N. 121 - Gennaio 2018
(CLII)
UN PERCORSO ARABISTICO
IMMAGINI DeLL’eGITTO FARAONICO DALLE FONTI ARABE CLASSICHE
di Vincenzo La Salandra
In
questo
contributo
si
prendono
in
esame
alcune
immagini
islamiche
dell’Egitto
faraonico:
pescando
nella
letteratura
araba
del
Medioevo
si
cercherà
di
presentare
un
percorso
arabistico
ed
egittologico,
allo
stesso
tempo.
Le
fonti
che
saranno
alla
base
di
questa
piccola
disamina
sono
i
geografi
al-Mas’ùdì
e
al-Qazwìnì,
con
stralci
estratti
dalle
fonti,
gli
storici
Muhammed
Ibrahim
Giaziri
(1263-1338
d.
C.)
e
Yaqùt
(XIII
secolo)
ma
anche
il
medico
arabo
e
viaggiatore
Abd
el-Latif
(XII
secolo),
fino
allo
storico
egiziano
al-Maqrizi
(1364-1442).
Zakariyyà’
ibn
Muhammad
al-Qazwìnì
(1202-1283)
descrisse
la
terra
e le
sue
creature
nel
suo
libro
singolare
Le
meraviglie
del
creato
e le
stranezze
(o
singolarità)
degli
esseri,
una
concisa
enciclopedia
medievale
della
geografia
musulmana,
delle
scienze
islamiche,
d’astronomia
pratica,
di
adab
e di
meraviglie.
In
una
sezione
dedicata
ai
fiumi,
spicca
per
ampiezza
la
descrizione
del
Nilo,
il
riferimento
perenne
e
imprescindibile
per
la
comprensione
dell’Egitto:
«Fiume
Nilo.
Non
vi è
sulla
terra
fiume
più
lungo
del
Nilo,
poiché
il
suo
percorso
si
misura
in
un
mese
di
viaggio
nei
paesi
dell’Islàm,
due
mesi
nei
paesi
della
Nubia
e
quattro
mesi
nei
climi
inabitati
e
desertici,
fino
alle
regioni
dei
Monti
della
Luna,
oltre
l’equatore.
È il
solo
fiume
della
terra
che
scorra
da
sud
a
nord.
Si
estende
nelle
regioni
dove
c’è
un
caldo
intenso
e il
livello
delle
sue
acque
aumenta
e
diminuisce
regolarmente.
La
causa
di
tale
aumento
consiste
nel
fatto
che
Dio
l’Altissimo
invia
il
vento
del
Nord,
che
rivolta
contro
di
lui
il
mare
salato,
facendolo
diventare
simile
a un
ubriaco.
Allora
si
ingrossa,
si
sparge
sulle
colline
e
sulle
alture
e
scorre
nelle
insenature
fino
a
riempirle.
Quando
arriva
al
limite,
ovvero
quando
è
completata
l’irrigazione
e
giunge
il
tempo
di
coltivare,
Dio
l’Altissimo
manda
il
vento
del
Sud,
che
lo
fa
sfogare
nel
mare.
La
gente
beneficia
della
terra
che
è
stata
irrigata.
Sin
dal
tempo
di
Giuseppe
ci
si
serve
di
un
misuratore,
il
Nilometro,
per
conoscere
l’ammontare
della
crescita
e
della
diminuzione
dell’acqua.
La
coltivazione
viene
regolata
in
base
a
questo
strumento
e,
quando
aumenta
la
quantità
per
loro
necessaria,
la
gente
si
rallegra
per
la
fertilità
dell’annata
e
l’ampiezza
del
raccolto.
Questo
misuratore
è
una
colonna
piantata
in
mezzo
a
una
vasca,
sulla
riva
del
Nilo,
con
un
canale
collegato
al
fiume
nel
quale
entra
l’acqua
quando
aumenta.
Su
quella
colonna
vi
sono
delle
linee
graduate
che
indicano
la
misura
della
sua
crescita.
Il
minimo
annuo
sufficiente
per
la
popolazione
dell’Egitto
è di
14
braccia.
Se
aumenta
di
16
braccia,
coltivano
di
più
rispetto
alla
solita
quantità
annuale.
Il
massimo
aumento
è di
18
braccia,
calcolando
ogni
braccio
come
24
dita».
Il
famoso
Nilometro,
tuttora
esistente,
venne
ufficialmente
completato
nell’anno
861
d.
C.
dal
califfo
abbaside
al-Mutawakkil,
che
regnò
dall’847
all’861.
