi
soprattutto
nelle
votazioni
all’estero
e in
alcuni
stati
successivamente
passati
al
campo
repubblicano,
come
Michigan
e
Wisconsin.
I
democratici
hanno
preferito
sostenere
apertamente
l’ex
First
lady
anche
per
contenere
il
carattere
dirompente
di
Sanders,
ma
la
campagna
elettorale
della
Clinton
è
stata
resa
difficoltosa,
più
che
dalle
esternazioni
di
Trump,
dal
fatto
che
la
candidata
ha
dovuto
improntare
il
suo
programma
elettorale
sulla
continuità
con
Obama,
a
differenza
di
Trump
o di
Sanders
che,
in
modi
radicalmente
differenti,
puntavano
tutto
sulla
rottura
dell’ordine
preesistente;
ha
inoltre
dovuto
accettare
il
supporto
della
stampa
e di
Wall
Street,
con
la
conseguenza
di
apparire
agli
occhi
dell’opinione
pubblica
come
“l’espressione
dei
poteri
forti”,
una
definizione
che
ha
pesato
sulla
sua
campagna
elettorale.
L’esito
delle
elezioni
generali,
tenutesi
l’8
novembre
scorso,
hanno
portato
alla
vittoria
del
Partito
Repubblicano
che
ha
ottenuto,
oltre
alla
Presidenza,
anche
la
maggioranza
dei
seggi
sia
alla
Camera
sia
al
Senato;
stati
come
la
Florida,
l’Iowa,
il
Michigan,
l’Ohio,
il
Wisconsin
e la
Pennsylvania
sono
passati
ai
Repubblicani.
Hillary
Clinton
aveva
invece
vinto
con
il
voto
popolare,
superando
Trump
di
circa
140
mila
voti
(il
47,7
%
rispetto
al
47,5
%
del
candidato
repubblicano),
ma
al
termine
degli
scrutini
aveva
ottenuto
232
Grandi
Elettori,
contro
i
306
dei
Repubblicani.
Il
risultato
è
stato
contestato
fin
dal
giorno
successivo,
soprattutto
nelle
grandi
città
delle
coste
statunitensi
e
nei
campus
universitari,
che
hanno
indicato
nel
sistema
elettorale
a
doppio
turno
un
metodo
antiquato
per
le
votazioni,
visto
che
non
tiene
conto
della
votazione
individuale
e
permette
la
vittoria
di
un
candidato
che
non
ottiene
la
maggioranza
assoluta
dei
voti
popolari;
una
situazione
analoga
era
già
avvenuta
con
le
elezioni
presidenziali
del
2000,
che
portarono
alla
vittoria
di
Bush
nonostante
la
situazione
di
sostanziale
parità
con
il
suo
rivale,
il
democratico
Al
Gore.
L’esito
del
voto
è
stato
definito
dagli
elettori
e
dagli
analisti
“la
brexit
statunitense”,
perché,
al
pari
del
referendum
britannico
del
giugno
scorso,
anche
in
questo
caso
sondaggisti
ed
esperti
avevano
sottovalutato
del
tutto
la
discrepanza
tra
l’elettorato
e
l’indicazione
di
voto
sostenuta
da
partiti,
stampa
e
circuiti
finanziari;
in
entrambi
i
casi
è
stata
inoltre
completamente
trascurata
la
ripartizione
del
voto
per
luogo
e
fasce
d’età,
in
quanto
tanto
la
brexit
quanto
l’elezione
di
Trump
sono
state
sostenute
principalmente
nelle
aree
rurali
e
deindustrializzate,
a
differenza
delle
elezioni
che
si
possono
definire
“prosistema”
(il
mantenimento
della
Gran
Bretagna
nell’Unione
Europea
nel
primo
caso,
l’elezione
della
Clinton
alla
presidenza
nel
secondo)
che
hanno
vinto
soprattutto
nelle
aree
maggiormente
globalizzate,
dalla
città
di
Londra
agli
stati
costieri
dell’Unione,
dove
la
vivacità
economica
e la
presenza
di
numerose
minoranze
hanno
contribuito
a
creare
una
società
multiculturale
aperta
e
poco
incline
agli
slogan
nazionalisti
propugnati
dai
movimenti
populisti.
