N. 20 - Gennaio 2007
IN EGITTO
Il Nilo, le piramidi e
l'inquinamento
di
Arturo Capasso
A
fine ottobre sono andato, con un gruppo dell’Aldus
Club, al Cairo e ad Alessandria; ciascuno di noi ha
portato un libro in dono alla Biblioteca Alessandrina,
come c’era stato suggerito da Umberto Eco, che
è il presidente del Club.
Io ho regalato, fra l’altro, il volume I
luoghi costieri del Mediterraneo,
curato da Massimo Rosi e Ferdinando Jannuzzi.
M’è sembrata un’occasione favorevole per far conoscere
la nostra attività. Oltre tutto, i nostri
interlocutori sono rimasti molto interessati al saggio
su Ibn Khaldùn, morto proprio in Egitto nel 1406.
Abbiamo dimostrato di essere sensibili alla loro
cultura e a questo grande uomo del Mediterraneo, che
ha anticipato di alcuni secoli lo studio dei cicli
storici e dell’avvicendamento dialettico dei gruppi
conquistatori.
Quando ho visitato la Biblioteca Alessandrina, era già
calata la sera ed il Ramadàm era stato osservato da
milioni di cittadini.
Entrando in quel Tempio della cultura, ho pensato a
Beethoven. Perché? Ecco, ho ascoltato idealmente le
note della Nona e mi sembrava di “sentire”
mille voci, mille cori che si elevavano al cielo con
l’Inno alla Gioia.
Anche quella era una gioia. Un miracolo che ti portava
a millenni addietro, al “fare” della cultura. Un
abbraccio ideale col passato…
E questo è stato uno degli aspetti positivi ed
esaltanti della “missione” d’Egitto.
Non sto qui a parlare del più e del meno, di
impressioni che possiamo leggere su qualsiasi diario
d’un modesto viaggiatore. Niente di tutto questo.
Ma c’è qualche altra cosa. Mi sono chiesto: devo
parlarne? Ne ho il diritto? O forse sarebbe meglio
tacere? Il dovere prende la mano: guai a stare zitto.
Spunta l’imperativo categorico.
Sono rimasto affascinato dalle testimonianze
millenarie: e chi non lo sarebbe? Ma nono rimasto – e
sono terribilmente angosciato – per la vista d’ogni
giorno. Non voglio parlare d’una politica urbanistica
inesistente. Case iniziate e lasciate con pilastri
all’aria, scatoloni abnormi e mostruosi. E un
paesaggio triste, cupo, inquinato, anche se rallegrato
da ragazzi che giocano, da pastorelli che guidano
delle caprette, dall’asinello bello carico e dal
cammello sempre brontolone.
La spazzatura. Sapete che fine fa?
Le coste dei canali del Nilo sono inondate da sacchi
di plastica variopinta. Si sovrappongono, crescono,
scendono verso l’acqua. Li troviamo nel Mediterraneo.
Altri sono bruciati ed allietano col loro profumo
quanti stanno intorno. E l’aria è sempre più
inquinata.
Quando ho fatto tali semplici osservazioni ai miei
compagni di viaggio, c’è stata quasi una generale
levata di scudi.
Una signora ha detto: “E non ti rendi conto che i
fiumi inquinati ci sono anche da noi?”.
Un’altra: “Manon ha visto che succede in India?”.
Un terzo ha concluso sicuro: “Nello Yemen ci sono
montagne di rifiuti a cielo aperto”.
Sono rimasto senza parole. Ma solo per pochi secondi.
No, io non m’aspettavo di vedere il “sacro” Nilo
ridotto ad una pattumiera. Quello è “anche” il mio
fiume.
Vladimir Majakovskij nel suo poema Khorosciò cantava:
“Nella mia automobile / I miei deputati”.
Io vorrei vedere lungo il “mio” Nilo i miei amici in
meditazione, in contemplazione, non indaffarati a
buttare veleno. L’uomo è padrone del suo destino. Ma
l’egiziano può agire come crede o ha piuttosto dei
doveri “sacri”?
Chi glielo dice? In passato c’erano le stesse
abitudini, ma non c’era l’inghippo di prodotti chimi.
E adesso non arriva neppure più il limo, imbrigliato
in grossi bacini artificiali.
L’acqua è povera: per l’agricoltura ci vogliono i
concimi… Chi lo dice che andiamo male? Ho deciso,
parlano le vittime:
“Io Nilo protesto fermamente. Non è più possibile, mi
buttano addosso buste di plastica con roba dentro: non
è una distrazione di qualcuno, è una distruzione di
massa. Vergogna. Mi state ammazzando e non ve ne
rendete conto. A poco a poco, inesorabilmente. Prima,
almeno, era diverso: ortaggi, papiri, merda, tutto
prendevo: sono la vostra madre lo sono sempre stata.
Ma oggi il vostro progresso infernale sta rovinando la
mia vita. Ma voi non capite? Questa è anche la vostra
vita. Stupidi!”.
Prima di dare la parola alle Piramidi, vorrei dire due
parole sull’Egiziano.
È paziente, operoso. A piedi, sull’asinello, sul
cavallo, sul cammello. È lui. Lo stesso che andava
prima, molto prima. Le mercanzie sono esposte in modo
semplice, trasandato.
I ragazzi s’inventano giochi nei campi, negli spazi
vicino alle palazzine fatiscenti, nei vicoli, lungo le
viuzze.
Ma non è solo e tutto qui.
Auto, camion, furgoni traballanti che trasportano
uomini, donne, animali. Tante formiche. Volti antichi,
simpatici, insistenti, invitanti, accattivanti,
vocianti.
“… Quaranta secoli vi guardano”, disse Napoleone.
Quando furono costruite, le Piramidi dovevano avere
uno splendore eccezionale. Tutto verde intorno. La
desertificazione ha portato la sabbia a sbattere sulle
pareti, le ha graffiate, ingrigite.
Come mai non s’è pensato ad una “faraonica” opera di
recupero, riportando il verde intorno?
Ecco, ce l’ho davanti la piramide. Muta, No, parla:
“Sono passati i millenni, i secoli e sto ancora qui:
Vi guardo, via agitate, dormite, vi uccidete. Io sto
qui. E voi? Siete piccoli, molto piccoli. Non siete
neppure capaci di togliermi questa polvere che non mi
lascia respirare. Siete tanti moscerini che mi girate
intorno, venite da tutto il mondo. Guardate me, noi
tre, la Sfinge. Che volete? Più avanza “il progresso”,
più s’accorciano le distanze, più numerosi siete qui.
Il vostro vociare frenetico e babilonico, le foto, sì
le foto per “immortalare” il momento magico che state
vivendo, l’aria che mi buttate in faccia e che arriva
fino alla cima.
E, come se non bastasse, mi arrivano dai vostri mezzi
i gas di scarico. Perché non tornate al cammello?
Siete esigenti. Ma voi finirete male, ve lo dico io.
Io che ne ho viste tante…”.
(tratto dal volume
(pp. 310, editore Giannini) dedicato al 4° Convegno
internazionale sulle coste del Mediterraneo)
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