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N. 131 - Novembre 2018 (CLXII)

SULLE Elezioni americane di Midterm
Opportunità sprecate (e dove RItrovarle)

di Gian Marco Boellisi

 

Lo scorso 6 novembre 2018, la più grande democrazia al mondo ha votato e si è espressa sull’attuale amministrazione in carica nelle elezioni di Midterm, il tutto rigorosamente in pieno stile Made in Usa. Come ad ogni tornata elettorale che si rispetti, ci sono stati vincitori e vinti, anche se in questo particolare caso i vincitori hanno avuto una vittoria pirrica ed i vinti non sembrano poi così tanto vinti. Ciò che emerge invece abbastanza nettamente è l’immagine di un paese diviso e per nulla compatto come siamo stati spesso abituati ad immaginarlo negli ultimi decenni, al di là del presidente in carica in questa piuttosto che quella amministrazione. Questa frammentazione fu più che evidente il giorno dopo le elezioni del 2016 in cui Donald Trump riuscì a conquistare lo scranno della Casa Bianca, ma oggi risulta essere ancora una ferita aperta ben lontana dal rimarginarsi.

Ma andiamo con ordine nel descrivere i risultati di queste elezioni e tutti gli aspetti che le hanno caratterizzate. Il Midterm ha interessato il rinnovo di 435 membri appartenenti alla Camera, un terzo dei rappresentanti del Senato ed anche la nomina di alcuni governatori all’interno dell’amministrazione federale. La battaglia è stata molto aspra e dura, caratterizzata da toni durante la campagna per nulla incentrati sul “politically correct”. Ciò tuttavia non ci dovrebbe sorprendere vista la figura di Donald Trump e tutti gli exploit a cui siamo stati abituati negli ultimi 2 anni. Il presidente ha affrontato le elezioni con un 41% di consensi a suo favore, valore alto ma che è ben lontano dai massimi raggiunti in passato. I membri del partito repubblicano non hanno cambiato per nulla la propria opinione negativa su Trump, tuttavia, in nome del compromesso politico, hanno accettato con amarezza il fatto che i destini del presidente e del partito sembrino essere legati, almeno per il prossimo futuro. È un rapporto di simbiosi, un elemento senza l’altro sarebbe destinato ad una sconfitta inesorabile di fronte alle elezioni. Il grande quesito che ci si dovrebbe porre è come si sia potuti arrivare a questa situazione.

Dall’altro lato abbiamo i democratici, tanto sicuri di mettere la prima donna della storia all’interno della Casa Bianca nel 2016 quanto sconfitti clamorosamente da un outsider della politica che a malapena si ricorda quali siano i suoi alleati fuori dai confini nazionali. Il partito democratico ha dovuto intraprendere un’importante opera di ricostruzione interna del partito stesso, lavorando sulle proprie figure di spicco e coltivando la classe dirigente del futuro. All’indomani del voto possiamo dire che questa opera di autocritica costruttiva sia iniziata ed abbia prodotto qualche risultato, ma è ben lontana dall’essere compiuta.

Il 6 novembre circa 114 milioni di cittadini americani si sono recati alle urne, contro i 138 delle elezioni presidenziali del 2016. Si può già qui notare una lieve nota di astensionismo, anche dovuta alla sempre maggior sfiducia dei cittadini nei confronti della propria classe dirigente. Gli esiti hanno portato ad un risultato ibrido dal punto di vista politico: infatti la Camera è andata interamente ai democratici, mentre il Senato è rimasto strettamente in mano repubblicana. La maggior parte dei sondaggi lo aveva previsto, confermando così i numeri ante-elezione. Alcuni avevano addirittura pronosticato la cosiddetta “Onda Blu”, un en plein in cui i democratici avrebbero conquistato una maggioranza schiacciante sia alla Camera sia al Senato. Questa tipologia di previsioni può essere categorizzata più facilmente tra le speranze che tra le interpretazioni politiche.

Dall’analisi della provenienza dei voti è emerso che i repubblicani hanno trionfato nettamente nelle zone rurali, mentre i democratici hanno attinto prevalentemente i propri consensi dai centri urbani. Una differenza sostanziale, che ci fa anche rendere conto di quanto all’interno degli Stati Uniti d’America siano presenti due anime distinte che hanno diverse necessità e diversi obiettivi a medio-lungo termine. Il voto, alla fine della fiera, non è stato su questo o su quel valore politico specifico, ma sulla personalità di Donald Trump e su ciò che ha attuato negli ultimi due anni. Questo ci fa capire quanto l’America abbia bisogno di valori per cui lottare e con cui schierarsi ora più che mai.

