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N. 113 - Maggio 2017 (CXLIV)

La battaglia di El Alamein
L’illusione della Blitzkrieg e le strategie di Governance militare – Parte II

di Norberto Soldano

 

Nella battaglia di El Alamein si può ravvisare un passaggio “ante litteram” dal prototipo di guerra concepita per essere combattuta e vinta, “corpo a corpo”, dagli eserciti schierati sulla linea di fuoco alle guerre postmoderne “semivirtuali”, vinte “a tavolino” nelle retrovie, davanti alle schermate dei computer, nei trincerati quartier generali dislocati rispetto al teatro di guerra.

 

L’idea stessa di Rommel di vigilare in prima persona e mettere a punto minuziosamente, senza concedere deleghe, gli ultimi preparativi per la battaglia, per quanto ad oggi affascini, già d’allora cominciava a rivelarsi obsoleta ed anacronistica, dal punto di vista militare. Garantiva successi nell’immediato, ma alla lunga mostrava la sua inevitabile fallacia. Altro non era che un ereditato retaggio napoleonico.

 

L’accurata distribuzione di rifornimenti e la scelta ponderata di mezzi militari, a seconda delle diverse occasioni belliche, sono divenuti, nel corso della storia, fattori determinanti in un conflitto militare. Montgomery lo sapeva bene. L’apparato logistico è venuto gradualmente acquistando, negli anni, il suo ruolo preminente nelle strutture organizzative delle forze armate. Si considerino le guerre della postmodernità.

 

Si possono rinvenire, nel metodo autoritativo del generale britannico, le prime tracce di una “teoria militare dell’equilibrio”? Intravedere le sbiadite parvenze di una “teoria della direzione”, dove l’accurata gestione e conseguente meticolosa ripartizione delle risorse economiche, energetiche ed umane assume un ruolo centrale?

 

È lecito usare a riguardo l’espressione “strategie di Governance militare”, ad intendersi per le quali, modelli organizzativi che vedano sostituirsi alle rigide gerarchie verticali nuove strutture logistiche sviluppate in orizzontale?

 

La scissione netta fra potere “direzionale” e “potere esecutivo”, dove il primo è prerogativa esclusiva del comandante supremo della forza armata e il secondo dei suoi sottoposti, stretti ed intimi collaboratori? Possiamo sostenere, quantomeno supporre, che il concetto di “governance” sia stato, magari inavvertitamente, concepito prima nelle sale degli alti comandi militari piuttosto che nelle pagine di Chester Barnard?

 

Fabio Riggi in un’inchiesta sulla rivista The Martian intitolata “I denti e la coda” pone sotto la sua lente di ingrandimento i rivoluzionari e macchinosi ingranaggi degli apparati logistici delle forze armate di oggi. Nota che «con l’evoluzione, soprattutto tecnologica, delle organizzazioni militari, l’organica è diventata sempre più complessa nel momento in cui, soprattutto nel caso delle forze terrestri, si è trattato di ripartire e organizzare non solo uomini, ma anche assegnare alle varie unità veicoli, equipaggiamenti, mezzi da combattimento e quantità sempre più diversificate di materiali».

 

E sottolinea che «la complessità della guerra moderna non ha portato solamente a una espansione, spesso incontrollata, dei reparti e delle strutture logistiche. Il dover dirigere e coordinare tipologie di forze sempre più diverse e articolate, in tempi e spazi sempre più dilatati rispetto al passato, ha comportato la crescita in numero e dimensioni di comandi e stati maggiori».

 

Conclude, infine, la sua brillante analisi precisando che «una parte sempre più rilevante degli organici di un moderno esercito è occupato dalle strutture e dagli organi destinati al comando e controllo». Le fasi finali della battaglia di El Alamein, com’è noto, costarono caro alle forze dell’Asse. Videro, in particolar modo, lo strenuo sacrificio delle divisioni italiane “Ariete”, “Brescia” e “Folgore” che si batterono eroicamente fino all’ultimo colpo di artiglieria contro le forze britanniche. L’espressione commemorativa “la fortuna mancò, non il valore” riecheggia ancora negli animi e nelle coscienze, non soltanto dei reduci, ma di tutti i nostri connazionali.

 

La schiacciante supremazia aerea britannica, il fallimento dell’ultima offensiva tedesca, lanciata da Rommel, conclusasi poi disastrosamente nel settembre 1942, l’attesa ormai operazione “Torch” degli Americani in Marocco lasciavano malauguratamente prefigurare per le forze dell’Asse l’imminente stretta in una morsa mortale.

 

La sconfitta definitiva delle forze dell’Asse nel continente africano, dopo El Alamein, non tardò ad arrivare agli inizi del 1943. Quest’ultima fu una battaglia dai molteplici risvolti. Ci suggerisce la piattaforma “Ars Storia” che ad El Alamein, come osservava lo storico Barnett, «è condensato ironicamente il suicidio della vecchia Europa: perché oggi né tedeschi, né italiani, né inglesi controllano più il Medio Oriente, per il quale hanno così duramente combattuto».

 

Un territorio “brullo” quello nordafricano, che molto aveva da invidiare persino ai “quattro sassi” dell’allora arretrata Albania, oggi in preda alle scorrerie dei terroristi dello Stato Islamico e precipitosamente divenuto loro facile bersaglio dopo i disordini delle “primavere arabe” tanto foraggiate dalle famigerate “organizzazioni non governative”.

 

Un’area strategica su cui le diverse potenze allungano le mani, sicuramente non per le sue sconnesse reti ferroviarie, per le sue raffazzonate strade, le cui buche sono state probabilmente rattoppate ai tempi della colonizzazione italiana, per le storiche “scatolette” della Fiat ancora in circolazione e le macchinette per il caffè con il fascio littorio che tanto sanno di museo itinerante a cielo aperto, ma per i suoi pozzi di “oro nero” su cui l’Occidente, ancora per secoli, avrà tanto da lucrarci.



 

 

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