Trump
ha
vinto
anche
perché
ha
garantito
una
politica
isolazionista
degli
Stati
Uniti,
con
l’estensione
dei
costi
della
Nato
a
tutti
gli
stati
membri,
ma
occorrerà
del
tempo
per
giudicare
se
la
politica
estera
statunitense
dei
prossimi
anni
sarà
contrassegnata
dalla
volontà
di
cooperare
con
le
altre
grandi
potenze
del
XXI
secolo,
soprattutto
la
Russia
e la
Cina,
come
già
annunciato
dal
neopresidente,
oppure
se
gli
Stati
Uniti
perseguiranno
una
politica
completamente
svincolata
dalle
evoluzioni
geopolitiche
e
improntata
all’hard
power
teorizzato
negli
anni
Novanta
da
politologi
conservatori
e
incentrato
sull’impiego
della
forza
militare
statunitense
sia
per
il
mantenimento
dell’assetto
politico
mondiale
sia
per
garantire
la
difesa
degli
Stati
Uniti,
anche
con
attacchi
preventivi;
l’hard
power,
impiegato
durante
la
presidenza
Bush
(2001-2008)
con
le
guerre
in
Afghanistan
e in
Iraq,
è
stato
abbandonato
durante
l’amministrazione
Obama
che
ha
preferito
il
soft
power,
una
politica
estera
incentrata
sulla
cooperazione
con
gli
alleati
al
posto
di
iniziative
militari
unilaterali.
Il
voto
come
espressione
di
protesta,
oltre
che
negli
Stati
Uniti
e in
Gran
Bretagna,
si è
osservato
anche
in
Germania,
dove
l’Unione
di
Centro
– il
partito
della
Merkel
– è
stato
superato
dal
Partito
Socialdemocratico
(SPD),
ma
negli
stati
federali
del
nord
ha
visto
una
preoccupante
crescita
dei
partiti
di
estrema
destra,
cui
sembra
contrapporsi
simmetricamente
la
crescita
dei
partiti
di
sinistra
nella
Baviera
e
più
in
generale
nella
Germania
meridionale.
In
Francia,
dove
l’anno
prossimo
si
terranno
le
presidenziali,
il
Partito
Socialista
di
Hollande
attualmente
è
dato
in
calo
di
consensi,
al
pari
del
Front
National,
a
differenza
del
partito
conservatore,
diviso
però
tra
le
candidature
di
Sarkozy
e
Juppé.
In
Spagna
si è
invece
finalmente
sbloccata
la
crisi
istituzionale
scaturita
dalle
elezioni
tenutesi
in
giugno,
dove
il
movimento
antisistema
Podemos
ha
avuto
un
brusco
calo
di
consensi
–
probabilmente
derivato
dalla
paura
scaturita
dall’esito
della
brexit
– e
si è
classificato
terzo,
ma
il
Partito
conservatore
ha
vinto
con
uno
scarto
leggero
sul
Partito
socialista;
lo
stallo
che
ne è
derivato
si è
risolto
qualche
settimana
fa,
quando
la
dirigenza
del
partito
socialista
si è
astenuta
al
voto
di
fiducia
al
governo,
consentendo
la
formazione
di
un
esecutivo
di
minoranza.
Il
voto
è
quindi
diventato
una
forma
per
esprimere
dissenso
alle
politiche
governative,
in
un
momento
storico
in
cui
in
Occidente
si
sta
verificando
una
progressiva
erosione
dei
diritti
individuali,
a
cominciare
da
quelli
sul
lavoro;
non
si
vota
più
un
candidato
sulla
base
di
un
programma
elettorale
o di
un’appartenenza
di
partito,
ma
si
vota
contro
le
politiche
dell’esecutivo.