Ed
ecco,
dopo
l’introduzione
tecnica
nella
descrizione
del
fiume,
al-Qazwìnì
passa
alla
leggenda
di
rifondazione
islamica
in
Egitto,
con
la
sostituzione
della
pratica
idolatrica
precedente
con
la
forza
della
‘parola’
araba,
simbolo
di
preghiera
e
intelligenza
attiva.
Allo
stesso
modo
e in
parallelo
si
potrebbe
pensare
all’islamizzazione
delle
isole
Maldive
descritta
da
Ibn
Battuta,
altro
grande
viaggiatore
musulmano,
con
un
simile
sacrificio
della
fanciulla
che
viene
umanamente
abolito
e
scongiurato
in
nome
dell’Islàm
e
del
Profeta,
in
Egitto
come
in
India.
Ecco
il
brano
che
ci
interessa:
«‘Abd
al-Rahmàn
ibn
‘Abd
al-Hakam
ha
raccontato:
“Quando
i
musulmani
conquistarono
l’Egitto,
i
suoi
abitanti
andarono
da
‘Amr
ibn
al-As
e
gli
dissero:
‘Principe,
nel
nostro
paese
c’è
una
tradizione
senza
rispettare
la
quale
il
Nilo
non
scorre.
Quando
sono
passate
dodici
notti
dal
mese
di
Ba’ùna,
andiamo
da
una
giovane
vergine,
ricompensiamo
i
suoi
genitori,
le
mettiamo
addosso
i
gioielli
e i
vestiti
migliori
e la
gettiamo
nel
Nilo,
affinché
esso
scorra
copioso’.
Allora
‘Amr
rispore
loro:
‘Questo
nell’Islàm
non
è
possibile!’.
Passarono
i
mesi
di
Ba’ùna,
Abìb
e
Misrà,
e
l’acqua
non
scorreva
né
poco,
né
tanto.
La
gente
cominciò
a
pensare
di
andarsene
via.
Quando
‘Amr
vide
ciò,
scrisse
a
‘Umar
ibn
al-Khattàb,
per
infornarlo
di
quanto
era
accaduto,
e
quello
gli
rispose:
‘Ho
già
stabilito
che
questo
nell’Islàm
non
è
ammesso.
Ti
ho
inviato
dunque
una
carta:
gettala
nel
Nilo!’.
Ecco
quanto
diceva
la
carta:
‘Da
‘Abd
Allàh
‘Umar,
comendante
dei
credenti
al
Nilo
d’Egitto.
Se
tu
scorri
di
tua
iniziativa,
non
scorrere!
Ma
se è
l’Unico,
il
Vincitore,
Colui
che
ti
fa
scorrere,
allora
noi
chiediamo
a
Dio,
l’Unico,
il
Vincitore,
che
ti
faccia
scorrere!’.
‘Amr
ibn
al-’As
gettò
la
carta
nel
Nilo
un
giorno
prima
della
festa
della
Croce.
La
gente
d’Egitto
già
si
preparava
all’esodo,
ma
ecco
che
quel
giorno
Dio
l’Atissimo
aveva
fatto
straripare
il
Nilo
di
16
braccia
in
una
notte
sola.
L’acqua
ruppe
gli
argini
e
riempì
tutta
la
terra
d’Egitto,
tanto
che,
al
di
sopra
del
suo
livello,
rimasero
solo
colline
e
paesi,
mentre
il
resto
della
terra
ne
era
sommerso.
La
terra
ricevette
la
sua
piena
misura
d’acqua,
fu
irrigata
e in
essa
vennero
piantate
varie
specie
di
semenze.
E in
questo
vi è
un
esempio
istruttivo».
Per
chiarire
l’opinione
che
gli
Arabi
avevano
delle
iscrizioni
e
delle
immagini
delle
divinità
dei
templi
d’Egitto,
è
utile
ricordare
una
storia
da
al-Mas’ùdì
(897-957),
uno
dei
maggiori
storici
e
cosmografi
arabi,
che
scrisse
Les
Prairies
d’Or,
Muruj
adh-dhahab,
Le
Praterie
d’Oro,
un
capolavoro
medievale
del
suo
genere.
Secondo
al-Mas’ùdì
sembrerebbe
che
quando
l’esercito
del
faraone
fu
sommerso
dal
Mar
Rosso,
le
donne
e
gli
schiavi
furono
presi
dal
terrore
di
dover
essere
assaliti
dai
re
della
Siria
e
dell’Occidente;
in
tale
occasione
nominarono
loro
regina
una
donna
di
nome
Dalukah
perché
era
saggia,
prudente
ed
abile
nelle
arti
magiche.
