N. 19 - Luglio 2009
(L)
IL PUGNO DURO DELLA DITTATURA IRANIANA
conseguenze di un broglio
di Laura Novak
Teheran è da giorni e giorni ormai a fuoco e ferro. In un
inarrestabile
fiume
di
sangue,
vendette
private,
uccisioni
selettive
e
manifestazioni
disordinate
ma
libere,
la
capitale
iraniana
vede
la
sua
primavera
di
rivoluzione
in
un
clima
torrido,
schiacciata
tra
due
mondi
dalle
anime
diverse
e
complesse,
l’occidente
e
l’Oriente.
L’Iran denominato Repubblica Islamica d’Iran, gestisce il
potere
dualmente:
da
una
parte
la
carica
religiosa
dell’ayatollah
o
Guida
suprema,
dall’altra
il
Parlamento
ed
il
Presidente,
eletti
con
elezioni
a
suffragio
universale
ogni
4
anni.
Ma,
tolta
la
maschera
di
Repubblica
democratica,
l’Iran
svela
in
questi
ultimi
giorni
la
sua
vera
faccia.
Una
dittatura
ferrea
e
fondamentalista
comprime
le
menti,
tenta,
invano,
di
plasmarne
i
pensieri
e
assoggettarne
la
volontà.
La democrazia iraniana non è morta in questi giorni. La
democrazia,
forse,
dall’avvento
Ahmadinejad,
non
è
mai
stata
attuata,
addirittura
concepita.
Subdolamente Ahmadinejad non è, per le istituzioni mondiali,
un
dittatore,
almeno
non
nel
senso
politico.
È
stato
votato
democraticamente
(ma
lo
erano
stati
anche
Mussolini
e
Hitler)
e
finché
gli
altri
organi
governativi
gli
sopravvivono,
non
esiste
dittatura
politica.
Uno svincolo codardo per non dover nominare correttamente
un
potere
teocratico
detenuto
da
un
leader
massimo.
Il
12
giugno
2009
il
popolo,
soggetto
di
voto
sovrano,
ha
espresso
la
sua
scelta.
Dalle
votazioni
ne
sembra
uscito
un
plebiscito.
Il
presidente
iraniano
ultraconservatore
in
carica
Mahmud
Ahmadinejad,
vince
per
il
67%
dei
consensi.
Il suo avversario Mir Hossein Moussavi, moderato ma in ogni
caso
di
schieramento
conservatore
e
nazionalista,
sarebbe
riuscito
ad
ottenere
'solo'
il
33,7%
delle
preferenze.
'Solo'...
Eppure, nella notte, durante i primi spogli delle schede
elettorali,
Moussavi
ne è
certo.
La
sua
vittoria,
assicurata
dagli
exit
poll,
avrebbe
condotto
l’Iran
ad
una
posizione
meno
rigida
e
più
democratica
nella
scacchiera
del
mondo.
All’improvviso però la situazione si ribalta ed il paese si
risveglia
la
mattina
con
un
nuovo/vecchio
presidente,
Ahmadinejad.
Appena proclamata la vittoria schiacciante, forse troppo,
del
leader
in
carica,
il
popolo
di
Moussavi
reagisce,
in
un’onda
di
protesta
straordinaria.
L’ombra lunga del broglio elettorale ha condotto alla prima
vera
rivolta
popolare,
dopo
la
rivoluzione
iraniana
del
1979.
Nell’analisi della situazione non ha molta importanza specifica
chi
siano
i
contendenti;
nonostante
l’apertura
liberale
espressa
in
campagna
elettorale
da
Moussavi,
il
suo
schieramento
politico
non
è di
certo
rivoluzionario.
Quella cui si sta assistendo, non è, quindi, una rivoluzione
per
la
libertà
da
quelle
catene
religiose
e
politiche
che
rendono
l’Iran
un
paese
cerniera,
costantemente
in
bilico
tra
l’estremismo
islamico
ed
il
desiderio
di
appartenere
all’ala
democratica
di
un
mondo
arabo,
sempre
più
infuocato.
È una rivoluzione per la libertà più semplice, per il rispetto
della
sovranità
del
popolo.
L’ondata di contestazione tra le strade di Teheran, evidenzia
una
complessa
mancanza
di
possibilità
d’espressione,
cui,
soprattutto
i
giovani
iraniani,
sono
soggetti
quotidianamente.