In
Italia,
una
situazione
analoga
si
potrebbe
verificare
con
la
consultazione
referendaria
di
dicembre,
dove
la
sorte
del
governo
è
legata
all’approvazione
delle
modifiche
costituzionali;
il
referendum,
che
dovrebbe
ratificare
la
riforma
di
alcune
parti
della
Costituzione,
è
stato
strumentalizzato
da
tutte
le
opposizioni
che
lo
hanno
presentato
come
un
plebiscito
popolare
a
favore
o
contro
il
governo,
con
la
conseguenza
che
partiti
che
fino
a
qualche
tempo
prima
annunciavano
con
forza
la
necessità
di
introdurre
cambiamenti
molto
più
rischiosi
nella
carta
costituzionale
si
presentano
oggi
come
strenui
difensori
dei
valori
in
essa
contenuti.
L’uso
del
voto
come
strumento
di
dissenso
provoca
però
gravi
conseguenze,
che
vanno
dall’adesione
dell’elettorato
ai
programmi
di
candidati
che
utilizzano
toni
molto
duri,
tanto
che
le
campagne
elettorali
stanno
diventando
sempre
più
violente,
fino
all’esito
del
voto,
dove
raramente
si
ha
una
maggioranza
schiacciante
e
spesso
si
deve
ricorrere
ad
un
ballottaggio,
mentre
nel
sistema
inglese
e
statunitense
questa
misura
non
è
prevista
e
spesso
tra
i
vincitori
delle
consultazioni
e
gli
oppositori
c’è
uno
scarto
molto
scarso.
In
conclusione,
le
elezioni
statunitensi
hanno
portato,
più
che
alla
vittoria
del
candidato
repubblicano,
alla
sconfitta
del
Partito
Democratico;
la
campagna
elettorale
della
Clinton,
ostacolata
tra
l’altro
sia
dalla
divulgazione
di
documenti
effettuata
da
Wikileaks
subito
dopo
le
primarie,
sia
dalla
decisione
dell’FBI,
presa
qualche
giorno
prima
delle
elezioni
e
chiusa
alla
vigilia
del
voto,
di
aprire
un’indagine
sull’utilizzo
del
suo
account
personale
durante
il
suo
incarico
di
Segretario
di
Stato
nel
primo
mandato
di
Obama,
è
stata
segnata
da
errori
tattici
e
dalla
condotta
ambigua
tenuta
dall’amministrazione
uscente
negli
ultimi
mesi
in
politica
estera,
soprattutto
riguardo
alla
Turchia
e al
Medio
Oriente,
ma
soprattutto
dalla
scarsa
considerazione
delle
istanze
popolari,
provate
dalla
crescente
disuguaglianza
economica,
di
una
miglior
redistribuzione
dei
redditi;
ciò
ha
portato
al
paradosso
che
le
categorie
sociali
più
deboli
hanno
votato
per
i
repubblicani,
dalle
minoranze
etniche
agli
immigrati
latinos,
sono
numericamente
aumentate
rispetto
alle
ultime
elezioni
presidenziali
del
2012.
In
ogni
caso,
un’analisi
politica
delle
elezioni
presidenziali
statunitensi
presenta
numerose
analogie
con
l’attuale
evoluzione
politica
in
corso
anche
in
Europa,
che
vanno
dalle
aspettative
economiche
alla
richiesta
di
maggiori
diritti
di
rappresentanza;
non
si
tratta
di
aspetti
circoscrivibili
esclusivamente
agli
Stati
Uniti,
ma
il
dibattito
suscitato
dalla
campagna
elettorale
prima
e
dall’esito
imprevisto
del
voto
poi
ha
mostrato
le
analogie
con
le
modalità
elettorali
e
referendarie
in
atto
in
Europa.