Il partito democratico ha incentrato l’interezza della sua campagna sul rispetto dei diritti, in particolar modo quelli delle minoranze. Il movimento #metoo, creatosi in seguito all’ondata di scandali sessuali che ha coinvolto Hollywood, è stato un grande protagonista, inserendo un gran numero di nuove figure femminili all’interno della scena. Ciò anche in funzione della cocente sconfitta di Hilary Clinton del 2016. Nonostante queste importanti iniziative, i democratici si sono scontrati con l’amara realtà del non avere all’interno dei propri ranghi una figura carismatica e unificatrice dietro alla quale l’intero partito si potesse unire. Chiuso il capitolo Obama, si è fatta veramente tanta fatica a trovare un leader di spicco, e la ricerca è ancora in corso. Non avendo a disposizione tali personalità, si è fatto affidamento a personaggi con qualità diverse. Infatti hanno preso parte alla scena individui rappresentanti in tutto e per tutto l’opposto di Donald Trump. Una campagna votata all’”essere diversi”, il tutto per guadagnare consensi in un’ottica elettorale.

Nonostante questa frammentarietà diffusa, tra i democratici ha spiccato in particolar modo Bernie Sanders, democratico dell’ala sinistra del partito etichettato più volte come “l’ultimo socialista convinto d’America”. La sua corrente ha ottenuto dei risultati molto importanti, motivo per cui sarà una forza di cui tenere conto nei futuri equilibri. Con il suo inquadramento prettamente neo statalista, Sanders punta a smuovere gli animi degli americani più assopiti che non vedono futuro se non con un’assistenza più attiva da parte dello Stato. La cosa è risultata più che convincente e bisognerà vedere dove porterà nel prossimo futuro.

Un’altra figura che ha fatto la sua comparsa è stata quella di Alexandra Ocasio Cortez, donna di origini latine e piatto forte dei democratici. Donna, giovane, portavoce delle minoranze tanto osteggiate da Trump, nonché la più giovane deputata ad essere stata eletta al Congresso nella storia statunitense, la Cortez ha tutte le carte per essere una di quella personalità su cui il partito democratico vuole investire, in particolar modo nell’ottica di quel non troppo lontano 2020. Oltre alle nuove correnti di pensiero anche quelle per così dire “classiche” si sono ritagliate un modesto spazio. Infatti Bill de Blasio ed i suoi hanno avuto un largo successo in queste elezioni, a testimoniare che una buona parte dell’elettorato democratico non è ancora pronto per soluzioni fresche e giovanili quali quelle proposte dalla Cortez.

In generale quello che si è visto, da parte di entrambi gli schieramenti, è stata la partecipazione di varie categorie lasciate in disparte nelle passate consultazioni elettorali: comunità lgbt, persone di confessione musulmana e soprattutto donne. I repubblicani hanno eletto una donna nata a Seoul, mentre i democratici hanno tra i loro rappresentanti 2 donne musulmane e 2 donne native americane, un vero unicum storico. I dem però non si sono accontentati di ciò, ed hanno proposto nelle proprie liste svariati reduci e veterani dei vari conflitti che hanno visto gli Stati Uniti impegnati negli ultimi anni. Strategia molto sottile, essendo il fine ultimo quello di impiegare figure di ispirazione prettamente repubblicana e riutilizzarle per incanalare i voti nella giusta direzione. Tutto è lecito in amore, in guerra ed in politica.

Al netto del risultato, non si può negare che la rimonta democratica è sostanziale. Il lavoro di questi anni di ricostruire il partito ha iniziato a dare parzialmente i suoi frutti. Con grande probabilità il possesso della maggioranza alla Camera provocherà dei problemi di governabilità a Trump, o quanto meno dei ritardi, il che sarebbe già qualche cosa in più rispetto a questi ultimi due anni. Trump ha promesso che collaborerà con i democratici per ottenere come fine ultimo il bene della nazione. Il problema è che sono parole già sentite. Fino a pochi giorni prima delle elezioni il presidente ha definito i democratici dei “socialisti che vogliono riportare l’America alle condizioni del Venezuela”, parole difficilmente fraintendibili. Trump ha ancora svariati mezzi per poter legiferare secondo i suoi interessi, e con grande probabilità non collaborerà affatto con i democratici. In questi due anni ha collaborato giusto il necessario con il suo stesso partito, difficilmente lo farà con degli avversari politici.