La truffa elettorale denunciata da Moussavi e dai suoi sostenitori
(ancora
da
provare
dai
membri
della
corte),
mette
in
luce
come
ogni
singolo
organo
statale,
giudiziario,
istituzionale
o
elettorale,
sia
controllato
e
gestito
da
un
sistema
politico
contraffatto.
Il broglio, dalle cifre pubblicate, sembra essere rivelato
spudoratamente,
senza
il
minimo
bisogno
di
confezionarlo
in
maniera
maggiormente
plausibile.
La sfacciataggine imperversa nelle ore successive al voto.
Ed è lì che il popolo, colto nell’orgoglio per essere ingannato
pubblicamente
davanti
a
tutto
il
mondo,
scende
in
piazza.
La sua voce si leva alta, diventa un urlo di massa per una
libertà
reale
d’espressione
e di
legalità
di
voto.
La situazione precipita ed Ahmadinejad mostra davvero il
suo
senso
di
Stato.
I trasgressori dell’ordine pubblico, coloro che osano contestare
la
sua
autorità
agli
occhi
dell’opinione
pubblica
mondiale,
devono
essere
puniti.
Bastonate, manganellate, incendi dolosi, repressione selvaggia,
arresti
politici,
espulsione
di
diplomatici
stranieri,
uccisioni
di
massa,
spari
sulla
folla
fatta
di
donne
e
bambini,
sparizioni
di
dissidenti
improvvise.
Scene d’ordinaria follia, dispotica e tirannica.
Il pugno inizia ad affondare nel ventre della democrazia,
squarciandola;
senza
necessità
di
giustificazione
al
mondo,
alle
organizzazioni
mondiali
per
la
tutela
dei
diritti
dell’uomo.
L’affare deve rimanere di stato. Nessuna ingerenza estera.
La posizione decisiva viene presa, in seguito ai primi tafferugli,
dalla
guida
suprema
dell’Iran,
l’ayatollah
Ali
Khamenei,
indiscusso
e
potente
leader
religioso.
Senza nessun ripensamento l’ayatollah cancella i dubbi sul
voto,
condanna
i
manifestanti
accusandoli
di
atteggiamento
eversivo
contro
l’unità
e
l’efficienza
nazionale,
annunciando
la
sua
gioia
e
soddisfazione
per
la
vittoria
del
paladino
iraniano,
Ahmadinejad.
Scevra da tutte le ragioni politiche o religiose, la sua
posizione
è
essenzialmente
un
benestare
macabro
alla
repressione
attuata
dal
governo.
Picchiate duro, affinché, esausti, tacciano.
Così come il mondo occidentale deve cessare il suo corrente
sproloquio
sulla
necessità
di
libertà
d’azione
e
parola
nella
situazione
iraniana,
la
gente,
gli
studenti,
il
popolo
comune,
che
non
si
riconosce
nel
lucchetto
comunicativo
di
Ahmadinejad,
deve
essere
imbavagliata
brutalmente.
Internet bloccato, giornalisti minacciati e arrestati, blogger
scomparsi
nel
nulla.
L’informazione sulla situazione avviene, oramai, esclusivamente,
attraverso
immagini
registrate
dai
telefonini
o
attraverso
le
testimonianze
di
manifestanti
coraggiosi
lasciate
sui
blog.
Il mondo in questo modo ha conosciuto Neda, 26 anni, bella,
giovane,
dal
fascino
orientale:
i
suoi
occhi
spalancati
sulla
morte,
la
sua
bocca
insanguinata
e
gli
ultimi
istanti
di
spasmi
e
silenzio.
L’informazione in queste ore sempre più labile, è destinata
a
morire,
flebilmente,
crudelmente,
se a
breve
non
si
cercherà
di
arrestare
la
lama
della
violenza.
Sulla morte violenta di Neda è stata aperta un’inchiesta;
sì
proprio
un’inchiesta…
Ma chi saranno gli imputati? Poliziotti violenti? Comandanti
di
pattuglie
lasciati
a
briglia
sciolta?
Di
sicuro,
se
il
palco
degli
imputati
vedrà
qualche
protagonista
(avvenimento
difficile
da
immaginare),
non
ci
sarà
l’autore
immateriale
ma
morale
della
morte
di
Neda,
come
di
altri
quasi
50
morti
nell’ultimo
mese.
Seppur difficile da immaginare in queste ore di cronaca
serrata
di
continue
violenze,
la
breccia
però
esiste,
si
vede,
si è
finalmente
aperta
dall’interno.
La dittatura, in piena paranoia eversiva, ha paura; e la
manifesta
aggredendo.
Ed ora non si può più nascondere.