La
prima
azione
di
Dalukah
consistette
nel
cingere
l’Egitto
con
un
muro
che
fece
sorvegliare
da
uomini
appostati
a
brevi
distanze
l’uno
dall’altro
e
con
lo
scopo
di
proteggere
sia
suo
figlio,
dedito
alla
caccia,
dagli
attacchi
delle
bestie
feroci,
sia
il
paese
d’Egitto
dalle
invasioni
delle
tribù
nomadi.
Inoltre
collocò
intorno
al
muro
immagini
di
coccodrilli
e di
altri
animali
formidabili.
Nel
corso
del
suo
regno,
durato
trent’anni,
riempì
l’Egitto
di
suoi
templi
e di
simulacri
di
animali;
costruì
anche
immagini
di
uomini
che
avevano
l’aspetto
degli
abitanti
dei
paesi
vicini
all’Egitto
e
alla
Siria
Occidentale
e
degli
animali
che
questi
cavalcavano.
Raccolse
nei
templi
tutti
i
segreti
della
natura
e
tutti
i
poteri
di
attrazione
e
repulsione
contenuti
nei
metalli,
nelle
piante
e
negli
animali.
Compiva
le
sue
stregonerie
nel
momento
della
rivoluzione
dei
corpi
celesti,
quando
questi
sarebbero
stati
più
arrendevoli
ad
un
potere
superiore.
E
capitò
che
se
un
esercito
proveniente
da
una
parte
qualunque
dell’Arabia
o
della
Siria
si
metteva
in
cammino
per
attaccare
l’Egitto,
la
regina
faceva
in
modo
che
i
simulacri
di
quei
soldati
e
degli
animali
che
cavalcavano
sparissero
sotto
terra
e la
stessa
sorte
toccava
alle
creature
viventi
che
essi
rappresentavano,
dovunque
si
trovassero
in
viaggio:
la
distruzione
delle
immagini
scolpite
provocava
l’annientamento
dell’esercito
nemico.
In
breve,
i
grandi
simulacri
degli
dei,
scolpiti
o
dipinti
sulle
pareti,
e le
iscrizioni
di
geroglifici
che
li
accompagnavano,
venivano
considerati
da
coloro
che
non
potevano
né
capirli
né
leggerli,
niente
di
più
o di
meno
di
immagini
e
formule,
destinate
a
servire
come
talismani.
In
un
altro
luogo
delle
Praterie
d’Oro,
il
nostro
al-Mas’ùdì
riporta
un
interessante
esempio
dei
poteri
di
magia
operativa
posseduti
da
un
certo
ebreo:
il
fatto
è
utile
per
provare
che
le
pratiche
magiche
degli
Egiziani
si
erano
trasmesse
in
Oriente,
trovando
un
terreno
fertile
tra
gli
ebrei
che
vivevano
a
Babilonia
e
nei
suoi
dintorni.
Infatti
quell’uomo
era
nativo
del
villaggio
di
Zurarah,
nella
contrada
di
Kufa,
e
passava
il
suo
tempo
a
compiere
atti
di
magia.
Nella
moschea
di
Kufa
e
alla
presenza
di
Walid
ibn
Ukbah
richiamò
parecchi
spiriti
e
fece
galoppare
un
re
di
alta
statura,
il
quale
montava
un
cavallo,
per
il
cortile
della
moschea.
Quindi
si
trasformò
in
cammello
e in
funambolo,
camminando
su
una
fune;
e
fece
in
modo
che
il
fantasma
di
un
asino
passasse
attraverso
il
suo
corpo
e,
infine,
dopo
aver
ucciso
un
uomo
gli
tagliò
la
testa,
la
spostò
dal
corpo
e
quindi
dopo
aver
fatto
passare
la
spada
attraverso
le
due
parti,
le
riunì
e
l’uomo
ritornò
in
vita.
Quest’ultima
azione
ricorda
da
vicino
l’unione
della
testa
dell’oca
morta
al
suo
corpo
e il
ritorno
in
vita
del
volatile,
come
risulta
in
un
antichissimo
racconto
del
papiro
Westcar.