Tuttavia con una maggioranza alla Camera sarà più semplice per i democratici indagare sul presidente in carica. Trump stesso ha affermato il giorno dopo le elezioni che se i democratici indagassero su di lui, lui indagherà su di loro. Voci di corridoio affermano che tra i deputati dem neoeletti vi sia già pronta una richiesta di impeachment firmata e pronta da sottoporre alla Camera e che essi stiano aspettando solamente l’insediamento ufficiale per presentare la mozione. Il clima collaborativo, se mai ci sarà, avrà vita breve.

I democratici ora sono ad un bivio dal quale potrebbe dipendere il loro futuro politico. Le opzioni in gioco sono due. La prima porta ad un’opposizione ad oltranza senza cedere un centimetro di terreno ai repubblicani, cercando di mostrare al paese quanto siano sbagliate le scelte dei propri avversari e al contempo far virare l’opinione pubblica dalla propria parte. Se c’è qualcosa che queste elezioni hanno mostrato è che comportamenti del genere farebbero solamente bene al presidente in carica. Qualora i democratici decidessero di paralizzare il paese in questa maniera rischierebbero molto concretamente di fornire con largo anticipo a Trump una campagna pronta e confezionata per il 2020. Ciò non vorrebbe dire che perderebbero alle elezioni, ma che una vittoria sarebbe decisamente più sudata del normale. La seconda invece sarebbe quella di cercare un compromesso con i repubblicani, varando le leggi necessarie al paese con un consenso bipartisan e opponendosi strenuamente là dove necessario. Comunemente si potrebbe ritenere questa la via più assennata, ma bisogna capire se è quello che l’elettorato democratico si aspetta dalla neo eletta leadership.

Qualunque sia la strada che il partito democratico percorrerà, non dovrà dimenticarsi di fare nel frattempo la cosa più importante di tutte: ricostruire la propria classe dirigente, coltivarla, seguirla passo passo fino ad avere un gruppo maturo e formato per poter venire incontro alle esigenze degli americani, i quali, oggi più che mai, hanno bisogno di una guida decisa e competente.

In conclusione, le elezioni di Midterm del 6 novembre hanno mostrato quanto ci sia ancora da fare nella politica statunitense, sia dal lato repubblicano che da quello democratico. Il paese è spaccato, diviso, in particolar modo sui valori essenziali, i quali nei decenni passati hanno permesso agli Stati Uniti di diventare la potenza egemone in questo particolare momento storico. Molto poteva essere fatto prima di queste elezioni, tant’è che alcuni parlano addirittura di “opportunità sprecata” dal lato democratico, ma ancora di più deve essere fatto nei prossimi due anni. Le presidenziali del 2020 saranno una lotta senza esclusione di colpi, con toni ancora più intensi e non convenzionali di quanto siamo stati abituati a vedere nel recente passato. Donald Trump affronterà la campagna elettorale nel suo solito modo, disprezzando e insultando chiunque si trovi sul proprio cammino. La cosa grave è che nelle ultime due elezioni la suddetta strategia ha funzionato. Dal lato democratico invece si dovrebbe trovare un leader carismatico che guidi il partito verso un orizzonte nuovo e predisposto ad affrontare le sfide future. La Cortez potrebbe essere sicuramente un’opzione, ma è ancora troppo presto per dirlo. C’è chi parla di Michelle Obama, ma non vi è nulla di certo ancora. Si vocifera addirittura un’ipotetica Hilary Clinton bis, ma la speranza è che siano solo voci di corridoio poiché altrimenti ciò testimonierebbe come il partito democratico in 4 anni non abbia imparato nulla dai propri errori. Come i dem vorranno arrivare alle elezioni del 2020 saranno loro stessi a deciderlo, compiendo una scelta di portata storica nell’appoggiare con le dovute condizioni o osteggiare l’attuale amministrazione. Ora più che mai quisque faber fortunae suae.



 

 

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