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N. 58 - Ottobre 2012 (LXXXIX)

Il nuovo Egitto al bivio
TRA modello turco e modello pakistano

di Federico Donelli

 

La vittoria alle elezioni presidenziali egiziane del candidato dei Fratelli Musulmani Mohammed Morsi, ha rappresentato un punto di svolta per il futuro del Paese che si trova ora di fronte ad un nuovo bivio relativo alla scelta da intraprendere per l’equilibrio futuro da instaurare tra islamisti e militari che detengono tuttora molto potere attraverso il Consiglio Supremo delle Forze Armate.

 

Sullo sfondo due possibili modelli di riferimento ma non facilmente attuabili nel particolare contesto egiziano: il modello turco e quello pakistano.

Mohammed Morsi nei suoi primi mesi di presidenza ha intrapreso scelte politicamente tanto inaspettate quanto rilevanti, prima su tutte quella di dimettersi da membro della Fratellanza Musulmana e al contempo dalla sua ufficiale espressione politica, il Partito Libertà e Giustizia, una scelta importante soprattutto dal punto di vista simbolico.

Al contempo ha avviato veri e propri negoziati tra l’importante componente islamica del Paese e il Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF) nel tentativo di trovare un solido equilibrio per il bene del futuro Egitto. Restano difficili da comprendere quali siano gli effettivi poteri di cui gode il Presidente, in virtù del fatto che poco prima delle elezioni presidenziali di giugno lo stesso Consiglio Supremo abbia emanato un decreto volto a limitare i poteri del Presidente almeno fino a che non verrà introdotta la nuova costituzione ancora in fase di lenta e controversa elaborazione.

A tale decreto se ne deve aggiungere uno ulteriore emanato sempre a giugno, ad urne ormai chiuse, il quale è volto a rafforzare il ruolo dei militari nella futura costituzione. Al Consiglio Supremo vengono lasciati ampi poteri decisionali, soprattutto per ciò che concerne la difesa e la sicurezza interna (la nomina del Ministro della Difesa è attribuita al SCAF) ambiti in cui il totale controllo è lasciato nelle mani del comandante militare in capo, il Generale Mohamed Hussein Tantawi dimessosi dalla carica di Ministro della Difesa a seguito degli scontri di agosto nel Sinai al confine con Israele.

In questi mesi a causa del potere detenuto dai militari, i Fratelli Musulmani hanno dovuto promuovere la propria agenda politica in maniera pragmatica evitando uno scontro aperto con il SCAF, ben consapevoli che una tale eventualità porterebbe il Paese sull’orlo di una vera e propria guerra civile.

Allo stesso tempo però i Fratelli Musulmani hanno la necessità di evitare che passi l’immagine di movimento eccessivamente asservito al potere dei militari, immagine più volte pubblicizzata dai loro più diretti concorrenti islamici, ossia i salafiti.

Se i gruppi radicali salafiti dovessero riuscire nel proprio intento di screditare la fratellanza musulmana, minerebbero pericolosamente la popolarità e la fiducia riposta dal popolo egiziano nei confronti di Morsi aprendo ad una nuova fase di instabilità. Il rischio per i Fratelli Musulmani è di perdere la credibilità politica e sociale costruitasi tra molte difficoltà a partire dal 1928 anno della loro nascita.

Detto questo è giusto sottolineare come da più parti, sia mondo arabo che Occidente, diversi analisti hanno già espresso l’idea che la stessa vittoria elettorale di Morsi rappresenti una prova inconfutabile di un compromesso raggiunto dagli islamisti con i militari.

La strategia dei Fratelli Musulmani è quella di riuscire ad emulare l’ascesa al potere politico del partito islamico moderato Giustizia e Progresso (AKP) di Recep Tayyip Erdoğan in Turchia. Il modello turco rappresenta al momento l’ambizione della fratellanza, è tuttavia un processo lungo in cui ad progressivo rafforzamento del controllo politico deve seguire un graduale indebolimento del potere detenuto dai militari e dal gruppo di oligarchi emerso all’ombra del regime di Mubarak. Occorre considerare e focalizzare l’attenzione sull’AKP per ciò che è: effetto più che causa.

L’AKP rappresenta l’apice di un processo nato durante gli anni Settanta, quando il primo partito di impronta islamica (Partito della Salvezza Nazionale) guidato da Necmettin Erbakan, godendo di un ampio credito elettorale, ottenne il controllo di alcuni ministeri considerati dagli islamisti come di primaria importanza (educazione, cultura, affari religiosi).

Una svolta che avrebbe influenzato i successivi sviluppi interni alla politica e alla società turca, preparando le basi per l’ascesa, ad inizio degli anni Duemila, del partito di Erdoğan.