Passando
agli
obelischi,
e
con
speciale
riferimento
all’obelisco
di
Sesostri
I a
Eliopoli
che
in
origine
aveva
un
gemello,
è
utile
ricordare
un’attestazione
dello
storico
arabo
al-Maqrizi
(1364-1442),
il
quale
nel
descrivere
le
rovine
dell’antichissima
civiltà
faraonica,
e
specialmente
gli
obelischi
egizi,
riferisce
un
particolare
interessante:
al-Maqrizi
afferma
che
le
coperture
erano
simili
all’oro
e
che
vi
si
notava
rappresentata
la
figura
di
un
personaggio
rivolto
al
sole
nascente
e
seduto
su
un
trono.
Seguendo
un
altro
storico
arabo,
Yaqùt,
che
scriveva
agli
inizi
del
XIII
secolo,
registriamo
che
egli
menziona
gli
obelischi
dicendo
che
la
gente
li
chiama
Messalat
Fara’un,
ovvero
gli
Aghi
da
rammendo
del
Faraone.
Tuttavia
le
informazioni
più
complete
su
tale
argomento
ci
vengono
da
Abd
el-Latif,
famoso
medico
arabo
che
compì
lunghi
viaggi
nell’ultimo
quarto
del
dodicesimo
secolo.
Nella
relazione
dei
suoi
viaggi
Abd
el-Latif
descrive
gli
obelischi
con
piglio
tecnico
e
precisione
geometrica,
come:
«
(…)
colonne
a
sezione
quadrata
terminanti
in
forma
di
piramide,
alti
cento
cubiti,
eretti
sopra
basamenti
di
dieci
metri
quadri.
La
sommità
di
ciascuno
era
ricoperta
con
un
rivestimento
di
rame
a
forma
di
imbuto
che
ricopriva
per
una
porzione
di
tre
cubiti
la
parte
superiore
dei
monoliti.
A
causa
della
pioggia
e
del
passare
del
tempo
il
rame
si
era
ossidato
e
l’acqua
che
scendeva
dalla
cuspide
aveva
macchiato
i
monumenti
di
verde.
L’intera
superficie
di
entrambi
era
ricoperta
di
iscrizioni
in
caratteri
religiosi
(…)»,
quelli
che
appunto
chiamiamo
geroglifici.
Descrivendo
gli
obelischi
a
Eliopoli,
Abd
el-Latif
aggiunge,
in
conclusione,
che
uno
di
essi
giaceva
a
terra,
diviso
in
due
pezzi.
Certamente,
nella
descrizione
del
medico
e
viaggiatore
arabo,
l’altezza
degli
obelischi
è
esagerata,
ma
la
generale
accuratezza
della
descrizione
di
Abd
el-Latif
che
ci è
pervenuta
rende
la
sua
relazione,
così
ricca
di
particolari,
una
fonte
preziosa.
Quando
scriveva
Abd
el-Latif
uno
dei
due
grandi
obelischi
eliopolitani
giaceva
già
a
terra:
a
confermarlo
è
uno
storico
arabo
posteriore,
Muhammad
Ibrahim
Giaziri
(1263-1338
d.
C.).
Secondo
al-Giaziri
l’obelisco
era
caduto
nel
quarto
giorno
di
Ramadan
nell’anno
656
dell’égira
(1258
d.
C.)
e
aggiunge
che
ne
vennero
estratti
duecento
quintali
di
rame,
per
un
valore
di
diecimila
dinari.
È
tuttavia
probabile
che
la
data
più
precisa
per
la
caduta
del
monolito
sia
da
ritenersi
il
556
dell’égira
(1158
d.
C.),
il
che
si
adatterebbe
meglio
alle
informazioni
di
Abd
el-Latif.
È
probabile
che
l’obelisco
sia
stato
fatto
cadere
intenzionalmente
dagli
abitanti
del
luogo
i
quali
supponevano
che
celasse
sotto
di
sé
un
mirabile
tesoro.
È
possibile
chiudere
circolarmente
con
al-Qazwìnì,
che
in
tema
di
meraviglie
e di
tesori
era
sempre
sensibile
alla
fauna
nelle
sue
descrizioni,
qui
vista
come
mitica
abbondanza
d’Egitto:
«Tra
le
cose
meravigliose
del
Nilo
ci
sono
il
pesce
tremola
e il
coccodrillo
(…)
Nel
Nilo
c’è
un
luogo
in
cui
ogni
anno,
in
un
giorno
stabilito,
si
incontrano
i
pesci,
e
l’uomo
li
può
prendere
con
le
mani
nella
misura
che
desidera.
Dopodiché
i
pesci
si
separano
fino
allo
stesso
giorno
dell’anno
successivo».