L’AKP ha comunque dovuto, e deve tuttora, fare i conti con il potere e il controllo dell’esercito, che in Turchia è garante della costituzione e della laicità dello Stato; solamente la rapida crescita economica e le riforme in nome di una improbabile adesione all’Unione Europea hanno consentito ad Erdoğan di scalfire in maniera progressiva il potere dei militari.

Il modello turco appare ad oggi difficilmente esportabile nel contesto egiziano sia per le enormi differenze sociali, politiche, culturali ed economiche presenti tra i due Paesi, sia perché la Turchia prima del riemergere dei partiti islamici moderati aveva comunque sperimentato decenni di governo semi-democratico mentre l’Egitto di oggi esce da decenni di regime a partito unico governato dai militari.

Un ulteriore differenza, per nulla da sottovalutare, è quella relativa all’Islam turco che, fortemente influenzato dalle numerose confraternite sufi, si presenta come eterodosso e pronto al compromesso con la modernità, mentre l’Islam egiziano è ortodosso e conservatore, poco disponibile a trovare nuovi equilibri con valori e caratteri moderni.

Questione più che vitale per il futuro dei Fratelli Musulmani e dell’Egitto stesso, sarà la loro capacità di risollevare il Paese soprattutto dal punto di vista economico; solamente un deciso impulso alla crescita con il conseguente miglioramento della stabilità politica e della qualità della vita dei singoli darà la possibilità al partito islamico di erodere il potere dei militari e disinnescare la minaccia salafita.

Ancora una volta il parallelismo con il caso turco evidenzia come l’ascesa dei partiti islamici in Turchia sia stata trainata dall’emergere di un potere economico e finanziario ad essi vicino (Tigri anatoliche, Müsiad) ed al tempo stesso dall’ascesa sociale di una folta classe media religiosa. Il Consiglio Supremo egiziano è ben consapevole che l’eventuale adozione del modello turco, per quanto difficile da realizzare, comporterebbe a medio-lungo termine un loro progressivo indebolimento; questa considerazione spinge i militari a valutare la possibilità di seguire quanto avvenuto in un altro Paese musulmano, ossia il Pakistan.

In Pakistan i militari coadiuvati dal potente servizio di intelligence, si sono dimostrati in grado di sfruttare a proprio vantaggio la debolezza delle istituzioni civili( presidenza, parlamento, magistratura) riuscendo a frenare il potere dei governi eletti. Nonostante negli ultimi anni il potere dei militari sia stato leggermente scalfito, la loro capacità di controllo è rimasta intatta dimostrando in più occasioni di poter facilmente indirizzare le politiche dei governi.

Il Consiglio Supremo egiziano ha negli ultimi mesi dato prova di voler perseguire proprio il modello pakistano, dimostrando di saper sfruttare non solo la divisione tra laici e islamisti, ma anche i molti attriti all’interno degli stessi movimenti islamici (Fratelli Musulmani e Salafiti).

Morsi è ben consapevole della volontà del Consiglio Supremo, per questo motivo vuole cercare di migliorare le proprie relazioni con i rivali politici dei Fratelli Musulmani; così si deve comprendere la sua decisione di nominare un copto e una donna alle cariche di vice Presidente.

Il tema chiave al momento per il futuro del Paese rimane quindi questo difficile rapporto tra i militari e i partiti politici, in particolare la forza di maggioranza dei Fratelli Musulmani; un rapporto che dovrà inevitabilmente cercare un punto di incontro sulla questione più delicata, ovvero la stesura della costituzione.

È probabile che il futuro documento contenga diversi meccanismi istituzionali in grado di consentire ai militari di mantenere comunque un ruolo da garante del futuro sistema di governo multipartitico. Al momento rimangono quattro i punti maggiormente delicati su cui ancora si continua a trattare: il ruolo della legge islamica, il crimine di blasfemia da essa enunciato, il riconoscimento e il ruolo dell’istituzione islamica Al-Azhar e l’importante istituzione della zakat.

Le concessioni reciproche tra militari, laici e islamisti saranno necessarie per evitare che la difficile fase di transizione egiziana possa andare incontro ad un pericoloso stallo con conseguente scontro tra le due principali forze del Paese. Uno scenario plausibile e abbastanza facilmente accettabile da entrambe le parti è quello di una divisione dei ministeri, alla fratellanza il controllo dell’educazione, del sociale e affari religiosi mentre ai militari quello della difesa, esteri e intelligence, scelta questa che troverebbe anche il favore di Stati Uniti e, indirettamente, di Israele.



 

 

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